Cons. Stato, Sez. V, 18 maggio 2017, n. 3448

1) L'impossibile esecuzione da parte della stazione appaltante della sentenza ripristinatrice dell'aggiudicazione inizialmente ottenuta dall'impresa ricorrente, non estingue l'obbligazione gravante sulla Pubblica Amministrazione ma determina la sua conversione nella diversa tipologia di natura risarcitoria. La Pubblica Amministrazione soccombente, in virtù di una responsabilità oggettiva di natura contrattuale, è, quindi, tenuta al risarcimento del danno in favore dell'impresa originariamente pretermessa.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 6923 del 2015, proposto da:
Tecnimpresa s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Renzo Cuonzo, Stefano Canal e Enrico Minnei, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Renzo Cuonzo in Roma, via di Montefiore, n. 22;

contro

Comune di Pieve di Cadore, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Diego Signor, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Luigi Manzi in Roma, via Federico Confalonieri, n. 5;

e con l'intervento di

ad adiuvandum:
Fontana s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Enrico Gaz e Stefano Gattamelata, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Stefano Gattamelata in Roma, via Monte Fiore, n. 22;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. VENETO – VENEZIA, Sez. I, n. 442/2015, resa tra le parti, concernente il risarcimento del danno per la mancata aggiudicazione dell’appalto dei lavori di restauro consolidamento e valorizzazione di un complesso storico architettonico;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Pieve di Cadore;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 maggio 2017 il Cons. Roberto Giovagnoli e uditi per le parti gli avvocati Renzo Cuonzo, Paolo Caruso, su delega dell’avvocato Signor, e Stefano Gattamelata;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. La società Tecnimpresa Fontana s.r.l., già aggiudicataria della gara indetta dal Comune di Pieve di Cadore per l’affidamento dei lavori di restauro, consolidamento e valorizzazione del complesso storico architettonico del forte di Monte Ricco e della batteria di Castello – primo lotto – è stata, con sentenza del T.a.r. Veneto n.3660/2008, successivamente esclusa dalla gara ed il lavoro è stato affidato alla società Eurocostruzioni s.p.a.

Avverso la predetta sentenza la società Tecnimpresa Fontana s.r.l. ha proposto appello con istanza di misura cautelare, ma quest’ultima è stata respinta dal Consiglio di Stato con ordinanza n. 10084 del 2008.

Con la sentenza 11 aprile 2013, n. 1971, il Consiglio di Stato ha poi accolto l’appello nel merito, così respingendo il ricorso proposto in primo grado da Eurocostruzioni s.p.a.

2. Con successivo ricorso giurisdizionale la società Tecnimpresa s.r.l., nelle more costituitasi in conseguenza della cessione, da parte società della Tecnimpresa Fontana s.r.l., di un ramo d’azienda, (considerato che nel frattempo i lavori erano stati integralmente eseguiti da Eurocostruzioni s.p.a. con conseguente impossibilità per la ricorrente di ottenere la tutela in forma specifica mediante il subentro nel rapporto contrattuale), ha domandato il risarcimento del danno subito per la ingiusta esclusione nella realizzazione del lavoro per cui era stata indetta la gara.

3. Con la sentenza di estremi indicati in epigrafe, il T.a.r. ha respinto la domanda risarcitoria per difetto di legittimazione di Tecnimpresa s.r.l.

Il primo giudice, in particolare, sulla base della relazione di stima redatta ex art. 2465 Cod. civ., ha ritenuto che legittimata attiva rispetto alla richiesta di risarcimento del danno fosse, eventualmente, la società Tecnimpresa Fontana s.r.l. (cedente del ramo d’azienda) e non la cessionaria Tecnimpresa s.r.l.

Secondo il T.a.r., infatti, la cessione di ramo d’azienda (intervenuta prima della sentenza del T.a.r. che aveva determinato l’esclusione di Tecnimpresa Fontana dalla gara) non aveva determinato il trasferimento a favore della cessionaria di alcun diritto di credito, né di alcuna posizione di vantaggio nei confronti del Comune di Pieve di Cadore, sorta in seguito alla “revoca” della precedente aggiudicazione e del nuovo provvedimento di aggiudicazione a favore di Eurocostruzioni s.p.a., adottato in esecuzione della sentenza del T.a.r. Veneto n. 3660/2008.

