La sorte del contratto a seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione rappresenta uno dei temi più battuti della storia recente del diritto amministrativo[1]. Esso è stato, tuttavia, affrontato, tradizionalmente, in una prospettiva parziale, avendo riguardo al solo annullamento giudiziale e lasciando in ombra la diversa fattispecie dell’annullamento officioso.

Solo in epoca più recente, sulla spinta del crescente contenzioso[2] e delle novità normative introdotte dal d.lgs. n. 53 del 2010[3], il caso dell’annullamento d’ufficio si è riproposto all’attenzione degli interpreti. Ne è scaturito, così, un ampio dibattito che ha investito non solo la questione preliminare dell’ammissibilità di un annullamento in autotutela dell’aggiudicazione a contratto già stipulato ma che si è spinto più in profondità sino ad indagare la sua effettiva incidenza sul vincolo negoziale[4]. Una indagine, questa, che ha dovuto necessariamente fare i conti con l’assenza di una disciplina specifica di riferimento tanto da far auspicare, da più parti, un intervento risolutivo del legislatore.

In quest’ottica l’adozione del nuovo codice dei contrati pubblici[5]  ha rappresentato, da ultimo, un’occasione persa da parte del legislatore nazionale di fare luce sul punto ed offrire una chiave di lettura globale sulla questione dei rapporti tra autotutela pubblicistica ed autonomia negoziale[6].

 In questa seconda stagione codicistica la figura dell’annullamento d’ufficio è, così, tornata a fare capolino tra le diposizioni.  Ma, come si vedrà, il quadro attuale risulta oggi più frastagliato ed ambiguo di quello  passato:  le norme riferibili in via diretta o mediata al tema si sono moltiplicate, senza che ciò si sia tradotto nella predisposizione di una disciplina completa ed organica del fenomeno. Sembra quasi che il Codice abbia segnato un passo indietro sul piano della chiarezza, finendo con l’alimentare dubbi che, prima del suo varo, risultavano definitivamente superati.

Già sotto la vigenza de d.lgs. n. 163 del 2006 si registravano, del resto, in dottrina, opinioni dissonanti. Il panorama variava tra la netta chiusura di quanti ritenevano che l’annullamento d’ufficio fosse rimasto “vittima” della riforma del 2010[7] e l’opposta tesi, maggioritaria, che propendeva per sua ammissibilità. Non v’era, peraltro, unanimità di vedute neppure tra coloro che si schieravano in favore  della praticabilità dell’annullamento d’ufficio a negozio già stipulato, atteso che, nel ricostruire il regime giuridico applicabile, si contrapponevano due impostazioni di matrice radicalmente diversa. Secondo un primo approccio, definibile come “effettualistico”, all’annullamento officioso andava estesa, in ragione dell’identità degli effetti spiegati sul vincolo negoziale, la disciplina specifica prevista dagli artt. 120 e ss. del c.p.a. per il caso  dell’annullamento giudiziale[8]. Una impostazione, questa, che non teneva conto della ontologica diversità delle due forme di annullamento e delle peculiarità proprie del formante eurounitario di tale disciplina[9]. Sicchè ad altri era apparso preferibile ricercare la risposta al problema di diritto sostanziale della sorte del contratto muovendo dall’analisi dei rapporti tra aggiudicazione e negozio. Questo secondo percorso, più faticoso e complesso, portava a valorizzare i tratti caratteristici dell’annullamento d’ufficio, giungendo a costruire in chiave autonoma la fattispecie e a fornire soluzioni parzialmente diverse rispetto a quelle previste dal diritto positivo per l’annullamento disposto in via giudiziale[10].

La giurisprudenza, dal proprio canto, dopo alcune incertezze iniziali, senza mai addentrarsi nel nodo di diritto sostanziale della sorte del contratto stipulato, si era mostrata compatta nel sostenere l’ammissibilità dell’annullamento d’ufficio[11]. A tal fine si era soliti fare leva non solo sul dettato dell’art. 11 del vecchio d.lgs. n. 163 del 2006 ma soprattutto sulla natura generale dei poteri di autotutela, sulla loro inesauribilità e sull’assenza di limiti formali al loro esercizio. Anche l’adunanza plenaria aveva offerto, seppur indirettamente, il proprio avallo a detta impostazione[12].

Lo stato dell’arte alla vigilia dell’adozione del nuovo Codice ci restituiva, quindi, un quadro complessivo in cui non v’era, sostanzialmente, spazio per dubitare dell’ammissibilità dell’annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione a contratto già stipulato, pur permanendo incertezze su tutte le altre questioni a ciò connesse. L’attenzione e lo sforzo dell’interprete era, perciò, tutto concentrato sulla disamina di problemi applicativi che si ponevano a valle, quali l’individuazione del tipo di patologia che colpisce il contratto ed il riparto di giurisdizione.

L’ultimo intervento del legislatore sembra, invece, aver messo in discussione anche tale unica certezza. Sicchè torna alla ribalta un interrogativo a cui si riteneva fino a poco tempo addietro di poter dare una risposta scontata e positiva: può l’amministrazione disporre l’annullamento dell’aggiudicazione in sede di esecuzione del contratto?

 

LE DIRETTIVE DEL 2014  E LA LORO ATTUAZIONE

 

Per rispondere a questo interrogativo si deve risalire al formante del nuovo Codice e, segnatamente, alle direttive[13]. Le nuove disposizioni in tema di annullamento d’ufficio sono, infatti, il frutto di un recepimento  frettoloso ed approssimativo del diritto dell’Unione.

Il legislatore, stretto dalla imminente scadenza del termine, si è limitato, in più punti, a riprodurre il testo delle direttive, senza compiere alcuno sforzo di armonizzazione e coordinamento. Ciò è particolarmente evidente se si guarda alla disciplina della fase di esecuzione del contratto, che costituisce una delle novità di maggior impatto delle stesse. Le direttive del 2014 hanno, infatti, segnato l’abbandono della prospettiva tradizionale del diritto europeo degli appalti, tutto concentrato sul momento pubblicistico della procedura di affidamento, per attribuire rinnovata centralità al versante negoziale del rapporto[14]. Questa scelta è maturata, a livello di Unione,  sulla base dell’analisi del resa applicativa della previgente disciplina. Il laboratorio della prassi ha, infatti, evidenziato, quanto alla fase di esecuzione del contratto, gravi storture e disfunzioni: essa si è rivelata il frangente più delicato, nel quale si annidano le patologie più serie.

Si è così pensato di porvi rimedio abbandonando l’atteggiamento di sostanziale disinteresse tenuto dalle direttive del 2004 e dettando una disciplina dettagliata, che ruota attorno a due cardini essenziali. Il primo è rappresentato dal rafforzamento del principio di tendenziale immodificabilità del contratto e passa attraverso la rigorosa tipizzazione delle ipotesi di variante[15]. La finalità è quella di evitare che si realizzi, in corso di rapporto, uno stacco tra l’oggetto della procedura di affidamento e l’oggetto del contratto effettivamente portato a esecuzione, sì da consentire un pericoloso aggiramento della garanzie dell’evidenza pubblica.

 Il secondo, invece, di maggiore interesse per ciò che occupa, si concreta nella previsione di una serie di casi di “risoluzione” (così, testualmente) del contratto pubblico, diversi e ulteriori rispetto a quello tradizionale del “grave inadempimento alle obbligazioni contrattuali[16].  In particolare l’art.73 della direttiva 2014/24/UE si preoccupa di fare salva la possibilità per le amministrazioni aggiudicatrici, “alle condizioni stabilite dal diritto nazionale applicabile”, di “risolvere un contratto pubblico durante il periodo di validità dello stesso”.

La ratio anche qui è chiara. Il legislatore europeo intende riservare alla stazione appaltante il potere di liberarsi unilateralmente dal vincolo contrattuale al ricorrere di alcune specifiche situazioni. Situazioni in cui risulta intollerabile il mantenimento dello stesso:  il caso in cui “il contratto ha subito una modifica sostanziale che avrebbe richiesto una nuova procedura di appalto”, l’ipotesi in cui l’aggiudicatario avrebbe dovuto “essere escluso dalla procedura di appalto” e quello in cui “l’appalto non avrebbe dovuto essere aggiudicato all’aggiudicatario in considerazione di una grave violazione degli obblighi derivanti dai trattati e dalla presente direttiva come riconosciuto dalla Corte di giustizia dell’Unione europea in un procedimento ai sensi dell’articolo 258 TFUE”.

La norma in questione è stata, dunque, congegnata come una garanzia per le prerogative della stazione appaltante e vede il valore  della stabilità del negozio come recessivo rispetto al ripristino della legalità violata. Ciò che rileva è, nell’ottica della direttiva, che l’amministrazione sia messa in condizione di sciogliere il vincolo negoziale di propria iniziativa, senza dover ricorrere all’Autorità giudiziaria[17]. Come spesso accade nella legislazione di matrice europea, solita prediligere un approccio di tipo sostanziale, rimangono, invece, indifferenti le modalità con cui l’effetto finale si produce[18]. Così l’ individuazione delle condizioni per il prodursi della risoluzione risulta demandata al “diritto nazionale applicabile”.  La direttiva non impone un modello, ponendosi come obiettivo, quale suo effetto utile, unicamente quello di consentire alla stazione appaltante di sciogliersi dal vincolo.

