Il punto della situazione alla luce delle recentissime modifiche

1. Il potere speciale dell'ANAC di adottare pareri motivati e di impugnare i provvedimenti affetti da gravi violazioni del codice. 1.1. L’art. 52-ter del decreto legge n. 50/2017: dalle ceneri delle raccomandazioni vincolanti sorge il potere di azione dell'ANAC. Il modello della legittimazione processuale speciale dell’AGCM e la funzione di “advocacy”. – 1.2. Il confronto con l’art. 21-bis della legge n. 287/1990. Le differenze dallo schema proposto dal Consiglio di Stato. – 1.3. Il fondamento della legittimazione processuale dell’ANAC. Il carattere speciale o straordinario del potere di azione e la giurisdizione di diritto oggettivo. – 1.4. I dubbi di legittimità costituzionale del potere di azione speciale dell'AGCM e dell'ANAC.

2. L'ambito di applicazione della nuova disciplina. 2.1. Lo spazio oggettivo e soggettivo di operatività del nuovo istituto: l'intento limitativo del legislatore. – 2.2. I contratti di rilevante impatto. – 2.3. L’assenza di un potere di azione relativo alla fase di esecuzione dei contratti. L’elenco degli atti impugnabili. – 2.4. Gli appalti e gli altri tipi contrattuali, le concessioni, i contratti esclusi. – 2.5. Il parametro di legittimità delle censure deducibili dall’ANAC: la disciplina dei contratti pubblici e le violazioni “del presente codice”. La nozione di “grave” violazione del codice. L’ANAC ha il potere di denunciare i vizi di incompetenza e di eccesso di potere?

3. La fase preliminare alla proposizione del ricorso e l'emanazione del parere motivato. – 3.1. Il procedimento preliminare all’esercizio dell’azione. – 3.2. La fase preliminare è sempre condizione di ammissibilità del ricorso? – 3.3. Il procedimento ha natura giuridica "privata" o amministrativa? Il potere dell'ANAC è libero, discrezionale, doveroso, o eventualmente autovincolato? - 3.4 Le conseguenze della violazione del dovere di procedere dell’ANAC. – 3.5. L’iniziativa di “denuncia” dei soggetti privati. Il Considerando n. 122 e la tutela dei “cittadini-contribuenti” imposta dal diritto UE. – 3.6. Le segnalazioni provenienti da soggetti pubblici qualificati: un dovere di procedere dell’ANAC? Le possibili sovrapposizioni con il potere di azione dell’AGCM – 3.7. Gli atti di preiniziativa adottati da soggetti privati o pubblici possono costituire un obbligo di procedere in capo all’Autorità? – 3.8. Il termine per l'emissione del parere motivato e la sua decorrenza. – 3.9. L’art. 21-nonies della legge n. 241/1990: il parere motivato è soggetto al limite temporale di diciotto mesi e al principio del termine ragionevole? – 3.10. La partecipazione della stazione appaltante e dei terzi al procedimento. – 3.11. La conclusione della prima fase del procedimento preliminare: la natura giuridica del parere motivato e dei suoi effetti – 3.12. Gli effetti sostanziali del parere motivato: un dovere della stazione appaltante di attivare l'autotutela? – 3.13. Il parere motivato è autonomamente e immediatamente impugnabile? - 3.14 I provvedimenti adottati dall’amministrazione in seguito alla pronuncia del parere. – 3.15. Il termine assegnato all’amministrazione per l’adeguamento al parere motivato.

4. La fase processuale. 4.1. Dal parere motivato alla proposizione del ricorso. L'oggetto del giudizio nel caso di conferma espressa dell’originario provvedimento. – 4.2. L’ANAC deve dimostrare la sussistenza di un concreto diretto e attuale interesse al ricorso? – 4.3. La competenza territoriale: l’applicazione delle regole generali e la inoperatività della competenza funzionale del TAR Lazio. Il rito applicabile e il rinvio all’art. 120 del CPA. – 4.4. Le regole processuali: la compatibilità con il rito superspeciale su ammissioni ed esclusioni. – 4.5. Il giudizio cautelare. – 4.6. I motivi aggiunti e l’impugnazione di provvedimenti connessi: è necessaria l’emanazione di un nuovo parere motivato? – 4.7. Il patrocino dell’Avvocatura dello Stato secondo le regole generali. – 4.8. Le domande proponibili al giudice amministrativo. L’azione di annullamento esaurisce la legittimazione speciale dell’ANAC? La corrispondenza tra i vizi dedotti in giudizio e quelli enunciati nel parere motivato. La proponibilità di questioni incidentali di legittimità costituzionale o comunitaria - - 4.9. L’appello e le altre impugnazioni. – 4.10. La fase transitoria e il regolamento attuativo di cui al comma 1-quater.