4. Per ottenere la riforma di detta sentenza ha proposto appello la società Tecnimpresa s.r.l.

5. Si è costituito in giudizio per resistere al gravame il Comune di Pieve di Cadore.

6. Ha spiegato intervento ad adiuvandum delle ragioni dell’appellante la società Fontana s.r.l. (già Tecnimpresa Fontana s.r.l, che ha poi acquisito tale nuova denominazione a seguito di mutamento della originaria denominazione sociale intervenuta con atto rep. 75865 a rogito del notaio Ruggero Orlando in data 20.1.2009 e iscritto nel registro delle imprese in data 30.1.2009), cedente del ramo d’azienda.

7. Alla pubblica udienza del 18 maggio 2015, la causa è stata trattenuta per la decisione.

8. L’appello merita accoglimento.

9. Occorre, in primo luogo, evidenziare che la sussistenza della legittimazione attiva a favore dell’odierna appellante risulta coperta dal giudicato formatosi sulla sentenza del Consiglio di Stato, Sezione V, 11 aprile 2013, n. 1971. La cessione del ramo d’azienda è, infatti, avvenuta in data 22 dicembre 2008, pochi giorni dopo la proposizione dell’appello (in data 16 dicembre 2008) da parte di Tecnimpresa Fontana s.r.l. contro la sentenza del T.a.r. Veneto che ne aveva determinato l’esclusione dalla gara.

Nel corso del giudizio di appello Tecnimpresa s.r.l. si è costituita, palesando la sua successione quale cessionaria del ramo d’azienda da parte dell’originaria appellante e dichiarandosi esplicitamente successore nella situazione controversa ai sensi dell’art. 111 c.p.c. L’intestazione della memoria illustrativa depositata in data 6 marzo 2013, reca, peraltro, l’inequivoca formula “Memoria illustrativa per Tecnimpresa s.r.l. (già Tecnimpresa Fontana s.r.l.)”.

In quel giudizio, conclusosi con la sentenza n. 1971 del 2013 ormai passata in giudicato, la questione dell’eventuale difetto di legittimazione della cessionaria Tecnimpresa (pur risultando la cessione dagli atti del giudizio) non è stata né eccepita, né rilevata d’ufficio. In base al principio secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile, la sussistenza della legittimazione attiva di Tecnimpresa deve, pertanto, ritenersi coperta dal giudicato.

10. In ogni caso, nell’interpretazione del contratto di cessione del ramo d’azienda intercorso tra Tecnimpresa Fontana s.r.l. e Tecnimpresa s.r.l. non si può che attribuire rilievo preminente alla “comune intenzione delle parti” (art. 1362 c.c.), quale emergente, oltre che dal tenore letterale delle dichiarazioni, anche dal loro comportamento complessivo, anche posteriore alla conclusione del contratto.

Sotto tale profilo, risulta dotata di significativa rilevanza la circostanza che le parti del contratto di cessione del ramo d’azienda sono concordi nel ritenere che la cessione abbia riguardato anche le situazioni giuridiche soggettive nascenti dalla partecipazione alla gara oggetto del presente contenzioso. Le stesse dichiarazioni rese dalla cedente Fontana nel suo atto di intervento ad adiuvandum sono conformi alla tesi dell’appellante e da esse emerge che la concorde volontà delle parti è nel senso che, sulla base delle intese intercorse, la cessione ha trasferito le situazioni soggettive correlata alla partecipazione alla gara d’appalto bandita dal Comune di Pieve di Cadore.

11. Si può, pertanto, passare all’esame nel merito della domanda risarcitoria formulata da Tecnimpresa s.r.l.

A tale riguardo va evidenziato che la vicenda oggetto del presente giudizio presenta elementi di significativa analogia con la fattispecie recentemente esaminata dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza 12 maggio 2017, n. 2.