Nell’ottica del diritto europeo lo scioglimento del contratto può, dunque, conseguire, indifferentemente, dall’esercizio di un diritto potestativo di matrice privatistica (quale quello contemplato nel meccanismo della diffida ad adempiere ex art. 1454 c.c.) o di una potestà pubblicistica (quale potrebbe essere il potere di annullamento di ufficio dell’aggiudicazione).

Pur mancando un esplicito riferimento testuale non v’è , perciò, nessuno ostacolo per ritenere che l’art. 73 della direttiva sia riferibile anche al caso dell’annullamento in via di autotutela, atteso che esso si traduce nello scioglimento del contratto medio tempore stipulato[19].

Anzi, almeno ragionando con le categorie tradizionali del diritto interno, sembra che  la fattispecie dell’annullamento d’ufficio si attagli meglio alle singole ipotesi prese in considerazione dall’art. 73.

Fatta eccezione per la lettera a), che riguarda le modifiche al regolamento negoziale, le ipotesi sub b) e c) contemplano vizi della procedura ad evidenza pubblica, valevoli, nel nostro ordinamento, a fondare il ritiro in autotutela dell’aggiudicazione.

E’ certamente tale il caso in cui l’aggiudicatario avrebbe dovuto “essere escluso dalla procedura d’appalto” (lett. b)  o quello di “grave violazione[20] degli obblighi derivanti dai trattati o dalla presente direttiva” (lett. c).

Di particolare interesse è la seconda ipotesi, relativa alla violazione “grave”  della normativa dell’Unione che sia stata accertata ad esito di procedimento di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 258 del Trattato sul funzionamento dell’Unione. E’ chiara, in proposito, la eco della giurisprudenza della Corte di Giustizia e, segnatamente, della sentenza Kuhne & Heitz[21]. Una pronuncia, quest’ultima, che, come noto, riguarda proprio l’autotutela decisoria e il ruolo della stessa nel network della nomofilachia comunitaria[22].

Sembra, così, che l’art. 73 costituisca il completamento del sistema dei rimedi ai casi di violazione del diritto dell’Unione nell’ambito della materia dei contratti pubblici. Esso si pone come una sorta di simmetrico, sul versante della pubblica amministrazione, del potere attribuito al Giudice dal rito degli appalti. Una ulteriore conferma, questa, del ritorno, a livello ordinamentale, ad una concezione giustiziale dei poteri di autotutela[23].

Deve, da ultimo, osservarsi che l’art. 73 prescrive al legislatore nazionale che le amministrazioni aggiudicatrici abbiano la possibilità  di risolvere il contratto pubblico “almeno” nelle ipotesi dallo stesso tassativamente elencate. La direttiva ha, così, inteso dettare una disciplina minima, limitandosi a enucleare i casi il potere di liberarsi dal vincolo debba essere inderogabilmente riconosciuto. La norma si presenta come “aperta”, ammettendo implicitamente la possibilità per il diritto interno di contemplare altre e diverse ipotesi di risoluzione.

E’ chiaro che il legislatore italiano, a fronte di maglie così larghe, avrebbe potuto seguire strade differenti.

Avrebbe potuto optare, anzitutto, per una attuazione “forte”. Sulla scorta delle indicazioni europee avrebbe potuto ridisegnare la disciplina dell’esecuzione del contratto, sforzandosi di chiarire le condizioni e le modalità con cui può prodursi la “risoluzione” del contratto evocata dall’art. 73 della direttiva. Una netta presa di posizione avrebbe eliminato le incertezze residue chiarendo, una volta per tutte, lo spazio di operatività del potere di annullamento di ufficio nella fase negoziale dell’evidenza pubblica.  

L’alternativa a questa soluzione poteva essere quella di ritenere il nostro diritto oggettivo interno già conforme alle direttive, sì da renderne superfluo, sul punto, il recepimento. Il legislatore si sarebbe, così, risparmiato di intervenire con una disciplina specifica, nella convinzione che la possibilità  di risolvere un contratto fosse già garantita, anche per le ipotesi enucleate dall’art. 73, attraverso gli istituti dell’ annullamento d’ufficio  e del recesso dal contratto[24]. Il panorama normativo sarebbe rimasto invariato e, permanendo una lacuna della regolazione, i termini del dibattito sarebbero rimasti sostanzialmente i medesimi.

Il legislatore nazionale, dal proprio canto, fra le due opzioni, ne ha scelto una terza. Ha abbracciato una soluzione timida, improntata ad eccessiva cautela[25].

Assalito dal timore di esporsi a procedure di infrazione per omesso recepimento, ma senza avere il coraggio di ridisciplinare in toto la materia, ha finito con il riprodurre pedissequamente nel nuovo codice alcuni passi del testo della direttiva. Questa trasposizione meccanica, non accompagnata dal tentativo di coordinare i nuovi istituti con la trama normativa ereditata dal d.lgs. n. 163 del 2006, ci ha restituito un testo anodino che richiede agli interpreti, oggi più di quanto non accadesse in passato, uno sforzo di sistematizzazione.

 

LA NUOVA DISCIPLINA CODICISTICA

Partiamo, nell’analizzare la nuova disciplina introdotta dal d.lgs. n. 50 del 2016, dall’unico elemento di continuità rispetto al passato. Esso è rappresentato dal testo dell’art. 32, il quale ricalca, salvo taluni necessari aggiustamenti, il disposto del vecchio art. 11 del d.lgs. n. 163 del 2006. Rimane fermo, in particolare, al comma VIII, l’inciso che fa “salvo l’esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti”. A cambiare è solo il riferimento in apertura della disposizione, che era, nel vecchio codice, all’ “aggiudicazione definitiva”, oggi, invece, all’“aggiudicazionetout court intesa. Variazione lessicale, questa, che si spiega alla luce dell’avvenuta soppressione della figura dell’aggiudicazione provvisoria. Se l’inciso resta, dunque, identico, valgono a tutt’oggi le considerazioni già svolte da giurisprudenza e dottrina, che proprio da esso avevano tratto uno degli argomenti testuali più forti per l’ammissibilità dell’annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione a contratto già stipulato[26].

Il quadro complessivo attorno all’art. 32 del nuovo codice risulta, però, tutto radicalmente mutato.

Le novità principali si riscontrano, come anticipato, nel Titolo V relativo all’ “esecuzione” del contratto ed, in particolare, nel testo dell’art. 108.

In esso si stabilisce, al comma I, che, fatti i salvi i poteri di sospensione di cui al precedente art. 107, “le stazioni appaltanti possono risolvere un contratto pubblico durante il periodo di sua efficacia”, al ricorrere di una o più delle circostanze di seguito elencate.

A questi casi di risoluzione che potremmo definire “facoltativa”, si contrappongono, al comma II ipotesi di risoluzione “obbligatoria”, in cui le stazioni appaltanti “devono risolvere un contratto pubblico durante il periodo di efficacia dello stesso”.

La formulazione, in ambedue i commi, sconta un certo grado di imprecisione e riprende pedissequamente la parte iniziale dell’art. 73 della direttiva. Non si spiega, ad esempio, perché il legislatore nazionale abbia deciso di parlare  di “contratto pubblico”, impiegando una categoria controversa in dottrina e che mai aveva fatto breccia prima nel nostro ordinamento positivo[27]. Analoghe perplessità sorgono con riguardo all’ulteriore passaggio in cui si fa riferimento al “periodo di sua efficacia”. Anche qui siamo dinanzi alla riproduzione puntuale del testo della direttiva mentre, forse, sarebbe stato più corretto parlare, in coerenza con la collocazione topografica della previsione, di “fase di esecuzione del contratto”.

In disparte da queste considerazioni la disciplina dell’art. 108 presenta altre e più gravi incongruenze.

Anzitutto il legislatore non chiarisce in cosa consista questa “risoluzione” e attraverso quali modalità debba prodursi. Il testo codicistico conserva, sul punto, il carattere di neutralità che contraddistingueva il formante eurounitario.

Con uno sforzo di coordinamento, valorizzando la collocazione della disposizione, potrebbe ritenersi che la disciplina ad essa applicabile  sia quella di cui al successivo comma III dell’art. 108. Con quest’ultima si riprende, peraltro, quello che era il testo del vecchio art. 136 del d.lgs. n. 163 del 2006, recante la disciplina della “Risoluzione del contratto per grave inadempimento, grave irregolarità e grave ritardo”.

Così opinando dovrebbe concludersi nel senso che il legislatore nazionale abbia impiegato il termine “risoluzione” nella sua accezione più squisitamente tecnica, facendo riferimento alla patologia negoziale disciplinata agli artt. 1453 e ss. del c.c.. Una conclusione che solo apparentemente restituisce organicità alla disciplina.

Il primo nodo sta nella formulazione letterale del comma III dell’art. 108, rimasta sostanzialmente identica, come detto, a quella del vecchio art. 136. La disposizione stabilisce che il responsabile dei lavori (o, ove nominato, il responsabile dell’esecuzione dei lavori) debba provvedere a dare avvio alla procedura di risoluzione solo ove accerti “un grave inadempimento alle obbligazioni contrattuali da parte dell’appaltatore[28].

Pare, tuttavia, assai difficoltoso estendere in via analogica la disciplina di cui all’art.108 comma III alle ipotesi di risoluzione, facoltativa e obbligatoria, contemplate dai commi I e II dell’art. 108.

Questo emerge con più chiarezza se si passano in rassegna le singole fattispecie.

Colpisce, anzitutto, l’estrema eterogeneità delle stesse.