  1. il potere speciale dell'ANAC di adottare pareri motivati e di impugnare i provvedimenti affetti da gravi violazioni del codice.

1.1. L’art. 52-ter del decreto legge n. 50/2017: dalle ceneri delle raccomandazioni vincolanti sorge il potere di azione dell'ANAC. Il modello della legittimazione processuale speciale dell’AGCM e la funzione di “advocacy

L'art. 52-ter del decreto legge n. 50/2017, nel testo derivante dalla legge di conversione[1] ha chiuso la complessa parabola delle raccomandazioni vincolanti. L'istituto di cui all'art. 211, comma 2, è rimasto definitivamente espunto dal sistema, come aveva stabilito il decreto correttivo. Al loro posto l'articolo 52-ter ha immesso nell'art. 211 del codice una disciplina radicalmente diversa, che corrisponde a quella augurata dal Consiglio di Stato[2]. Questa, a sua volta, risulta ispirata all'istituto contemplato dall'art. 21-bis della legge n. 287/1990[3], incentrato sulla legittimazione "speciale" dell'Autorità Antitrust, in materia di provvedimenti amministrativi lesivi delle norme a tutela della concorrenza[4].

Le regole sono basate sui seguenti capisaldi:

A) Attribuzione all'ANAC di una legittimazione processuale espressa, concernente la materia dei contratti pubblici, purché "di rilevante impatto".

B) Previsione di un procedimento prodromico all'esercizio dell'azione, scandito in tre successive fasi, la prima delle quali si conclude con un parere motivato, indicante le violazioni del codice riscontrate dall'Autorità.

C) Sottoposizione del giudizio proposto dall'ANAC dinanzi al TAR al rito speciale di cui all'art. 120 del CPA.

D) Rinvio ad un apposito regolamento attuativo dell'ANAC, inteso a meglio individuare i casi in cui l'Autorità ha la facoltà (o il dovere) di esercitare il potere di azione.

L'opzione compiuta dal legislatore potrebbe essere ricondotta allo sviluppo dello schema concettuale del potere di advocacy[5]. Il modello organizzativo e funzionale in questione consiste nell'attribuzione ad un soggetto pubblico (generalmente un'Autorità indipendente) di una specifica funzione di impulso, proposta e sollecitazione.

Attraverso gli strumenti dell'advocacy, si intendono coordinare le prerogative di soggetti diversi, titolari di interessi pubblici potenzialmente conflittuali. A seconda dei casi, poi, l'advocacy potrebbe essere intesa, alternativamente, come un "ampliamento" eccezionale delle attribuzioni istituzionali dell'ente, oppure come una limitazione delle prerogative "naturalmente" spettanti al soggetto pubblico.

Nel primo senso si comprende il potere di "segnalazione", con cui un'Autorità indica al Parlamento, o al Governo, le opportune iniziative - anche legislative - necessarie per realizzare specificati obiettivi. Nel secondo caso (advocacy come restrizione dei poteri del soggetto pubblico) si potrebbe indicare proprio la previsione dei commi 1-bis e seguenti. Nel nuovo sistema delineato dall'art. 211 ora vigente, l'ANAC non ha più il potere "forte" di ordinare, tramite la raccomandazione vincolante, assistita da una sanzione pecuniaria, il riesame dei provvedimenti ritenuti illegittimi, ma ha solo la facoltà di rivolgersi al giudice, previo lo svolgimento di un tipico procedimento preliminare.

In una prospettiva più generale, la scelta di sostituire il meccanismo dell'ordine di rimozione dell'illegittimità con l'azione dinanzi al giudice amministrativo, preceduta da una fase stragiudiziale - potrebbe essere coerente con le suggestioni della "soft law": prima di attivare procedure coercitive (in ogni caso, governate dal giudice), l'Autorità deve attivare una fase finalizzata all'adeguamento spontaneo della stazione appaltante.