Anche in questo caso il danno di cui si chiede il risarcimento è connesso all’impossibilità di conseguire in forma specifica l’esecuzione del giudicato: nella specie del giudicato formatosi sulla sentenza del Consiglio di Stato n. 1971/2013 che, accogliendo l’appello proposto da Tecnimpresa s.r.l., ha rigettato il ricorso di primo grado e ha fatto rivivere l’originaria aggiudicazione disposta a favore della stessa Tecnimpresa.

12. Le difese svolte dal Comune di Pieve di Cadore per contrastare la sussistenza del diritto al risarcimento del danno devono essere respinte proprio richiamando i principi enunciati dalla citata sentenza dell’Adunanza Plenaria n.2 del 2017, in base ai quali:

a) dal giudicato amministrativo, quando riconosce la fondatezza della pretesa sostanziale, esaurendo ogni margine di discrezionalità nel successivo esercizio del potere, nasce ex lege, in capo all’amministrazione, un’obbligazione, il cui oggetto consiste nel concedere “in natura” il bene della vita di cui è stata riconosciuta la spettanza;

b) l’impossibilità (sopravvenuta) di esecuzione in forma specifica dell’obbligazione nascente dal giudicato – che dà vita in capo all’amministrazione ad una responsabilità assoggettabile al regime della responsabilità di natura contrattuale, che l’art. 112, comma 3, c.p.a., sottopone peraltro ad un regime derogatorio rispetto alla disciplina civilistica – non estingue l’obbligazione, ma la converte, ex lege, in una diversa obbligazione, di natura risarcitoria, avente ad oggetto l’equivalente monetario del bene della vita riconosciuto dal giudicato in sostituzione della esecuzione in forma specifica; l’insorgenza di tale obbligazione può essere esclusa solo dalla insussistenza originaria o dal venir meno del nesso di causalità, oltre che dell’antigiuridicità della condotta;

c) alla luce della natura oggettiva della responsabilità della stazione appaltante e del carattere sostanzialmente ed eminentemente sostitutivo, rispetto alla tutela reale, del peculiare rimedio di cui all’art. 112, comma 3, c.p.a., è da escludere che l’esistenza di un provvedimento giurisdizionale esecutivo (come la sentenza di primo grado) possa valere a “coprire” l’operato della pubblica amministrazione, recidendo il nesso di causalità tra il comportamento dell’amministrazione e l’impossibilità di eseguire il giudicato.

13. Può quindi passarsi ad esaminare il quantum debeatur.

Anche a tale proposito, è utile richiamare i principi elaborati dalla sentenza dell’Adunanza plenaria n. 2 del 2017, alla stregua dei quali:

a) ai sensi degli artt. 30, 40 e 124, comma 1, c.p.a., il danneggiato deve offrire la prova dell’an e del quantum del danno che assume di aver sofferto;

b) nel caso di mancata aggiudicazione il risarcimento del danno conseguente al lucro cessante si identifica con l’interesse c.d. positivo, che ricomprende sia il mancato profitto (che l’impresa avrebbe ricavato dall’esecuzione dell’appalto), sia il danno c.d. curricolare (ovvero il pregiudizio subìto dall’impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum e dell’immagine professionale per non poter indicare in esso l’avvenuta esecuzione dell’appalto). Non è dubitabile, invero, che il fatto stesso di eseguire un appalto pubblico (anche a prescindere dal lucro che l’impresa ne ricava grazie al corrispettivo pagato dalla stazione appaltante), possa essere, comunque, fonte per l’impresa di un vantaggio economicamente valutabile, perché accresce la capacità di competere sul mercato e, quindi, la chance di aggiudicarsi ulteriori e futuri appalti;

c) spetta all’impresa danneggiata offrire la prova dell’utile che in concreto avrebbe conseguito, qualora fosse risultata aggiudicataria dell’appalto, poiché nell’azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell’azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, c.p.a.); quest’ultimo, infatti, in tanto si giustifica in quanto sussista la necessità di equilibrare l’asimmetria informativa tra amministrazione e privato la quale contraddistingue l’esercizio del pubblico potere ed il correlato rimedio dell’azione di impugnazione, mentre non si riscontra in quella di risarcimento dei danni, in relazione alla quale il criterio della c.d. vicinanza della prova determina il riespandersi del predetto principio dispositivo sancito in generale dall’art. 2697, primo comma, c.c.;