Esse spaziano, quanto alla risoluzione facoltativa, dal caso della modifica sostanziale del contratto o variazione dell’oggetto con superamento delle soglie quantitative stabilite all’art. 106 del nuovo Codice (rispettivamente lett. a) e b) del comma I dell’art 108), a quello della ricorrenza in capo all’aggiudicatario di uno dei motivi di esclusione stabiliti dall’art. 80, all’ipotesi residuale (prevista dalla lett. d) in cui “l’appalto non avrebbe dovuto essere aggiudicato in considerazione di una grave violazione degli obblighi derivanti dai trattati, come riconosciuto dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea in un procedimento ai sensi dell’art. 258 TFUE, o di una sentenza passata in giudicato per violazione del presente codice”.

I casi di risoluzione obbligatoria di cui al comma II dell’art. 108 si pongono, invece, come specificazione dei precedenti. La lett. a) di detto comma si riferisce  al caso di decadenza dell’appaltatore dall’ “attestazione di qualificazione per aver prodotto falsa documentazione o dichiarazioni mendaci”; la lett. b), invece, contempla alcune particolari ipotesi di violazione dell’art. 80 del codice, purchè accertate con il crisma della definitività. E’ l’ipotesi, quest’ultima, in cui nei confronti dell’appaltatore “sia intervenuto un provvedimento definitivo che dispone l’applicazione di una o più misure di prevenzione di cui ala codice delle leggi antimafia e delle relative misure di prevenzione” ovvero “ sia intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato per i reati di cui all’art. 80”.

Non si rinviene tra esse alcun denominatore comune. La risoluzione è approntata come rimedio a situazioni patologiche completamente diverse, tanto da assumere connotati cangianti.

Nel sistema del diritto civile, nell’ottica del dominio del volere, non può certo sanzionarsi con lo scioglimento del contratto la libera scelta delle parti di procedere, sulla base del proprio accordo, ad una modifica del regolamento negoziale, ancorchè la stessa si risolva in una sua variazione essenziale.

La risoluzione è, in altri casi, collegata a condotte, quali la produzione di falsa documentazione o di dichiarazioni mendaci, tenute dall’aggiudicatario nell’ambito della procedura ad evidenza pubblica, prima del sorgere del rapporto contrattuale[29]. Sempre estranea alla vicenda contrattuale in senso stretto è, poi, l’evenienza dell’intervenuta pronunzia di una sentenza di condanna per taluno dei reati di cui all’art. 80.

Nelle irriducibili differenze che le contraddistinguono ciò che è certo è che nessuna delle ipotesi di cui ai commi I e II dell’art. 108 integra un “un grave inadempimento alle obbligazioni contrattuali da parte dell’appaltatore”. In esse non viene infatti mai in rilievo la frustrazione di un obbligo, principale o accessorio, nascente dal contratto o l’inesatta esecuzione di una prestazione ivi dedotta.

A ciò si aggiunga che la  disciplina della risoluzione prevista ex comma III dell’art. 108, mal si attaglierebbe alle fattispecie poc’anzi delineate.

Il meccanismo ivi previsto, che ricalca, in perfetta continuità con il vecchio art. 136 del d.lgs. n. 163 del 2006, l’istituto della diffida adempiere ex art. 1454 c.c., non ha ragion d’essere in casi in cui il vizio valevole a fondare la risoluzione non sia emendabile da parte dell’aggiudicatario. A nulla servirebbe, in simili casi, procedere alla contestazione degli addebiti, assegnare un termine per fornire controdeduzioni o porvi rimedio e, poi, solo all’esito di questa trafila, dichiarare risolto il contratto.

 

ALCUNE POSSIBILI LETTURE: IL RITORNO AL FORMANTE EUROPEO

 

Al cospetto di un dato normativo ambiguo le risposte che possono darsi alla domanda posta in apertura sono almeno tre.

Secondo una prima lettura, più drastica, la nuova disciplina codiscistica avrebbe segnato la fine del potere di annullamento d’ufficio.

In questo senso è fin troppo agevole osservare come non vi sia nel testo del codice, nella parte relativa all’esecuzione del contratto e, più segnatamente, nell’art. 108, alcun accenno espresso a detto potere. Trattasi, però, di argomento alquanto formalistico che non può certo assumere valore decisivo.

La tentazione più forte è quella di leggere tra le trame, allargando lo sguardo anche all’art. 109, una scelta di fondo del legislatore, deciso a sterilizzare completamente i poteri di autotutela pubblicistica una volta stipulato il contratto.

Al fine di donare nuova ninfa al principio dell’irrevocabilità del contratto e ripristinare piena parità tra le parti, il codice avrebbe previsto, in luogo di annullamento e revoca, rimedi squisitamente privatistici come, rispettivamente, la risoluzione (art. 108) ed il recesso (art. 109).

Ciò potrebbe financo apparire, prima facie, in linea con quanto già affermato dall’adunanza plenaria sotto la vigenza del vecchio codice[30]. Il Supremo Consesso, nell’escludere la possibilità di procedere a revoca dell’aggiudicazione dopo la stipula del contratto aveva, infatti, valorizzato la sostanziale fungibilità dello stesso con il potere di recesso di cui al vecchio art. 134. Aveva, per converso, fatto salvo, in un obiter dictum, l’annullamento d’ufficio rimarcando l’assenza, per l’ipotesi di vizi della procedura, di un rimedio privatistico che ne facesse le veci; lacuna che sarebbe oramai colmata attraverso l’istituto della risoluzione ex art. 108.

Questa ricostruzione, nella sua perentorietà, non convince appieno.

Essa pare smentita, anzitutto, dal permanere di un riferimento espresso ai poteri di autotutela in seno all’art. 32. Troppo angusto sarebbe, del resto, uno spazio di applicazione della disposizione limitato al solo frangente ricompreso tra l’aggiudicazione e la stipula del contratto.

A ciò si affiancano alcune considerazioni di ordine sistematico.

Anzitutto, v’è da ritenere che il potere di annullamento d’ufficio conservi i propri caratteri di generalità ed inesauribilità. Sicchè sarebbe azzardato concludere che la semplice previsione di un rimedio di diritto privato possa determinarne l’esaurimento; tanto più se si pone mente al fatto che non può parlarsi di autentica fungibilità tra gli istituti. Essi, pur sortendo conseguenze analoghe sul vincolo, si fondano su presupposti differenti e, soprattutto, recano implicazioni diverse in punto di tutela per il privato.

Questa ricostruzione cozza, poi, con le più recenti acquisizioni in tema di natura dell’evidenza pubblica. La dimensione unitaria di questa, vista come inverarsi del rapporto amministrativo, mal si concilia con una cesura netta, anche in termini di rimedi esperibili, tra fase pubblicistica e privatistica[31].

Una ulteriore perplessità nasce dall’incompletezza della disciplina di cui all’art. 108. L’assenza di un regime giuridico specifico per questa “risoluzione” in uno con l’impossibilità di colmare detta lacuna attraverso l’analogia legis con il comma III, ci restituisce un istituto dall’incerta collocazione dogmatica, destinato ad ingenerare plurimi inconvenienti applicativi. Costruire questa “risoluzione” come un autonomo ed inedito rimedio vorrà dire chiedersi, in prima battuta, se  la stessa operi ipso iure o, viceversa, come pare più coerente con la previsione di casi risoluzione “facoltativa”, debba conseguire da una iniziativa della stazione appaltante. Ed in questa ipotesi, esclusa per le ragioni già esposte la praticabilità del meccanismo della diffida ad adempiere, occorrerà domandarsi se lo scioglimento debba passare per la proposizione di apposita domanda dinanzi al giudice ordinario. Una soluzione, quest’ultima, che renderebbe meno agevole e spedito lo scioglimento del vincolo contrattuale, andando ad ingenerare una disparità di trattamento difficilmente giustificabile rispetto a quanto accade per i casi di “grave inadempimento alle obbligazioni contrattuali”.

Altro elemento distonico è, poi, rappresentato dalla disciplina specifica di cui all’art. 176 del nuovo codice in tema di concessione. In detto articolo si stabilisce, con una terminologia ancora una volta assai imprecisa, che la concessione “cessa” in talune ipotesi di seguito tassativamente elencate. Ipotesi che ricalcano, in buona sostanza, i casi di cui all’art. 108.

Che la cessazione passi per un annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione è, in questo caso, chiarito dal richiamo, effettuato dal comma II, all’articolo 21 nonies della l. n. 241 del 1990. In maniera ancora più esplicita il comma II dell’art. 176 disegna un regime specifico per il caso in cui “l’annullamento d’ufficio dipenda da vizio non imputabile al concessionario”. Il quadro è, in ultimo, ulteriormente complicato dalla rubrica dell’articolo ove si parla, addirittura, di “cessazione” della concessione, contrapponendo la stessa, quasi a sottolinearne l’alterità alla “revoca d’ufficio” e alla “risoluzione per inadempimento”.

Ebbene, se per le concessioni il fenomeno della “cessazione” è certamente conseguente all’annullamento d’ufficio perchè in tema di appalti, alla disciplina generale di cui all’108, per casi sostanzialmente identici dovrebbe giungersi a conclusioni diverse?