Potrebbe suscitare qualche perplessità l'opzione di sopprimere radicalmente le raccomandazioni vincolanti, senza vagliare la nuova fisionomia dell'istituto derivante dal regolamento attuativo predisposto dall'ANAC, largamente "guidato" dal parere del Consiglio di Stato.

Né sembrano essere state calibrate le possibilità "intermedie" di correzione della norma. Opinabile è la decisione di non attendere la verifica dell'attuazione concreta dell'istituto e i possibili orientamenti interpretativi del giudice amministrativo nell'ambito di un eventuale contenzioso[6]. Come recisamente affermato dal parere del Consiglio di Stato sul decreto correttivo, la VIR (ossia la verifica ex post dell'impatto della regolazione) costituisce il presupposto indefettibile di ogni buona riforma.

Si dovrebbe aggiungere, infine, che il meccanismo introdotto dall'art. 21-bis, a sua volta, rappresenta oggetto di dibattito dogmatico e propone svariate incertezze interpretative.

La nuova disciplina ha capovolto il ruolo dell'ANAC.

In ambito sostanziale, al cospetto di un provvedimento illegittimo di una stazione appaltante, l'Autorità emana, semplicemente, un "parere motivato": nel caso in cui la stazione appaltante scelga di non conformarsi a tale valutazione giuridica, l'unico effetto espressamente previsto consiste nel facoltizzare l'ANAC a proporre l'azione in giudizio.

In ambito processuale, l'ANAC non è più il soggetto che difende in giudizio la propria determinazione, ma diventa la parte che attacca nel processo i provvedimenti illegittimi delle stazioni appaltanti.

A ben vedere, però, il ridimensionamento del ruolo dell'ANAC è solo parziale. La raccomandazione vincolante non determinava l'annullamento del provvedimento ritenuto illegittimo. Nell'eventuale giudizio di impugnazione della raccomandazione vincolante, l'ANAC seppure formalmente parte resistente, doveva considerarsi sostanzialmente "attrice", perché, nel difendere il proprio atto, avrebbe dovuto ribadire e sviluppare gli argomenti a sostegno della illegittimità del provvedimento adottato dalla stazione appaltante, pur nei limiti delle censure articolate dalla parte ricorrente.

Inoltre, il parere motivato adottato dall'ANAC non sembra totalmente privo di effetti giuridici sostanziali e potrebbe essere accostato ad una particolare ipotesi di "raccomandazione non vincolante", fondata, quanto meno, sui principi generali di cui all'art. 213 del codice.

 

1.2. Il confronto con l’art. 21-bis della legge n. 287/1990. Le differenze dallo schema proposto dal Consiglio di Stato

La previsione legislativa dell'art. 211, commi 1-bis e ss. si riallaccia al suggerimento prospettato dal Consiglio di Stato. La formula proposta dall'organo consultivo è modellata, a sua volta, sulla dizione di cui all'art. 21-bis della legge n. 287/1990[7].Gli aspetti di immediata differenza tra l’art. 21-bis e la nuova disciplina dell’art. 211, commi 1-bis, 1-ter e 1-quater, sono, però, numerosi.