d) la valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità – o di estrema difficoltà – di una precisa prova sull’ammontare del danno;

e) le parti non possono sottrarsi all’onere probatorio e rimettere l’accertamento dei propri diritti all’attività del consulente tecnico d’ufficio neppure nel caso di consulenza cosiddetta “percipiente”, che può costituire essa stessa fonte oggettiva di prova, demandandosi al consulente l’accertamento di determinate situazioni di fatto, giacché, anche in siffatta ipotesi, è necessario che le parti stesse deducano quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti;

f) la prova in ordine alla quantificazione del danno può essere raggiunta anche mediante presunzioni; per la configurazione di una presunzione giuridicamente rilevante non occorre che l’esistenza del fatto ignoto rappresenti l’unica conseguenza possibile di quello noto, secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva (sulla base della regola della «inferenza necessaria»), ma è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull’id quod plerumque accidit (in virtù della regola della «inferenza probabilistica»), sicché il giudice può trarre il suo libero convincimento dall’apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purché dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza, mentre non può attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici;

g) va esclusa la pretesa di ottenere l’equivalente del 10% dell’importo a base d’asta, sia perché detto criterio esula storicamente dalla materia risarcitoria, sia perché non può essere oggetto di applicazione automatica ed indifferenziata (non potendo formularsi un giudizio di probabilità fondato sull’id quod plerumque accidit secondo il quale, allegato l’importo a base d’asta, può presumersi che il danno da lucro cessante del danneggiato sia commisurabile al 10% del detto importo);

h) anche per il c.d. danno curricolare il creditore deve offrire una prova puntuale del nocumento che asserisce di aver subito (il mancato arricchimento del proprio curriculum professionale), quantificandolo in una misura percentuale specifica applicata sulla somme liquidata a titolo di lucro cessante;

i) il mancato utile spetta nella misura integrale, in caso di annullamento dell’aggiudicazione impugnata e di certezza dell’aggiudicazione in favore del ricorrente, solo se questo dimostri di non aver utilizzato o potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, in quanto tenuti a disposizione in vista della commessa. In difetto di tale dimostrazione, può presumersi che l’impresa abbia riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori ovvero che avrebbe potuto riutilizzare, usando l’ordinaria diligenza dovuta al fine di non concorrere all’aggravamento del danno, a titolo di aliunde perceptum vel percipiendum.

14. L’applicazione di tali principi al caso di specie conduce alle seguenti conclusioni:

a) va, anzitutto, esclusa la risarcibilità delle spese sostenute per la partecipazione alla gara, in quanto incompatibili con la richiesta di risarcimento commisurata al c.d. interesse positivo;

b) va parimenti esclusa la possibilità di riconoscere, automaticamente e forfettariamente, a titolo di lucro cessante una somma corrispondente al 10% dell’importo dei lavori;

c) può ritenersi fornita la prova del c.d. danno curriculare: l’appellante ha dimostrato che a far data dal 21 gennaio 2014, Tecnimpresa è “scesa” nell’ambito della categoria OG2, dalla classifica IV alla III-bis, e risulta incontestato che il fatturato mancante per conservare la qualifica IV era di € 840.000 (fatturato che l’esecuzione dell’appalto per cui è causa, di importo superiore al milione di euro, avrebbe consentito di conseguire);