Invero non vi sarebbe alcuna plausibile ragione per operare una simile discriminazione. Nell’impostazione del codice appalti e concessioni condividono, infatti, la medesima natura contrattuale[32]. Ed anche le direttive pongono, per appalti e concessioni, con riguardo alla fase di esecuzione, una disciplina identica[33]. Sicchè ogni altra lettura volta a esaltare la natura più marcatamente pubblicistica della concessione finirebbe con l’essere non solo tralatizia ma, soprattutto, in contraddizione con il formante europeo. Del resto l’inserimento di una disciplina speciale ai commi II e III dell’art. 176[34] pare funzionale, più che ad alimentare una pubblicizzazione di ritorno dell’istituto della concessione, a proteggere la posizione del concessionario in ragione del rischio operativo connesso alla gestione. Alea che non caratterizza l’appalto per il quale resta, invece, ferma la disciplina generale.

Un ulteriore argomento contribuisce, ancora, a smentire la tesi che vuole escludere in radice la possibilità di un annullamento officioso a contratto già stipulato. Anche a voler ammettere la piena fungibilità tra risoluzione ed annullamento d’ufficio rimarrebbe il problema di stabilire cosa accadrebbe per vizi del procedimento ad evidenza pubblica diversi da quelli elencati dall’art. 108. Per questi l’ordinamento non avrebbe, infatti, approntato alcuno specifico rimedio; sicchè, facendo applicazione dei principi enunciati dalla Plenaria del 2015, non residuerebbe ragione alcuna per escludere la praticabilità dell’annullamento d’ufficio.

Ma, soprattutto, escludere il potere di annullamento d’ufficio in fase di esecuzione del contratto porterebbe a tradire lo spirito delle direttive. In maniera del tutto paradossale  una norma come l’art. 73, posta, come si diceva, a garanzia delle prerogative della stazione appaltante, si tradurrebbe, in sede di recepimento, in un limite alle stesse recando il concreto pericolo di un depotenziamento dell’ effetto utile del diritto dell’Unione.

Pare perciò che il requiem non abbia ancora suonato per il potere di annullamento d’ufficio.

Accedendo ad una seconda tesi potrebbe sostenersi che l’art. 108, pur parlando di “risoluzione” contempli, nella sostanza, delle ipotesi di annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione. Il legislatore si sarebbe limitato a descriverne le conseguenze, prendendo atto che dalla rimozione in autotutela dell’aggiudicazione non può che seguire lo scioglimento del contratto medio tempore stipulato.

Si avrebbero, così, al comma I, essendo ivi lo scioglimento del negozio solo facoltativo, dei casi di annullamento officioso tradizionale, a carattere discrezionale;  al comma II verrebbero, invece, in rilievo delle ipotesi, eccezionali, di annullamento “doveroso[35].

Questa impostazione si porrebbe, peraltro, in linea con quelle ricostruzioni dottrinarie che già in precedenza avevano individuato nella risoluzione ex art. 1458 c.c. la sorte del contratto in caso di annullamento officioso dell’aggiudicazione[36]. Inoltre avrebbe il vantaggio di ripristinare il corretto parallelismo con la disciplina in tema di concessioni recata dall’art. 176 . Non si porrebbero, in ultimo, i problemi disciplinatori cui va incontro la tesi che intende ricostruire in chiave autonoma e squisitamente privatistica la “risoluzione” dei commi I e II dell’art. 108. L’annullamento d’ufficio da cui consegue la risoluzione resterebbe, infatti, assoggettato ai principi e alla disciplina pubblicistica della legge generale sul procedimento, con l’unica differenza che, nelle ipotesi di cui al comma II, perderebbe i propri connotati di discrezionalità per divenire atto dovuto[37].

In ultimo l’annullamento d’ufficio, determinando ex se l’automatico scioglimento del contratto, non richiederebbe l’instaurazione di apposito giudizio dinanzi al giudice ordinario.

Anche questa seconda ricostruzione, tutta pubblicistica, non risulta, quindi, totalmente immune da censure.

Benchè la figura dell’annullamento di ufficio si presti bene a spiegare la maggior parte delle ipotesi previste dall’art.108, ve ne sono alcune che  rifuggono dal suo schema tradizionale e che necessitano di diverso inquadramento.

E’ il caso, più in particolare, delle fattispecie sub lett. a) e b) del comma I dell’art. 108[38]. La modifica sostanziale del contratto è, infatti, circostanza che non vale ad integrare un vizio di legittimità della procedura e che, come tale, non consentirebbe l’annullamento dell’aggiudicazione. Essa è evenienza che si consuma tutta nella fase privatistica del rapporto e che, essendo sopravvenuta rispetto all’aggiudicazione, non può inficiarne la validità. La risoluzione si pone, qui, come reazione dell’ordinamento rispetto alla scelta delle parti di mutare il regolamento contrattuale senza indire nuova procedura. E’, quindi, una risoluzione dai forti tratti di atipicità che si pone come rimedio all‘aggiramento dell’obbligo di evidenza. Essa non è, come accade nelle ipotesi del codice civile, conseguenza di una alterazione funzionale della causa del contratto; né è il risultato del mutuo dissenso delle parti che, anzi, hanno concordemente voluto la variante.  Tanto che, probabilmente, nel tentativo di dare un inquadramento alla figura, sembra più corretto ritenere che la stessa sia una risoluzione che consegue ad autentico recesso della stazione appaltante. Il comma I dell’art. 108 contemplerebbe così, alle lett. a) e b), una figura non dissimile da quella prevista per l’appalto di diritto comune all’art. 1660 ultimo comma c.c.[39] . Né vale a nulla obiettare che  il recesso è figura che trova già espressa disciplina aliunde e, segnatamente, al successivo art. 109 del nuovo codice dei contratti pubblici. Si tratterebbe, infatti, di un recesso di tipo diverso. Mentre nell’art. 109 si è dinanzi ad un caso di recesso espressione di jus poenitendi, la figura di cui al comma I dell’art. 108 si avvicinerebbe al modello del recesso c.d. impugnazione[40]. Ciò giustificherebbe, peraltro, una discriminazione tra le ipotesi in punto di conseguenze patrimoniali sul recedente. In particolare nei casi di cui all’art. 109 , in continuità con il passato, troverebbe applicazione la regola che impone al recedente il “previo il pagamento dei lavori eseguiti o delle prestazioni relative ai servizi e alle forniture eseguiti nonché del valore dei materiali utili esistenti in cantiere nel caso di lavoro o in magazzino nel caso di servizi o forniture, oltre al decimo dell'importo delle opere, dei servizi o delle forniture non eseguite”. Viceversa per i casi recesso c.d. determinativo ex art. 108 lett. a) e b) sarebbe estensibile la disciplina, più favorevole per la stazione appaltante, di cui ai commi V e IX del medesimo articolo[41].

Sembra, quindi, preferibile una terza impostazione, dal sapore mediano.

Nei commi I e II dell’art. 108 convivono tanto ipotesi di risoluzione conseguente ad annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione, quanto ipotesi di risoluzione autenticamente privatistiche.

Come già osservato, ciò che rileva nella prospettiva eurounitaria è unicamente che la stazione appaltante sia messa in condizione, in talune circostanze specifiche, di liberarsi unilateralmente dal vincolo contrattuale. Resta indifferente il quomodo con cui lo scioglimento si produce, purchè, come puntualizzato dallo stesso art. 73 della direttiva, ciò avvenga alle condizioni stabilite dal diritto nazionale. E secondo  i principi di diritto interno la risoluzione del contratto può derivare sia dall’annullamento in autotutela, in virtù dell’incidenza che talune illegittimità possono sortire sulla causa in concreto del negozio,  che dall’esercizio di diritti potestativi di matrice privatistica.

Mutuando le acute considerazioni di una parte della dottrina sul concetto di “inefficacia” del contratto ex art. 121 c.p.a. si potrebbe dire che il termine “risoluzione” impiegato dall’art. 108 “descrive ma non spiega[42].  

L’art. 108 finisce, così, con il raccogliere una serie estremamente variegata di ipotesi, dalla diversa natura giuridica, accomunate dalla sola circostanza di determinare il venir meno del vincolo contrattuale. L’unico trait d’union è dato dal regime della sorte del contratto: questa “risoluzione”, sia essa conseguente a recesso o ad annullamento d’ufficio, resta soggetta, oltre che alla disciplina generale dell’art. 1458 c.c., allo statuto specifico di cui ai commi V e VIII dell’art. 108 [43].

Per i casi di annullamento d’ufficio si profila l’ulteriore problema di conciliare la disciplina codicistica con quella generale di cui alla legge n. 241 del 1990.

Un primo aspetto è quello della portata temporale del potere di annullamento d’ufficio. Anche argomentando a contrario rispetto a ciò che è espressamente previsto per il caso della concessione dall’art. 176, vi è da ritenere che, in materia di appalti, nelle ipotesi di cui all’art. 108 lett. c) e d), continui a trovare applicazione il limite massimo dei diciotto mesi[44]. Questa soluzione, oltre a evitare che vengano frustrate le finalità alla base delle modifiche introdotte nel 2015, consente di restituire coerenza all’impianto normativo. Sarebbe, del resto, assolutamente irragionevole accordare una tutela qualificata all’affidamento del privato in ordine alla stabilità del provvedimento favorevole solo nella fase anteriore alla stipula,  per consentire, a valle, a contratto concluso,  sine die la risoluzione.

Rimane, inoltre, da chiarire se la stazione appaltante conservi il potere di annullare l’aggiudicazione nelle ipotesi diverse da quelle espressamente enucleate  dall’art. 108.