  1. Trattandosi di commi aggiuntivi, inseriti in un articolo dedicato al "precontenzioso", le innovazioni di cui all'art. 211 omettono una specifica rubrica[8], come quella dell'art. 21-bis, finalisticamente orientata a individuare i poteri dell'AGCM sugli atti che "determinano distorsioni della concorrenza".
  2. L’elenco testuale degli atti impugnabili dall’ANAC comprende anche i bandi di gara, ma non menziona espressamente i regolamenti, indicati invece dall'art. 21-bis.
  3. Nell'art. 211, la legittimazione dell'ANAC è espressamente riferita all'impugnazione degli atti elencati dalla disposizione e non, genericamente, alla proposizione del ricorso "contro" tali provvedimenti. La locuzione utilizzata potrebbe mirare a restringere le azioni proponibili dall'ANAC alla sola domanda di annullamento.
  4. Nell'art. 211 si chiarisce che il potere di azione dell'ANAC si connette alla circostanza che essa "ritenga" sussistente la violazione delle norme in materia di contratti pubblici. Nell'art. 21-bis, la legittimazione dell'AGCM parrebbe testualmente riferita alla circostanza oggettiva della esistenza della violazione.
  5. Il verbo "ritenga" si riferisce solo alle violazioni e non al requisito del rilevante impatto del contratto, che costituisce, oggettivo coelemento della legittimazione al ricorso dell'ANAC e componente della fondatezza della domanda.
  6. Nell'art. 211 si limita il potere di azione dell’ANAC, mediante il riferimento alla nozione dei “contratti di rilevante impatto”.
  7. Sotto il profilo soggettivo, nell'art. 211 si fa riferimento alla locuzione “qualsiasi stazione appaltante”, anziché a quella di “qualsiasi amministrazione pubblica".
  8. Il parametro oggettivo previsto dall'art. 211 è individuato con riferimento alla violazione delle norme in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, anziché alle “norme a tutela della concorrenza e del mercato”. Manca, pertanto, il richiamo ad una nozione funzionale o finalistica, come potrebbe essere quella della "tutela" di un ampio principio economico e giuridico, sostituito dalla menzione di una "materia".
  9. Per l'art. 211, comma 1-ter, il parere motivato preliminare è adottato dall’ANAC quando essa ritiene che un provvedimento sia “viziato da gravi violazioni del presente codice”. In tal modo, a differenza dell’art. 21-bis, si prevede che la violazione debba presentare il requisito della gravità.
  10. L'indicato riferimento alla violazione del codice dei contratti pubblici delimita l'ambito di operatività della norma e pone un problema di coordinamento con la più ampia dizione riguardante la disciplina dei contratti pubblici di cui al comma 1-bis.
  11. Ulteriore distinzione lessicale consiste nella circostanza che, per l'art. 21-bis, comma 2, il procedimento preliminare riguarda un atto, mentre, per l'art. 211, comma 1-ter, l'analogo potere dell'ANAC riguarda un provvedimento.
  12. La norma dell'art. 211 stabilisce che il termine di sessanta giorni per l’emanazione del parere motivato decorre dalla notizia della violazione. L’art. 21-bis, pur prevedendo lo stesso termine di sessanta giorni, non ne definisce puntualmente la decorrenza.
  13. Secondo la norma di cui all'art. 211, il parere “indica specificamente i vizi di legittimità riscontrati”, mentre per l’art. 21 bis, il parere motivato “indica gli specifici profili delle violazioni riscontrate”..
  14. Nell'art. 211 è puntualmente prevista la comunicazione del parere alla stazione appaltante.
  15. Nella nuova norma, il termine per la conformazione al parere motivato è quello “assegnato dall’ANAC, comunque non superiore a sessanta giorni”. Nell’art. 21-bis, invece, il termine è stabilito (in apparenza rigidamente) in sessanta giorni.
  16. L'art. 211, comma 1-ter chiarisce che il ricorso dell'ANAC va proposto "innanzi al giudice amministrativo". Tale inciso manca nell'art. 21-bis, ma non pare dubbio che pure la legittimazione speciale dell'AGCM riguardi solo la tutela davanti al giudice amministrativo.
  17. Nell’art. 211 non si prevede espressamente che il ricorso debba essere presentato “tramite l'Avvocatura dello Stato”, come stabilito, invece dall'art. 21-bis.
  18. L’art. 211, comma 1-ter, ultimo periodo, prevede che “si applica l’articolo 120 del codice del processo amministrativo”, mentre l’art. 21-bis, in modo più confuso, richiama la disciplina di cui al Libro IV, Titolo V, del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104.
  19. La differenza tra le due citate formulazioni non è priva di rilievo, perché non è affatto chiaro se (tanto nell'art. 211, quanto nell'art. 21-bis) ci si trovi in presenza di due ipotesi distinte, l'una concernente la legittimazione "diretta" dell'Autorità, la seconda riguardante la facoltà di ricorso, previo espletamento della procedura preliminare.
  20. L'art. 211, al pari dell'art. 21-bis, prevede il termine di trenta giorni per la proposizione del ricorso al TAR. L'indicazione sembrerebbe ora superflua, considerando che l'art. 120 del CPA, richiamato dalla disposizione, stabilisce chiaramente il termine di trenta giorni.
  21. Nella nuova disposizione si introduce, all’ultimo comma, una previsione che non trova riscontro nell’art. 21-bis: “l’ANAC con proprio regolamento può individuare i casi o le tipologie di provvedimenti in relazione ai quali esercitare i poteri di cui ai commi 1-bis e 1-ter”.