d) sussistono i presupposti per applicare la detrazione relativa al c.d. aliunde perceptum. Rilevano, a tal fine, non solo i lavori che l’appellante ha certamente eseguito nel corso del 2009 (la circostanza è incontestata), ma anche la considerazione “secondo cui l’imprenditore (specie se in forma societaria), in quanto soggetto che esercita professionalmente un’attività economica organizzata finalizzata alla produzione di utili, normalmente non rimane inerte in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, ma si procura prestazioni contrattuali alternative dalla cui esecuzione trae utili. Pertanto, in mancanza di prova contraria, che l’impresa che neghi l’aliunde perceptum può fornire anche sulla base dei libri contabili, deve ritenersi che essa abbia comunque impiegato proprie risorse e mezzi in altre attività, dovendosi quindi sottrarre al danno subito per la mancata aggiudicazione l’aliunde perceptum, calcolato in genere in via equitativa e forfettaria. Del resto –e si è al secondo ordine di considerazioni – nell’ambito delle gare d’appalto, tale conclusione risulta avvalorata dalla distinta, concorrente circostanza che, da un lato, non risulta ragionevolmente predicabile la condotta dell’impresa che immobilizza le proprie risorse in attesa dell’aggiudicazione di una commessa, o nell’attesa dell’esito del ricorso giurisdizionale volto ad ottenere l’aggiudicazione, atteso che possono essere molteplici le evenienze per cui potrebbe risultare non aggiudicataria della commessa stessa (il che corrobora la presunzione); dall’altro che, ai sensi dell’art. 1227, secondo comma, c.c., il danneggiato ha un puntuale dovere di non concorrere ad aggravare il danno, sicché il comportamento inerte dell’impresa ben può assumere rilievo in ordine all’aliunde percipiendum”. (cfr. in questi termini Ad. Plen. n. 2 del 2017).

15. La conversione in termini monetari delle voci sopra indicate risulta di particolare complessità: la ricostruzione dell’utile netto che l’impresa avrebbe tratto dall’esecuzione del contratto risulta, infatti, estremamente difficile, anche considerando il tempo ormai trascorso rispetto alla data in cui sono state presentate le offerte e i lavori avrebbero dovuto essere eseguiti.

Pertanto, esclusa la possibilità di applicare la percentuale del 10%, e riconosciuta la particolare difficoltà di fornire una prova puntuale del relativo importo, tale utile non può che essere determinato in via equitativa (art. 2056 c.c.).

In tale valutazione equitativa, tenuto conto anche della variante approvata in corso di esecuzione dei lavori, il Collegio stima equo riconoscere un importo omnicomprensivo, che tiene conto sia del danno curriculare, sia della detrazione per l’aliunde perceptum, pari ad € 70.000.

16. Ai fini dell’integrale risarcimento del danno, che costituisce debito di valore, occorre riconoscere, inoltre, al danneggiato (dalla data di pubblicazione della sentenza del Consiglio di Stato 11 aprile 2013, n. 1971 che ha riconosciuto la spettanza del bene della vita che in questa sede viene liquidato per equivalente monetario) sia la rivalutazione monetaria (secondo l’indice medio dei prezzi al consumo elaborato dall’Istat), che attualizza al momento della liquidazione il danno subito, sia gli interessi compensativi (determinati in via equitativa assumendo come parametro il tasso di interesse legale) calcolati sulla somma periodicamente rivalutata, volti a compensare la mancata disponibilità di tale somma fino al giorno della liquidazione del danno, sia, infine, gli interessi legali sulla somma complessiva dal giorno della pubblicazione della sentenza (che con la liquidazione del credito ne segna la trasformazione in credito di valuta) sino al soddisfo.

17. Va, infine, rilevato che la richiesta di chiamata in garanzia formulata (direttamente in memoria) dal Comune di Pieve di Cadore nei confronti dell’assicurazione AIG Europe Liquid è inammissibile, trattandosi di rapporto contrattuale interamente regolato dal diritto civile ed estraneo pertanto alla giurisdizione amministrativa.

18. La controvertibilità e la novità delle questioni esaminate giustifica la compensazione delle spese del doppio grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, in accoglimento del ricorso di primo grado, condanna il Comune di Pieve di Cadore al risarcimento del danno a favore della società Tecnimpresa s.r.l., che liquida in complessivi € 70.000,00 (settantamila), oltre a rivalutazione ed interessi come specificato in motivazione.

Compensa le spese del doppio grado di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

 

GUIDA ALLA LETTURA

            La sentenza in commento riforma il giudicato del Tar Veneto, Venezia relativo ad una domanda di risarcimento del danno da mancata aggiudicazione. Il danno in questione veniva lamentato dalla società Tecnimpresa s.r.l. nei confronti del Comune di Pieve di Cadore.