Pare, sulla scorta del dato letterale, che l’elencazione fornita dal legislatore sia tassativa. Ma questa tassatività, come rivela l’ultima parte della lett. d) del comma I è, in larga misura, solo apparente.  La disposizione in questione, oltre a non brillare per chiarezza, reca in chiusura una fattispecie dall’evidente carattere residuale. Essa si riferisce a tutti i casi in cui sia intervenuta “una sentenza passata in giudicato per violazione del presente codice”. La sua latitudine applicativa è, quindi, in linea con la formulazione “aperta” dell’art. 73 della direttiva[45], assai ampia, finendo con l’abbracciare ogni possibile illegittimità della procedura, purchè in grado di condizionare l’esito della stessa[46].

Non pochi problemi di coordinamento pone, tuttavia, la precisazione secondo cui l’accertamento della violazione deve essere accompagnato dal crisma della definitività.

Anzitutto, volendo argomentare a contrario, dovrebbe concludersi nel senso che non sarebbe sufficiente a fondare il ritiro in autotutela la pronuncia di una sentenza che non abbia acquisito autorità di cosa giudicata. Ciò comporterebbe la parziale consunzione del potere di annullamento in autotutela in favore di una maggiore stabilità del vincolo negoziale[47]. Inoltre detto potere vedrebbe, quantomeno nell’ipotesi sub lett. d) del comma I, mutati i propri connotati. Se, infatti, tradizionalmente, spetta all’amministrazione valutare la ricorrenza del presupposto dell’illegittimità dell’atto, qui il relativo accertamento dovrà necessariamente passare per la pronuncia di un giudice[48]. Si intersecano, così, autotutela e giurisdizione, a conferma della tendenza dell’ordinamento a riconoscere alla prima una funzione di tipo “lato sensu” giustiziale. 

Risulta, in ogni caso, difficile che, nei fatti, una pronuncia di accertamento intervenga prima del decorso del termine di diciotto mesi previsto per procedere ad annullamento d’ufficio[49]. Né remoto è il rischio di un corto circuito con la disciplina del rito speciale degli appalti: una pronuncia meramente dichiarativa è resa, infatti, ex art. 34  comma III c.p.a., solo ove il giudice, a fronte dell’impugnazione di uno o più atti della procedura ad evidenza pubblica, decida di non disporne l’annullamento, ritenendo che il ricorrente non vi abbia più alcun interesse[50]. Con la conseguenza che pur non potendosi a priori escludere la sussistenza di un interesse pubblico attuale alla rimozione del provvedimento, si renderà opportuno uno scrutinio particolarmente rigoroso e restrittivo di detto  presupposto[51].

Sembra quindi che lo strumento dell’annullamento d’ufficio, benchè salvo, esca fuori dalla tenzone codicistica fortemente ridimensionato.

Vi è, in ultimo, la questione del riparto di giurisdizione. Mentre non v’è da dubitare che le fattispecie di risoluzione autenticamente privatistiche appartengano alla cognizione del giudice ordinario[52], con riguardo ai casi di risoluzione conseguente ad annullamento d’ufficio il problema si ripropone in termini sostanzialmente immutati rispetto al passato. Salvo voler attendere ad una interpretazione estensiva del dettato dell’art. 133 comma I lett. e) del c.p.a. che valga a radicare la giurisdizione esclusiva, il riparto dovrà avvenire sulla scorta del criterio ordinario che guarda alla consistenza della posizione subiettiva dedotta, portando a distinguere tra il profilo della legittimità dell’atto di ritiro (appartenente al giudice amministrativo) e quello della sorte del contratto (che rimarrebbe in cura al giudice naturale dei diritti soggettivi)[53].

Questa ed altre le incertezze che in un quadro normativo così oscuro torneranno ad agitare gli interpreti. Sarà, ancora una volta, solo il laboratorio della prassi a dare una risposta a quella che sembrava una questione (quasi) chiusa.


[1] Vastissimo è il panorama dottrinario sia precedente che successivo alla riforma del 2010 (Decreto Legislativo 20 marzo 2010, n. 53Attuazione della direttiva 2007/66/CE che modifica le direttive 89/665/CEE e 92/13/CEE per quanto riguarda il miglioramento dell'efficacia delle procedure di ricorso in materia d'aggiudicazione degli appalti pubblici”  pubblicato in G.U. n. 84 del 12.4.2010; disciplina trasfusa con poche modifiche nel corpo del c.d. Codice del Processo Amministrativo agli artt. 121 e ss. ). Tra gli Autori che si sono cimentati con la questione prima del varo della riforma si rinvia, tra gli altri a  G. GRECO, “I contratti dell’amministrazione tra diritto pubblico e privato”, Milano, 1986 84, L. V. MOSCARINI, “Profili civilistici del contratto di diritto pubblico”, Milano, 1988, V . CERULLI IRELLI, “L’annullamento dell’aggiudicazione e la sorte del contratto (commento a T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 29 maggio 2002, n. 3177)”, in Giorn. Dir. Amm., 11, 2002, 1195 e ss., G. MONTEDORO, “I rapporti tra l’evidenza pubblica e contratto di appalto”, in Urb. App., 9, 2003, 918 e ss., M. MONTEDURO, “Illegittimità del procedimento ad evidenza pubblica  e nullità del contratto ex art. 1418 comma 1 c.c.; una radicale «svolta» nella giurisprudenza tra luci ed ombre”, in Foro Amm., 2002, 2591, M. LIPARI, “L’annullamento dell’aggiudicazione e la sorte del contratto tra  nullità, annullabilità e inefficacia: la reintergrazione in  forma specifica”, in Dir. e Form., 2003, 245 e ss., S. FANTINI, “Gli effetti sul contratto dell’annullamento dell’aggiudicazione : profili di effettività della tutela  giurisdizionale”, in Urb. App., 7, 2003, 751, E. STICCHI DAMIANI, “La caducazione del contratto per annullamento dell’aggiudicazione ala luce del codice degli appalti”, in Foro Amm. - T.A.R., 2006, V. LOPILATO, “Vizi della procedura di evidenza pubblica e patologie contrattuali”, in Foro Amm. - T.A.R., 2006, 1519, , 3719, F. MERUSI, “Annullamento dell'atto amministrativo e caducazione del contratto”, in Foro Amm. - T.A.R. , 2004, F. SATTA, “L'annullamento dell'aggiudicazione ed i suoi effetti sul contratto”, in Dir. amm., 2003, 4, 645, 2, 570, S. VARONE, “L’invalidità contrattuale nella dialettica  fra atto e negozio nell’ambito delle procedure ad evidenza pubblica (nota a Consiglio di Stato, sez. IV, 5 maggio 2003, n. 2332)”, in Foro amm. C.d.S., 2003, 1648 e ss., P. CARPENTIERI, “Annullamento dell’aggiudicazione e contratto” (nota a Consiglio di Stato, sez. IV, 27 ottobre 2003, n. 6666), in Giornale di diritto amministrativo, 1, 2004, 17 e ss.,  F.G. SCOCA, “Annullamento dell'aggiudicazione e sorte del contratto”, in Foro Amm. - T.A.R., 2007, 2, 797.

 

[2] Il riferimento è alla copiosa giurisprudenza in tema di derivati (T.A.R. Toscana, sez. I ,27 gennaio 2011 n. 154, Riv. it. dir. pubbl. com., 2011, 1, 155 con il commento di G. CARULLO, “La separazione (giudiziale) tra aggiudicazione e contratto”, ivi, 155 e ss. e T.A.R. Toscana, sez. I ,11 novembre 2010, n. 6579 su www.giustizia-amministrativa.it;  Consiglio di Stato, sez. V, 7 Settembre 2011, n. 5032 Foro amm. - C.d.S. 2011, 9, 276; .A.R. Piemonte, sez. I, 21 dicembre 2012, n. 1390, su www.giustizia-amministrativa.it commentata da F. MANGANARO e S. GARDINI, “Annullamento in autotutela dell’aggiudicazione e sorte del contratto”, in Urb. e app., 4, 2015, 460 e ss. e  G. PASSARELLI DI NAPOLI, “Il Potere di autotutela della p.a., la risoluzione dei contratti in strumenti finanziari derivati e la giurisdizione”, su www.giustammm.it, 4, 2014). Per una panoramica del fenomeno si rinvia a A. BENEDETTI, “La giurisprudenza sui contratti derivati degli enti locali”, in Giorn. di Dir. Amm., 11, 2013, 1116.

 

[3] Sul tema si sono confrontati, dopo la riforma del 2010, diverse voci, tra le più autorevoli: G. GRECO, “Illegittimo affidamento dell’appalto, sorte del contratto e sanzioni alternative nel d.lgs. 53/2010”, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 3, 2010, 729 e ss.,  E. FOLLIERI, “I poteri del giudice amministrativo nel decreto legislativo 20 marzo 2010 n. 53 e negli artt. 120-124 del codice del processo amministrativo” , in Dir. Proc. amm., 4, 2010, 1067 e ss., E. STICCHI DAMIANI, “Annullamento dell’aggiudicazione e inefficacia funzionale del contratto”, in Dir. Proc. Amm., 1, 2011, 240 e ss. V. LOPILATO, “Categorie contrattuali, contratti pubblici e i nuovi rimedi previsti dal decreto legislativo n. 53 del 2010 di attuazione della direttiva ricorsi”, in Dir. Proc. Amm., 2010, 4, 1326 e ss.,  M. LIPARI, “Il recepimento della 'direttiva ricorsi': il nuovo processo super-accelerato in materia di appalti e l'inefficacia 'flessibile' del contratto”, in Foro Amm. – T.A.R., 1, 2010.