L’unica differenza di specifico rilievo tra il testo proposto dalla Commissione Speciale e quello varato dal Parlamento consiste nella previsione di un regolamento attuativo, in luogo delle linee guida ipotizzate dall’organo consultivo.

In tal modo sembrerebbe evitata la complessa questione generale della natura giuridica e della vincolatività delle linee guida. È ragionevole ritenere che la fonte regolamentare costituisca una base più solida per fissare precisi vincoli al potere di azione dell'ANAC. La disciplina regolamentare attuativa, che la legge configura come "facoltativa", è, in concreto, destinata a rinviare nel tempo la pratica operatività delle nuove norme.

 

1.3. Il fondamento della legittimazione processuale dell’ANAC. Il carattere speciale o straordinario del potere di azione e la giurisdizione di diritto oggettivo.

Si è molto discusso in ordine alla esatta individuazione del fondamento della legittimazione al ricorso da parte dell’AGCM, stabilita dall’art. 21-bis.

Si è dubitato, in primo luogo, se l'art. 21-bis sia compatibile con i caratteri soggettivi della giurisdizione amministrativa, o se invece la norma abbia introdotto un'ipotesi di giurisdizione di diritto oggettivo (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 15 marzo 2013, n. 2720; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 6 maggio 2013, n. 4451), assegnando all’Autorità una legittimazione non solo speciale, ma straordinaria, o eccezionale, in quanto disancorata dalla protezione di una situazione giuridica soggettiva sostanziale[9].

La specialità della legittimazione processuale dell'ANAC riguarderebbe i seguenti aspetti:

è prevista da apposita norma legislativa;

è regolata in modo peculiare, con riguardo a termini e procedimento preliminare;

ha un oggetto delimitato;

prescinde da uno specifico interesse al ricorso.

Per una prima tesi il riferimento alla "tutela della concorrenza", contenuto nell’art. 21-bis, rimandi a una giurisdizione di diritto oggettivo, correlata alla salvaguardia di un interesse generale. Tale orientamento esclude che l'Autorità sia titolare, sul piano sostanziale, di un interesse legittimo in senso proprio (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 6 maggio 2013, n. 4451).

L'interesse alla concorrenza coinciderebbe con la sommatoria di molteplici interessi di mero fatto: secondo la giurisprudenza, allora, si dovrebbe parlare di "azione senza posizione soggettiva" (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 15 marzo 2013, n. 2720; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 6 maggio 2013, n. 4451).

In senso opposto, un più convincente filone giurisprudenziale nega che l'art. 21-bis abbia introdotto un'ipotesi di giurisdizione oggettiva (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 6 maggio 2013, n. 4451; TAR Lazio, Roma, Sez. III, 15 marzo 2013, n. 2720; Cons. Stato, Sez. V, 30 aprile 2014, n. 2246; TAR Lombardia, Milano, Sez. I, 8 luglio 2016, n. 1356; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 29 giugno 2016, n. 1373).

Anche la dottrina (SANDULLI) chiarisce che il nuovo potere dell’AGCM deve essere visto, più che come potere di azione nell’interesse generale al rispetto della legge, come azione a tutela di una situazione giuridica differenziata e qualificata. La disposizione ha riconosciuto (o creato) in capo all'AGCM la titolarità di una posizione sostanziale di interesse legittimo, nominato e tipico, assistita da un peculiare potere di azione in giudizio.

L’art. 21-bis, "lungi dall'introdurre una ipotesi eccezionale di giurisdizione amministrativa di diritto oggettivo per la tutela di un interesse generale, delinea un ordinario potere di azione, riconducibile alla giurisdizione a tutela di situazioni giuridiche individuali, qualificate e differenziate, benché soggettivamente riferite ad un'Autorità pubblica" (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 15 marzo 2013, n. 2720).

Per rafforzare la base giustificativa del potere dell’AGCM, anche in chiave comunitaria, si afferma, poi, che tale speciale legittimazione costituisce il completamento del potere riconosciuto all'AGCM ai sensi dell'art. 15 del Reg. CE n. 3/2001 e la trasposizione interna della procedura di infrazione prevista dalla normativa dell'Unione ai sensi dell'art. 258 T.F.U.E.