            La Tecnimpresa Fontana s.r.l. risultava aggiudicataria della gara indetta dal Comune di Pieve di Cadore per l'affidamento di alcuni lavori di restauro, consolidamento e valorizzazione del complesso storico architettonico del forte di Monte Ricco e della batteria di Castello. Tuttavia, con sentenza del Tar Veneto, l'impresa vincitrice veniva esclusa e i lavori affidati ad un secondo soggetto. Il contenzioso proseguiva innanzi al Consiglio di Stato che ribaltava l'esito del primo grado di giudizio accogliendo l'appello esperito dall'impresa esclusa; l'iniziale aggiudicazione, pertanto, veniva ripristinata.

            La domanda risarcitoria scaturisce dalla definizione di tale contenzioso e viene formulata dalla Tecnimpresa s.r.l., quale cessionaria di un ramo d'azienda della Tecnimpresa Fontana s.r.l., stante l'impossibilità di conseguire in forma specifica l'esecuzione del giudicato con cui l'iniziale aggiudicazione era stata ripristinata. In sede di giudizio di primo grado la domanda della Tecnimpresa veniva rigettata per difetto di legittimazione. Il giudice di prime cure rilevava come l'acquisizione del ramo d'azienda non avesse determinato, in favore della cessionaria e nei confronti del Comune appellato, il trasferimento di alcun diritto di credito né di posizioni di vantaggio. Avverso tale pronuncia veniva spiegato appello e il Consiglio di Stato, riformando il precedente giudicato, riteneva la Tecnimpresa s.r.l. legittimata all'esperimento della domanda risarcitoria. Tale conclusione veniva argomentata in base all'apprezzamento della comune intenzione delle parti del contratto di cessione, nonché al comportamento complessivo delle parti stesse. Ciò detto, il Supremo consesso amministrativo passava all'esame della richiesta di risarcimento, ritenendola fondata ma determinando la somma diversamente rispetto alla richiesta dell'appellante, sia con riferimento all'an che al quantum.

            Il risarcimento del danno da mancata aggiudicazione ha, negli ultimi tempi, fortemente attirato l'attenzione della giurisprudenza amministrativa. La tutela dell'impresa, giudicata come illegittimamente esclusa dalla gara pubblica e nei confronti della quale non sia più possibile procedere all'aggiudicazione del contratto, è stata oggetto dell'importante, nonché recente, pronuncia che il Consiglio di Stato, in sede di Adunanza plenaria, ha reso poco prima della sentenza in commento.

           Si tratta della sentenza n. 2 del 27 marzo 2017. Tale pronuncia ha trattato proprio la questione della risarcibilità del danno da mancata aggiudicazione, in favore dell'impresa originariamente pretermessa, nel caso di impossibilità di eseguire la sentenza attestante l'illegittima esclusione dalla gara dell'impresa stessa. Il danno in questione è stato giudicato meritevole di una modalità di ristoro alternativa a quella della non più possibile esecuzione in forma specifica del giudicato. A fronte di un iter giurisprudenziale nutrito1, ed anche in virtù del contributo della Corte di Giustizia in materia2, l'Adunanza Plenaria è giunta a definire i principi cardine sul tema della risarcibilità del danno da mancata aggiudicazione.

            In primo luogo, viene evidenziato come l'obbligazione risarcitoria scaturisca in virtù di una responsabilità contrattuale in cui la Pubblica Amministrazione incorrerebbe per non aver eseguito la sentenza favorevole all'impresa originariamente esclusa.

            L'obbligazione risarcitoria deve essere, allo stesso tempo, contestualizzata nell'ambito della peculiare disciplina sancita dal Codice del processo amministrativo in materia di responsabilità da inadempimento. In particolare, deve essere rammentata la deroga al regime civilistico dell'inadempimento dell'obbligazione per causa non imputabile al debitore, sancita dall'art. 112, comma 3 c.p.a.. Tale norma costituisce un imprescindibile punto di riferimento prevedendo la conversione dell'obbligazione, il cui adempimento sia divenuto impossibile per causa non imputabile al debitore, nella diversa tipologia risarcitoria.