[4] Sia consentito, sul punto, rinviare a G. GALLONE, “Annullamento d’ufficio e sorte del contratto”, Bari, 2016

[5] Decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 “Attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure di appalto  degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture”, pubblicato in G.U. n. 91 del 19.4.16 – suppl. ordinario n. 10). Per un commento a prima lettura del testo si veda R. DE NICTOLIS, “Il nuovo codice dei contratti pubblici” , in Urb. App. , 5, 2010. Per una analisi approfondita si rinvia a F. CARINGELLA, P. MANTINI,  M. GIUSTINIANI “Commento organico al D.lgs. 18 aprile 2016 , n. 50”, Roma, 2016,  A.A.V.V., “Il nuovo codice dei contratti pubblici”, in Giorn. Dir. Amm., IV, 2016 436 e ss. .

 

[6] Incertezza che attorniava anche la figura della revoca. Sul tema S. FANTINI, “La revoca dei provvedimenti incidenti su atti negoziali”, Dir. Proc. Amm., 1, 2009, G. LA ROSA, “Lo scioglimento del contratto della pubblica amministrazione: alla ricerca di un punto di equilibrio tra il recesso e la revoca incidente sui rapporti negoziali”, in Dir. Proc. Amm., 4, 2012 e S. USAI, “Project financing ed esercizio del potere di autotutela della stazione appaltante”, in Urb. App., 4 , 2011, 443 e ss. . In giurisprudenza sul problema dell’ammissibilità della stessa a contratto già stipulato e ad i rapporti con il recesso si veda l’Adunanza Plenaria, (20 giugno 2014, n. 14, su www.giustizia-amministrativa.it con i commenti di A. LONGO e E. CANZONIERI, “Dopo la stipula del contratto di appalto la p.a. può esercitare solo il recesso”, su Urb. App., 11, 2014, 1195 e ss. e G. PIPERATA, “L’autotutela interna e l’autotutela esterna nei contratti pubblici”, su Giorn. Amm., 1, 2015, 77 e ss.).

 

[7] Il riferimento è a E. STICCHI DAMIANI, “Annullamento dell’aggiudicazione e inefficacia funzionale del contratto”, cit. .

[8] Questo filone ha trovato autorevole esponente in Questo filone ha trovato autorevole esponente in G. GRECO, “I contratti dell’amministrazione”, cit., pag. 108 e 130 e ss. , nonché , più recentemente in S. S. SCOCA, “Evidenza pubblica e contratto”, cit., pagg. 189 e ss. o L. GAROFALO, “Annullamento dell’aggiudicazione  e caducazione del contratto: innovazioni legislative e svolgimenti sistematici”, in Dir. Proc. Amm., 2008, 11,  pag. 139 e ss, nonché , più recentemente in S. S. SCOCA, “Evidenza pubblica e contratto”, cit., pagg. 189 e ss. o L. GAROFALO, “Annullamento dell’aggiudicazione  e caducazione del contratto: innovazioni legislative e svolgimenti sistematici”, in Dir. Proc. Amm., 2008, 11,  pag. 139 e ss

[9] Disciplina che presentava connotazione fortemente remediale ed era sta ideata con riguardo esclusivo all’annullamento giudiziale.

 

[10] In questo senso già S.R. MASERA, “Annullamento in autotutela dell’aggiudicazione e caducazione del contratto”, in Urb. App., 11, 2007, 1145 e F. ROMOLI, “L’autotutela sull’evidenza pubblica e il contratto. Spunti problematici e prospettive”, in Dir. Amm., 3, 2008, 599 e ss. . Così anche G. GALLONE, “Annullamento d’ufficio e sorte del contratto”, cit., 117 e ss. .

[11] Si trattava di un orientamento consolidato sia tra i giudici di merito (si vedano in proposito ex multis T.A.R. Puglia, Bari, Sez. I, 12 Gennaio 2011, n. 20, T.A.R. Puglia, Bari, Sez. I, 27 Luglio 2011, n. 116 e T.A.R. Lazio, Roma, sez. II bis, 10 Settembre 2010, n. 32215 tutte su www.giustizia-amministrativa.it) che in seno al Consiglio di Stato (sia permesso segnalare, per l’annullamento d’ufficio, sez. V, 12 febbraio 2010, n. 743, cit. sez V, 4 gennaio 2011, n. 11, cit. con il commento di G. DIRODI, “Annullamento in autotutela dell’aggiudicazione: presupposti ed effetti”, in Dir. Proc. Form., 2, 2011 e sez. VI, 26 Luglio 2010, n. 11, cit.).

 

[12] Il riferimento è a Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 20 giugno 2014, n. 14, in Foro Amm. (II), 6, 2014, 1671, la quale, dopo aver escluso l’ammissibilità della revoca “in forza della speciale e assorbente previsione dell’art. 134 del codice” dei contratti pubblici, ha, in un obiter dictum, ribadito che resta, invece, impregiudicata “la possibilità dell’annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione definitiva anche dopo la stipulazione del contratto”.

 

[13] Sono, rispettivamente, le direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE  del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014,  tutte pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea L 94/65. Per un primo commento delle stesse si rinvia a R. CARANTA e D. C. DRAGOS, La mini-rivoluzione del diritto europeo dei contratti pubblici, in Urb. App., 5, 2014, 493 e ss. e F. MARTINES, Le direttive UE del 2014 in materia di contratti pubblici e l’articolato processo di integrazione europea nel diritto interno degli appalti, su www.federalismi.it, 11, 2015.

[14] Alla fase è dedicato un intero capo, il IV, all’interno del titolo III , composto da quattro articoli (dall’art. 70 al 74).

[15] Si veda la disciplina di cui  all’art. 72 della direttiva 2014/24/UE.

[16] Figura già contemplata nel vecchio art. 136 del d.lgs. n. 163 del 2006.

[17] La formulazione del primo comma dell’art. 73 lascia , infatti, trasparire,  che la possibilità di risolvere il contratto vada riconosciuto direttamente alle amministrazioni aggiudicatrici, senza l’intermediazione dl potere giudiziario. Non v’ è, in proposito, alcun accenno alla proposizione di un ricorso, come invece accade nella direttiva 2007/66/CE (c.d. direttiva ricorsi). L’art. 2 quinquies di quest’ultima stabilisce, infatti, che “gli Stati  assicurano che un contratto sia considerato privo di effetti da un organo indipendente dall’amministrazione aggiudicatrice o che la sua privazione di effetti sia la conseguenza di una decisione di detto organo di ricorso indipendente”.

[18] G. GALLONE, “Annullamento d’ufficio e sorte del contratto”, cit., 117 e ss. . Nonostante il legislatore europeo si sia concesso, come accaduto in materia di appalti, delle sortite in campo procedurale, i rapporti tra diritto interno e diritto dell’Unione resta imperniato sul principio della c.d. “autonomia procedurale” (vedansi D. U. GALETTA, “L’autonomia procedurale degli Stati membri dell’Unione Europea : Paradise Lost? - Studio sulla c.d. autonomia procedurale: ovvero sulla competenza procedurale funzionalizzata”, Torino, 2009, G. VITALE, “Diritto processuale nazionale e diritto dell’Unione Europea – L’autonomia procedurale degli Stati membri in settori a diverso livello di comunitarizzazione”, Firenze, 2010, E. CANNIZZARO, “Sui rapporti fra sistemi processuali nazionali e diritto dell’Unione europea”, in Il Diritto dell’Unione europea, 3, 2008, 447 e ss.; nella letteratura europea, tra i primi R. KOVAR, “Droit communautaire et droit procédural  National”, in Cahiers de droit européen, 1977, 230,  C.N.N. KAKOURIS, “Do the Member States possess Judicial Procedural Autonomy?”, in Common Market Law Review, 1997, 1389 e O. DUBOS, “Les juridictions nationales, juge communautaire”, Paris, 2001). Detto principio è, peraltro, sempre stato letto in maniera assai ampia, fino a ricomprendere istituti, quali l’autotutela decisoria, dalla chiara matrice sostanziale (come osserva M. P. CHITI, “Towards an EU regulation on admnistrative procedure?”,in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 1, 2011, 1).

 

[19] Era questa la risposta data da una parte della dottrina già nel quadro normativo ante codice alla questione di diritto sostanziale della sorte del contratto medio tempore stipulato. Sul punto il rinvio è a G. GALLONE, “Annullamento d’ufficio e sorte del contratto”, cit., 117 e ss.

[20] Nozione di “violazione grave” già impiegata dalla Corte di Giustizia nei suoi numerosi arresti in materia di responsabilità dello Stato membro per violazione del diritto dell’Unione (cfr. ex multis caso Brasserie du Pêcheur, Corte di Giustizia dell’Unione Europea, 5 marzo 1996, C-46/93 e C-48/93).

[21] Caso  Kühne & Heitz, Corte di Giustizia dell’Unione Europea , 13 gennaio 2004, causa C- 453/00, www.curia.eu , seguito a stretto giro da  Kempter, Corte di Giustizia dell’Unione Europea, 12 febbraio 2008, causa C-2/06, www.curia.eu per la cui approfondita disamina si rinvia a  A. BARONE, “Giustizia comunitaria e funzioni interne”, Bari, 2008, 31 e 198 e ss. .  In esse si è affermato, in applicazione del principio di leale cooperazione, l’obbligo per “un organo amministrativo, investito da una richiesta in tal senso, , di riesaminare una decisione amministrativa definitiva per tener conto  dell’interpretazione della disposizione pertinente nel frattempo accolta dalla Corte” a condizione che la decisione in questione sia “divenuta definitiva in seguito ad una sentenza del giudice nazionale che statuisce in ultima istanza”. 