Il Consiglio di Stato ha spiegato la ratio dell’art. 21-bis anche in funzione della "particolare rilevanza dell'interesse pubblico in gioco". Il TAR del Lazio ha parlato, poi. di "primazia della tutela della libertà di concorrenza".

Parte della dottrina (MATTARELLA) dubita i che l'interesse pubblico alla concorrenza sia necessariamente “più importante” di altri, e che esso goda di una tutela rafforzata. Piuttosto, si dice che “la disposizione può essere spiegata semplicemente facendo riferimento alla natura dell'interesse alla concorrenza: un interesse debole perché diffuso, di quelli che frequentemente il legislatore affida alle cure di un'autorità indipendente, o perfino "adespota"; spesso divergente da quello della singola amministrazione, specialmente se locale, e della relativa popolazione; e, quindi, facilmente leso da atti contro i quali nessuno ha interesse a ricorrere. La disposizione in esame, dunque, può essere spiegata facendo riferimento a una frequente dinamica amministrativa, che induce molte amministrazioni pubbliche a porre ostacoli al libero dispiegarsi della concorrenza, piuttosto che a una sovraordinazione dell'interesse alla concorrenza rispetto ad altri interessi pubblici.

Queste considerazioni sono estensibili al settore dei contratti pubblici?, In tale ambito è evidente la rilevanza delle posizioni individuali, spesso dilatata fino a segnare una iperprotezione anche di interessi strumentali marginali ed eventuali. È difficile ipotizzare l’esistenza di numerosi interessi totalmente “adespoti”, non giustiziabili attraverso le vie ordinarie. Semmai, uno dei “mali” del settore dei contratti è costituito proprio dall’eccesso di contenzioso.

Pertanto, la legittimazione speciale dell’ANAC potrebbe determinare, in numerosi casi concreti, un fenomeno di “sostituzione processuale”, piuttosto che di personificazione di interessi diffusi. Spetterà all’Autorità verificare se restringere l’esercizio del proprio potere di azione, escludendolo nei casi in cui la proposizione del ricorso potrebbe apparire come una forma di “supplenza” alla inerzia delle iniziative spettanti ai soggetti direttamente interessati.

Paradossalmente, la riforma del 2017 sembra segnare un inedito passaggio dal precontenzioso ad una sorta di supercontenzioso, di pluscontenzioso o di extracontenzioso, perché, potenzialmente, si dilata notevolmente l’ambito entro cui potranno aprirsi controversie dinanzi al giudice.

Tale esito è solo in pare attenuato dalla circostanza che, prima dell’avvio del processo, è prevista una complessa fase preliminare, di carattere lato sensu precontenzioso.

Tuttavia, proprio le direttive del 2014, insieme alla forte enfatizzazione del valore generale e imperativo della tutela della legalità delle procedure di gara, impongono di assicurare un più esteso controllo del rispetto delle regole. In tale quadro, l’ampliamento della legittimazione al ricorso per la tutela obiettiva dell’ordinamento e i valori fondamentali del sistema risulta perfettamente coerente con la nuova fisionomia, europea e nazionale, dell’intero settore dei contratti pubblici.

L'art. 21-bis e l'art. 211 sviluppano l’iter logico alla base dei numerosi esempi di aperture alla legittimazione di soggetti pubblici e di associazioni che possono agire per la tutela di interessi superindividuali, come nel caso degli interessi diffusi (Cons. Stato, Sez. VI, 23 maggio 2011, n. 3107; Cons. Stato, Sez. IV, 11 novembre 2011, n. 5986).

Il sistema contempla altre ipotesi di ricorsi proposti da soggetti pubblici: per esempio la Banca d'Italia contro certe delibere delle banche (art. 24 del D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385), oppure l'impugnazione, da parte del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca degli statuti e dei regolamenti delle università, ai sensi dell'art. 6 della L. 9 maggio 1989, n. 168 e dell'art. 2, comma 7, L. 20 dicembre 2010, n. 240.

Nello stesso si pone la norma che attribuisce all'Autorità di regolazione dei trasporti un potere di ricorso al giudice amministrativo, in materia di provvedimenti concernenti il rilascio di licenze taxi (Art. 37, comma 2, lett. n), D.L. 6 dicembre 2011, n. 201).