            Con specifico riferimento, poi, alla tematica del risarcimento del danno da mancata aggiudicazione, nel caso di impossibile esecuzione in forma specifica della sentenza favorevole all'impresa illegittimamente pretermessa, si prescinde anche dalla valutazione dell'elemento soggettivo caratterizzante la condotta della stazione appaltante. Sostanzialmente, come evidenziato dalla Plenaria, viene delineato un regime di responsabilità oggettiva dell'amministrazione, non rilevando la colpa o meno di quest'ultima ai fini dell'insorgenza dell'obbligazione risarcitoria. A tal proposito, per dovere di completezza, si rileva come parte della dottrina, in merito alla rilevanza o meno dell'elemento soggettivo, abbia riscontrato l'assenza di una piena uniformità nelle pronunce giurisprudenziali, sia di matrice comunitaria che interna3; il tutto, quanto meno, sino alla sentenza dell'Adunanza Plenaria n. 2 del 2017.

            Con riferimento ai principi in tema di quantificazione del risarcimento, è stato puntualizzato come, in primo luogo, costituisca onere del danneggiato provare l'an e il quantum del danno presumibilmente sofferto. L'elemento del lucro cessante viene quantificato avuto riguardo all'interesse positivo del ricorrente, comprendente il mancato profitto e il danno curriculare. Di queste ultime due voci si è chiamati a fornire prova puntuale, non potendosi considerare operativo il metodo acquisitivo caratteristico del processo amministrativo. Riemerge, così, il principio sancito dall'art. 2697 c.c. secondo cui “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”. Ad ulteriore precisazione dei criteri suddetti è stato sottolineato come si possa ricorrere alla valutazione equitativa solo nel caso in cui la prova dell'ammontare del danno sia impossibile o estremamente difficile4; non è, invece, possibile usufruire dell'ausilio del consulente tecnico d'ufficio. È ammesso l'uso delle presunzioni, a condizione che dal fatto noto sia univocamente desumibile quello ignoto, il tutto facendo riferimento ad un giudizio di probabilità basato sull'id quod plerumque accidit. Non è, infine, ritenuto utilizzabile il criterio di quantificazione del lucro cessante nella misura del 10% dell'importo a base d'asta. Tale criterio non afferisce a tipologie di controversie come quella di cui la sentenza della Plenaria e la sentenza in commento sono causa; il criterio, pertanto, non può essere applicato in via automatica ed indifferenziata. Il mancato utile va risarcito in misura integrale ma è necessario fornire prova di non aver utilizzato o potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, in quanto tenuti a disposizione in vista della commessa.

            La sentenza oggetto del presente contributo si riallaccia pedissequamente ai principi sanciti dalla Plenaria in ordine alla determinazione dell'an e del quantum del risarcimento da riconoscere all'appellante.

            In particolare, con specifico riferimento alla quantificazione del danno domandato dalla Tecnimpresa s.r.l., suscita interesse il fatto che il Consiglio di Stato abbia escluso la risarcibilità delle spese sostenute dall'appellante per la partecipazione alla gara. Queste ultime vengono ritenute non liquidabili in quanto richieste con una domanda risarcitoria finalizzata alla tutela del c.d. “interesse positivo”; interesse, cioè, relativo al concreto ottenimento dell'aggiudicazione. Nel caso di specie, l'appellante agisce in virtù dell'impossibilità di eseguire il giudicato con cui il Consiglio di Stato aveva determinato il ripristino dell'iniziale aggiudicazione favorevole alla Tecnimpresa Fontana. Conseguentemente, essendo la stipula del contratto il presupposto dell'azione, le spese sostenute per la partecipazione alla gara non possono essere oggetto di risarcimento. Non viene ritenuta, altresì, accoglibile la domanda di risarcimento del lucro cessante, così come formulata dall'appellante. Tecnimpresa, in via forfettaria, aveva fatto riferimento al 10% dell'importo dei lavori. Tuttavia, come già ampiamente argomentato dalla sentenza della Plenaria n. 2 del 2017, tale criterio non può rilevare nell'ambito di richieste risarcitorie come quella oggetto della sentenza in commento. Il criterio in questione rileva, ad esempio, nell'ambito della diversa circostanza del recesso della stazione appaltante dal contratto pubblico in corso di esecuzione; il 10% dell'importo dei lavori va, quindi, contestualizzato nell'ottica di una disciplina, quale quella del recesso, “di maggior favore” per il contraente pubblico che decida di svincolarsi dal rapporto contrattuale in corso d'esecuzione col privato. Il Consiglio di Stato ritiene adeguatamente provato il danno curriculare e propende, invece, per l'applicazione della detrazione relativa all'aliunde perceptum. Tale ultimo elemento sarebbe suffragato non solo dagli incontestati ulteriori lavori eseguiti dall'appellante nel 2009 ma anche dalla presunzione secondo cui, in assenza di prova contraria, debba ritenersi che l'imprenditore abbia effettivamente impiegato risorse e mezzi in altre attività. Circostanza, quest'ultima, in via generale da doversi ritenere basata sull'impossibilità per un'impresa di rimanere inerte, nelle more del procedimento di aggiudicazione ovvero di un ricorso giurisdizionale; ciò, non solo per ragionevoli esigenze imprenditoriali ma anche in virtù del preciso dovere, ex art. 1227, comma 2 c.c., di evitare danni mediante l'uso dell'ordinaria diligenza.