[22] A. BARONE, “Giustizia comunitaria e funzioni interne”, cit., 198 e ss. , definisce in proposito proprio l’autotutela, eccezionalmente doverosa, come un rimedio per le ipotesi di non compliance del giudice nazionale. Uno strumento, cioè, che consenta di ovviare, essendo ormai preclusa la via giudiziaria, ad una scorretta interpretazione del diritto comunitario, preservando così il ruolo nomofilattico della Corte, attribuitole dai Trattati.  

[23] Sulla concezione tradizionale dell’autotutela come manifestazione di un privilegio dell’Amministrazione e “capacità di farsi giustizia da sé” il richiamo è a F. BENVENUTI, “Autotutela (dir. amm.)”, in Enc. Dir., IV, Milano, 1959, 537 . A essa si è contrapposta, nella letteratura successiva, l’idea secondo essa sarebbe da ricondurre sarebbe da ricondurre nell’alveo dell’amministrazione attiva (così, autorevolmente, M. S. GIANNINI, “Diritto Amministrativo”, II, Milano, 1993, 829 -832). Le più recenti linee di evoluzione dell’ordinamento sembrano segnare un ritorno verso una concezione giustiziale dell’autotutela. In tale direzione muoveva già l’introduzione, nel 2010 (a mezzo dell'articolo 6 del d.lgs. 20 marzo 2010, n. 53), dell’istituto del c.d. preavviso di ricorso, di cui al vecchio art. 245 bis del d.lgs . n. 163 del 2006 , oggi scomparso (D. PONTE, “L’informativa in ordine all’intento di proporre ricorso”, in Urb. App., 7, 2010, 762 e ss., S. CALVETTI, “Preavviso di ricorso. L’inerzia della stazione appaltante va impugnata a pena di improcedibilità”, in Urb. App., 1, 2013, 77 e ss., F. ASTONE, “Il preavviso di ricorso (ovvero della informativa in ordine all’intento di proporre ricorso giurisdizionale)”, in Dir. e Proc. Amm., 2, 2010, 103). Il nuovo codice dei contratti pubblici si pone sul medesimo solco individuando nell’annullamento d’ufficio uno strumento  Significativa sul punto è, tra le altre, la previsione del nuovo art. 211 comma II, in tema di funzioni precontenziose dell’A.N.A.C. In esso si stabilisce che qualora l’Agenzia ritenga sussistente un vizio di legittimità in uno degli atti della procedura “invita mediante atto di raccomandazione la stazione appaltante ad agire in autotutela e a rimuovere altresì gli eventuali effetti degli atti illegittimi”. Tutta da esplorare è la natura giuridica dell’istituto ed, in particolare se il potere riconosciuto all’ A.N.A.C. sia di mera raccomandazione ovvero, come sembra dal carattere vincolante dell’atto e dalla previsione di specifiche sanzioni per il caso di mancato adeguamento, di vero e proprio ordine.

[24]  Come prospettato in G. GALLONE, “Annullamento d’ufficio e sorte del contratto”, cit., 120 e ss. .

[25] Questo eccesso di cautela era emerso già nel corso delle prime battute del procedimento di attuazione. Nella legge di delega (L. 28 gennaio 2016, n. 11, “Deleghe al Governo per l’attuazione delle direttive 2014/23UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure di appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture”, pubblicato in G.U. n. 23 del 29.1.16) manca qualsivoglia riferimento all’annullamento d’ufficio. Anche i principii e criteri direttivi relativi alla fase dell’esecuzione (art. 1 lett. ee) paiono vaghi e riguardano unicamente la questione delle variazioni progettuali in corso d’opera.

[26]La portata sistemico della previsione è chiarita da Consiglio di Stato, sez. V, 12 febbraio 2010, n. 743, su www.giustizia-amministrativa.it . Per il Supremo Consesso l’ “art. 11, co. 9, del d.lgs. n. 163 del 2006 – c.d. codice dei contratti pubblici, inapplicabile ratione temporis – che nel disciplinare il termine finale per la stipulazione del contratto fa comunque salvo il potere di autotutela dell’amministrazione: la disposizione chiarisce quale sia, per la stazione appaltante, la portata del vincolo derivante dall’intervenuta aggiudicazione. L’amministrazione non è infatti incondizionatamente tenuta alla stipulazione del contratto, ma l’impegno conseguente alla definitiva individuazione dell’aggiudicatario può essere eliminato solo attraverso le procedure tipiche che regolano l’esercizio del potere di autotutela ora codificate dalla l. n. 241 del 1990 come novellata nel 2005. La norma sancita dall’ art. 11 cit. non è tuttavia esaustiva dell’autotutela in materia di appalti pubblici che non riguarda solo l’aggiudicazione, ma anche gli altri atti di gara, e che soggiace alle regole elaborate dalla giurisprudenza ed ora codificate dalla l. n. 15 del 2005”.

[27]  Il termine è ripreso dall’art. 3 lett. dd) del codice ove è inteso come sinonimo di “contratto”. La figura del “contratto pubblico”, elaborata sulla scorta dell’esperienza transalpina del “contrat administratif”, è stata osteggiata, in ragione dell’assenza di una disciplina positiva specifica, tra gli altri, da M.S. GIANNINI, negli studi svolti in “L’attività amministrativa”, 1963 e da F. LEDDA, “Il problema del contratto nel diritto amministrativo”, Torino , 1962. Favorevole, invece,  P. VIRGA, “Contratto (dir. amm. ); teoria generale del contratto di diritto pubblico” in  Enc. Dir., IX, Milano, 1961, 979 ss. .

[28] Il vecchio art. 136 parlava con espressione sovrapponibile di “comportamenti dell’appaltatore” che concretassero “grave inadempimento alle obbligazioni del contratto”.

[29] E’ l’ipotesi di cui alla lett. b) del comma II dell’art. 108  relativa ala caso in cui “nei confronti dell’appaltatore sia intervenuta la decadenza dell’attestazione della qualificazione per aver prodotto falsa documentazione o dichiarazioni mendaci” . La disposizione sembra, peraltro, ricalcare il nuovo comma II bis dell0’art. 21 nonies della l. n. 241 del 1990, introdotto dalla l. n. 124 del 2015.

[30] E’ la già citata Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 20 giugno 2014, n. 14, cit. .

[31] Da ritenersi eccessivamente rigida e superata è l’impostazione di  M. S. GIANNINI, “Diritto amministrativo”, Milano, 1988, II, 363 e ss., cui si deve l’elaborazione della c.d. teorica del doppiaggio. Per l’Autore “i due procedimenti si volgono parallelamente” con la precisazione ciò va inteso nel senso che “si svolgono per episodi successivi or dell’uno or dell’altro”. Più appagante ed in sintonia con una concezione c.d. unitaria dell’attività amministrativa (sul punto G. SCOCA, “Attività amministrativa” in  Enc. Dir., Milano, 2002, I 95) ed una lettura a compasso allargato della categoria del rapporto amministrativo (che non si esaurisce in quello procedimentale ma abbraccia anche la fase negoziale, . PROTTO, “Il rapporto amministrativo”, Milano, 2008 264 e ss.) è l’idea che momento privatistico e pubblicistico si sovrappongano compenetrandosi. Ciò restituisce un fenomeno complesso il cui momento di sintesi è rappresentato dalla funzione amministrativa la quale attraversa per lungo il rapporto amministrativo fino al contratto, colorandone la causa (G. GALLONE, “Annullamento d’ufficio e sorte del contratto”, cit., 145 e  ss.) .

[32] In perfetta continuità rispetto al passato le lett. uu) e vv) dell’art. 3 del nuovo codice dei contratti pubblici definiscono le concessioni, di lavori e di servizi, come “un contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto”, individuando quale unico discrimine rispetto all’appalto la modalità di  dazione del corrispettivo (il quale non consiste in un prezzo ma nel “diritto di gestire” l’opera o  il servizio con assunzione del relativo rischio operativo). Per un commento alla nuova disciplina M. MACCHIA, “I contratti di concessione”, in Giorn. Dir. Amm., IV, 2016.

[33] Si confrontino i testi, sostanzialmente sovrapponibili, rispettivamente, dell’art. 73 della direttiva 2014/24/UE e dell’art. 44 della direttiva 2014/23/UE.

[34] E’ appena il caso di notare che concessioni e appalti risultano sottoposti, proprio con riguardo al tema della risoluzione in corso di esecuzione, ad una disciplina in parte comune. Si veda, in particolare, il testo dell’art. 108 comma II lett. c il quale si riferisce, forse per un difetto di coordinamento, indifferentemente alla “procedura di appalto o di aggiudicazione della concessione”.