 

1.4. I dubbi di legittimità costituzionale del potere di azione speciale dell'AGCM e dell'ANAC

Sono stati prospettati diversi dubbi di legittimità costituzionale dell'art. 21-bis, relativamente agli artt. 103, 113 Cost. e all'eventuale illegittima reintroduzione di un controllo generalizzato ex art. 125, comma 1 (abrogato per effetto della riforma del Titolo V).

Sulla compatibilità costituzionale con l'art. 103 Cost. si è pronunciato il TAR Lazio, affermando che, l'intento della norma non sia quello di limitare l'introduzione di ipotesi di giurisdizione oggettiva, ma solo di definire uno standard di protezione minimo in virtù del quale sia assicurata una tutela davanti al giudice amministrativo a chiunque vanti una posizione giuridica differenziata nei confronti di una Pubblica Amministrazione (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 15 marzo 2013, n. 2720).

Secondo la giurisprudenza, poi, i dubbi di incostituzionalità dell'art. 21-bis rispetto all'art. 103 Cost. diminuiscono ulteriormente se si accoglie la tesi della giurisdizione di tipo soggettivo. Infatti, aderendo a tale orientamento, si deve sostenere che, per effetto della disposizione, il legislatore ha attribuito la titolarità dell'interesse alla concorrenza all'AGCM, trasformandolo da interesse diffuso a interesse collettivo, in virtù del valore primario che l'ordinamento costituzionale e dell'UE gli riconoscono (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 15 marzo 2013, n. 2720).

La Corte costituzionale, poi, ha respinto le censure promosse della Regione Veneto, secondo cui l'art. 21-bis avrebbe introdotto nel processo amministrativo una figura assimilabile a quella del pubblico ministero, in asserita palese violazione dell'art. 113, comma 1, Cost., in base al quale la condizione per agire davanti al giudice amministrativo è data dalla titolarità di una posizione giuridica sostanziale e dalla lesione della stessa ad opera del potere amministrativo (Corte cost., 14 febbraio 2013, n. 20).

La Consulta ha smentito espressamente che sia stata introdotta una figura equipollente al pubblico ministero, ritenendo il riferimento non pertinente. L'AGCM esercita l’azione a tutela dell'interesse al rispetto della concorrenza. Dunque, l'art. 21-bis ha introdotto un potere di iniziativa del tutto peculiare.

Un’ulteriore questione è legata al fatto che la previsione dell'art. 21-bis legittima l'AGCM ad impugnare anche gli atti adottati dagli enti territoriali e delle Regioni. Si tratterebbe, allora, di una funzione di controllo assai simile a quello previsto dall'abrogato art. 125, comma 1, della Cost., ora non più vigente, per effetto della riforma costituzionale del 2001 (Corte cost., 14 febbraio 2013, n. 20). In tal modo, si dubita che la legge ordinaria abbia previsto una regola non compatibile con l’attuale disegno del Titolo V della Costituzione.

La giurisprudenza ha però fermamente smentito che l'art. 21-bis possa aver introdotto un "nuovo e generalizzato controllo di legittimità". La norma ha soltanto integrato i poteri conoscitivi e consultivi già attribuiti all’AGCM dagli artt. 21 ss. della L. n. 287 del 1990, mediante la previsione di un potere di iniziativa finalizzato a contribuire ad una più completa tutela della concorrenza e del corretto funzionamento del mercato (Corte cost., 14 febbraio 2013, n. 20; Cons. Stato, Sez. V, 30 aprile 2014, n. 2246).

Pur con diverse criticità, il modello previsto dall’art. 211, al pari di quello indicato delineato dall’art. 21-bis, risulta compatibile con il quadro normativo di riferimento e con i principi costituzionali del sistema di tutela giurisdizionale.

 

2. L'ambito di applicazione della nuova disciplina

2.1. Lo spazio oggettivo e soggettivo di operatività del nuovo istituto: l'intento limitativo del legislatore.

Quali sono i casi in cui l'ANAC ha il potere (o il dovere) di agire dinanzi al giudice amministrativo? La dizione dell'articolo 211 è in un certo senso sospesa tra una concezione lata della materia dei contratti pubblici e l'antitetica preoccupazione di circoscrivere razionalmente, il potere di intervento dell'ANAC.