            È altresì vero che la quantificazione del lucro cessante, al netto della detrazione dell'aliunde perceptum, viene riconosciuta come di notevole difficoltà per la Tecnimpresa. Motivo per cui il Consiglio di Stato opta per una determinazione del risarcimento in via equitativa. Tale modalità viene adoperata in virtù delle specifiche circostanze caratterizzanti la fattispecie concreta; circostanze implicanti quell'”estrema difficoltà” che l'Adunanza Plenaria aveva riconosciuto come giustificativa dell'applicazione del metodo equitativo nella quantificazione del danno. Nel caso di specie, a rilevare è soprattutto il lungo lasso di tempo trascorso dalla data di presentazione delle offerte nonché di preventivato inizio dei lavori.

            L'analisi della sentenza in oggetto consente, in conclusione, di osservare come la giurisprudenza, comunitaria e nazionale, tenda sempre più a tutelare in modo effettivo il legittimo affidamento del privato, nell'ottica di un bilanciamento che pende sempre meno a favore del pubblico interesse rappresentato dalle stazioni appaltanti. Con riferimento alle tematiche qui analizzate due sono i profili maggiormente rilevanti. In primo luogo il fatto di riconoscere una responsabilità oggettiva della Pubblica Amministrazione, laddove quest'ultima non sia in grado di eseguire la sentenza favorevole all'impresa esclusa dalla gara. Il tutto, per altro, tenendo sempre conto del dettato del comma 3 dell'art. 112 c.p.a.. In secondo luogo, a fronte dell'obbligo della parte privata di provvedere ad una quantificazione del danno il più possibile accurata, il giudice amministrativo garantisce, comunque, la possibilità di pervenire ad una forma di ristoro, mediante valutazione equitativa ovvero basata su presunzioni.

            Il contraente privato, pertanto, vede il proprio personale interesse divenire oggetto di una forma di tutela piuttosto intensa, se contestualizzata nell'ambito della contrattualistica pubblica; in tale settore, da sempre, la tendenza è stata, e in larga parte continua ad essere, quella di tutelare in modo preponderante il pubblico interesse rappresentato dalla stazione appaltante, a discapito della posizione della parte privata. Riconoscere, invece, una responsabilità oggettiva della Pubblica Amministrazione in merito al risarcimento del danno da mancata aggiudicazione e garantire una modalità di quantificazione del risarcimento stesso più flessibile rappresentano entrambi profili degni di particolare attenzione. Ci si trova, infatti, di fronte ad un'importante prova di come la predilezione per il pubblico interesse tenda a cedere il passo ad un più effettivo contemperamento delle posizioni di entrambe le parti. Si ritiene, tuttavia, che allo stato attuale tale contemperamento difficilmente potrà raggiungere livelli di assoluta pienezza, data l'ineliminabile centralità dell'elemento finalistico nel quadro della contrattualistica pubblica. Ai futuri sviluppi legislativi e giurisprudenziali spetterà, pertanto, il compito di definire se il contemperamento possa effettivamente divenire pieno o, in alternativa il limite oltre il quale, presumibilmente, tale contemperamento non potrà spingersi.