[35] Diverse le fattispecie conosciute dal nostro ordinamento. E’ il caso, secondo alcuni, del provvedimento affetto da anticomunitarietà (sul fenomeno si vedano gli studi di G. GRECO, “Illegittimità comunitaria e pari dignità tra gli ordinamenti”, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., II, 2000, 505 e ss., M.P. CHITI, “Le peculiarità dell’invalidità amministrativa per anticomunitarietà”, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., II,2008, 477 e ss e N. PIGNATELLI, “L’illegittimità comunitaria dell’atto amministrativo”, in Giur. Cost., 2008, IV, 3635. Tra le ipotesi di annullamento “doveroso” figurava, fino alla recente abrogazione proprio per effetto della l. n. 124 del 7 agosto del 2015, n. 146, l’art 1 comma 136 della l. n. 311 del 2005. Ulteriore esempio è dato, poi, dall’art. 14 comma XX del d.l. n. 78/2010. La norma, che si riferisce specificatamente alla violazione del patto di stabilità, stabilisce che Gli atti adottati dalla Giunta regionale o dal Consiglio regionale durante i dieci mesi antecedenti alla data di svolgimento delle elezioni regionali, con i quali è stata assunta le decisione di violare il patto di stabilità interno, sono annullati senza indugio dallo stesso organo”.

 

[36]G. GALLONE, “Annullamento d’ufficio e sorte del contratto”, cit.,  175 e ss. .

[37] Il carattere “doveroso” dell’annullamento reca con sé numerose implicazioni. Se esso è oggetto di un vero e proprio obbligo dell’amministrazione si deve ritenere che, in caso di inerzia, sia attivabile l’azione avverso il silenzio ex artt. 31 e 117 c.p.a. . La mancata attivazione del potere di annullamento potrebbe , inoltre, avere conseguenze di tipo patrimoniale per la parte pubblica. Quest’ultima potrebbe, infatti, andare incontro, come stabilito dall’ultimo alinea del nuovo comma I dell’art. 21 nonies della l. n. 241 del 1990, alle responsabilità (non solo amministrative ma anche contabili e penali) “connesse […] al mancato annullamento del provvedimento illegittimo” ( per una disamina della diposizione, introdotta dalla l. n. 124 del 7 agosto del 2015, n. 146 si rinvia  a. A. SANDULLI, “Gli effetti diretti della L. 7 agosto 2015 n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio-assenso e autotutela”, su www.federalismi.it , 17, 2015).

[38] Cui corrisponde l’art. 176 comma I lett. c) in tema di concessioni.

[39] Ai sensi dell’art. 1660 ultimo comma c.c., per il caso di “variazioni necessarie del progetto”, se le stesse sono di notevole entità , “il committente può recedere dal contatto”.

[40] Si ha ove il riconoscimento del diritto di recesso assolva alla funzione di consentire alla parte, mediante il suo esercizio, di rimediare a vizi originari o sopravvenuti del contratto. In generale sul recesso si vedano W. D'AVANZO, voce Recesso, in N.sso Dig.it., vol. XIV, 1967 e G. GABRIELLI e F. PADOVINI, voce Recesso, in Enc. dir., vol. XXXIX, 1988, p. 42 . Un simile inquadramento scongiurerebbe, peraltro, il rischio di cadere in contraddizione ammettendo iniziative che si pongano in contrasto con il divieto di venire contra factum proprium.

[41] Recita l’art. 108 comma V “Nel caso di risoluzione del contratto l'appaltatore ha diritto soltanto al pagamento delle prestazioni relative ai lavori, servizi o forniture regolarmente eseguiti, decurtato degli oneri aggiuntivi derivanti dallo scioglimento del contratto”.

[42] F. FRENI, “Descrive ma non spiega: inefficacia, ovvero del compromesso. Note polemiche a margine dell’art. 245 ter del Codice degli Appalti”, in www.giustamm.it , n.5/2010.

[43] Rimane, per converso, esclusa, come si osservava in precedenza, l’applicazione di tutte quelle previsioni , mutuate dall’art. 136 del  vecchio codice dei contratti, riferibili al solo caso della risoluzione per “grave inadempimento alle obbligazioni contrattuali” (tra queste, e.g. le disposizioni di cui ai commi III e IV dell’art. 108).

[44] Sul limite temporale di diciotto mesi introdotto dalla l. n. 124 del 7 agosto del 2015, n. 146 recante “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche” pubblicata in G.U. n. 187 del 13 agosto 2015. si rinvia a M. A. SANDULLI, “Gli effetti diretti della L. 7 agosto 2015 n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio-assenso e autotutela”, su www.federalismi.it , 17, 2015.

[45] Come poc’anzi evidenziato essa infatti stabilisce che l’amministrazione debba essere messa in condizione di risolvere il contratto “almeno” nelle ipotesi dalla stessa elencate, così non escludendo altre e diverse ipotesi di risoluzione.

[46] Non ogni illegittimità consente il ritiro in autotutela dell’aggiudicazione ma solo quella che abbia spiegato una efficacia determinante rispetto all’aggiudicazione. In questo senso depone il dato letterale della disposizione, che si riferisce al caso in cui “l’appalto non avrebbe dovuto essere aggiudicato” in considerazione dell’accertata trasgressione degli obblighi derivanti dai trattati o della violazione del nuovo codice dei contratti pubblici. Ciò si sposa con l’idea secondo cui  il riscontro dell’illegittimità dell’azione amministrativa che dà la stura al ritiro in autotutela del provvedimento può sortire conseguenze sul negozio a valle solo ove determini una alterazione funzionale della causa dello stesso, compromettendo la realizzazione degli interessi ivi in concreto divisati (così G. GALLONE, “Annullamento d’ufficio e sorte del contratto”, cit., 167 e ss.). Diversamente per le altre ipotesi tipizzate dal legislatore e, in particolare, quelle di cui all’art. 108 comma II lett. c opererebbe, in ragione della diversa formulazione testuale e della natura della violazione, una presunzione iuris et de iure di incidenza della violazione sul risultato della procedura di affidamento.

[47] Il depotenziamento degli strumenti di autotutela in favore di una maggiore stabilità dell’azione amministrativa rappresenta la costante di fondo degli ultimi interventi normativi, registratisi tra il 2014 ed il 2015(M. A. SANDULLI, “Gli effetti diretti della L. 7 agosto 2015 n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio-assenso e autotutela”, su www.federalismi.it , 17, 2015). Esigenza di stabilità che non è legata, come da tradizione, al valore costituzionale del buon andamento, ma alla tutela dell’affidamento degli operatori economici (inteso nella sua dimensione più squisitamente imprenditoriale come interesse ad una serena pianificazione degli investimenti).

[48] Diversa è l’ipotesi sub c) ove l’annullamento conserverà il proprio assetto tradizionale.

[49] Analoga difficoltà si riscontra con riguardo all’altra fattispecie di cui  alla lett. d) del comma II dell’art. 108, relativa all’ipotesi in cui una grave violazione degli obblighi nascenti dai Trattati sia stato riconosciuta dalla Corte di Giustizia ad esito di apposito giudizio ex art. 258 del T.F.U.E. . Sembra, tuttavia, che in quest’ultimo caso,  la previsione nel diritto interno di una norma che ponga limiti temporali alla risoluzione pur in presenza  di una evidente trasgressione del diritto dell’Unione possa ritenersi incompatibile con questo e, quindi, passibile di disapplicazione.

[50] Circostanza che si verifica, di solito, nel caso di vizi c.d. non invalidanti ex art. 21 octies comma II della l. n. 241 del 1990. 

[51] Sembra quasi che l’annullamento, nella sua nuova veste “giustiziale”, si ponga a completamento del sistema, consentendo la rimozione del vincolo anche in quelle ipotesi in cui il giudice, preventivamente adito, non abbia ritenuto di farlo.

[52] Come già tradizionalmente avveniva con riguardo alle diverse fattispecie di risoluzione e recesso contemplate dal vecchio codice dei contratti.  Nel senso della sussistenza della giurisdizione del Giudice ordinario con riguardo alle ipotesi di risoluzione per reati accertati , per decadenza dall’attestazione e per gravi inadempimenti o irregolarità di cui agli artt. 135 e 136 del d.lgs. n. 163/2006 si vedano Cassazione, Sezioni Unite civili, 6 maggio 2005, n. 9391 in Giust. civ. Mass., 5, 2005 e Consiglio di Stato,  sez. V, 17 ottobre 2008 n. 5071 in  Foro Amm.-  C.d.S, 10, 2008,  2726.

Sul recesso ex art. 134 del d.lgs. n. 163/2006, in quanto espressione di un potere non pubblico ma contrattuale Consiglio Stato,  sez. V, 18 settembre 2008, n. 4455 in Foro Amm. C.d.S., 9, 2008, 2424 che riprende Cassazione civile,  sez. un., 26 giugno 2003 n. 10160 in Foro Amm.-  C.d.S, 2003, 1834.

Sulla determinazione di incamerazione della cauzione Cassazione, Sezioni Unite civili, 27 febbraio 2007, n. 4425 in  Foro Amm. - C.d.S., 5, 2007, 1381.

[53] Del primo avviso è in dottrina A. TRAVI, “La giurisdizione sul contratto fra giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria: la disciplina del c.p.a. e i nuovi interrogativi”, in Urb. App., 2012, 11, 1148 e ss. . Per una panoramica dei diversi orientamenti e un tentativo di rimediare alla frammentazione della giurisdizione attraverso l’istituto della disapplicazione  anche G. GALLONE, “Annullamento d’ufficio e sorte del contratto”, cit., 201 e ss. . In giurisprudenza si vedano  Consiglio di Stato, sez. V, 7 settembre 2011, n. 5032 e Consiglio di Stato, sez. V, 4 gennaio 2011, n. 11 su www.giustizia-amministrativa.it e Cassazione, Sezioni Unite civili, 8 agosto 2012 n. 14260 in  Foro amm. - C.d.S., 11, 2012, 2772 .