Nell'art. 211, emergono ben tre previsioni espresse, destinate a restringere sensibilmente i confini del potere dell'Autorità:

il rilevante impatto del contratto;

la gravità della violazione;

l'ulteriore possibilità di definire i margini di applicazione dell'istituto riservata alle determinazioni dell'ANAC.

Un aggiuntivo elemento di compressione del potere di azione dell'ANAC sembra rappresentato dal riferimento alle sole violazioni del codice: corpus normativo che tende a sistemare la massima parte della normativa in materia di contratti, senza però esaurirla.

Nessuna di queste restrizioni è presente nell'art. 21-bis e non era contemplata dall'art. 211, comma 2, con riguardo alle raccomandazioni vincolanti.

Dunque, a conti fatti, nel sistema ora vigente, rispetto alla originaria previsione del codice, l'oggettivo indebolimento del ruolo dell'ANAC nell'attività di contrasto agli atti illegittimi in materia di contratti pubblici è duplice:

  • scompaiono le raccomandazioni vincolanti, sostituite dalla mera legittimazione al ricorso;
  • il raggio di azione del potere è oggettivamente molto più contenuto, già nella disposizione legislativa.

La logica è quella di evitare un intervento concreto troppo invasivo dell'Autorità nelle singole procedure di gara, anche allo scopo di assicurare la "sostenibilità" gestionale e amministrativa del contenzioso. Probabilmente, l'obiettivo è quello di attivare non più di 20-30i ricorsi all'anno, in misura non troppo dissimile dalle cifre dei ricorsi ex art. 21-bis proposti dall'AGCM.

Sotto il profilo soggettivo, il riferimento compiuto dall'art. 211 ai provvedimenti di qualsiasi stazione appaltante non risulta in linea con la previsione dell'art. 21-bis, incentrato sulla dizione "qualsiasi amministrazione pubblica". La formula è più ampia, anche se, in concreto, non sembra destinata a provocare particolari problemi applicativi.

Occorre fare riferimento, infatti, all'ampia e complessa nozione di cui alla lettera o) del codice secondo cui si intende per:

«stazione appaltante», le amministrazioni aggiudicatrici di cui alla lettera a) gli enti aggiudicatori di cui alla lettera e), i soggetti aggiudicatori di cui alla lettera f) e gli altri soggetti aggiudicatori di cui alla lettera g).

Le lettere richiamate, a loro volta, prevedono, analiticamente, le definizioni di «amministrazioni aggiudicatrici», «enti aggiudicatori», «soggetti aggiudicatori» e «altri soggetti aggiudicatori», i soggetti privati tenuti all'osservanza delle disposizioni del presente codice.

Resta aperto, tuttavia, il problema se la legittimazione dell'ANAC possa estendersi anche ad atti riguardanti in senso ampio la materia dei contratti pubblici, ma non posti in essere da "stazioni appaltanti".

Si pensi al caso degli atti generali con cui un'amministrazione definisca alcune regole operative concernenti l'organizzazione degli uffici o lo svolgimento delle procedure di affidamento di altri soggetti.

 

2.2. I contratti di rilevante impatto.

Sotto il profilo del perimetro oggettivo di applicazione, la disposizione di cui all'art. 211 non compie un mero rinvio alle competenze generali dell'ANAC, ma utilizza una formulazione più complessa e contraddittoria, alla luce delle antinomie formali tra i commi 1-bis e 1-ter. Il comma 1-bis, in particolare, fa riferimento ai soli contratti di rilevante impatto. La formula è piuttosto generica e del tutto insolita nel nostro linguaggio giuridico: probabilmente, lo scopo del legislatore è quello di lasciare un ampio margine discrezionale all'ANAC, nei propri atti generali e nella decisione concreta di qualificare un contratto come meritevole di particolare attenzione. Questa nozione dovrà essere precisata preventivamente dall'ANAC, nel regolamento di cui al comma 1-quater.

Va evidenziato il rischio che la previsione di questo ambiguo criterio selettivo possa generare incertezze applicative. Le parti evocate in giudizio potrebbero contestare lo stesso potere dell'ANAC, qualora l'appalto in questione possa essere qualificato di "impatto non rilevante".

Ma si potrebbe anche ipotizzare il rischio opposto: ossia che possa imputarsi all'ANAC un eccessivo lassismo nella scelta di non agire in giudizio, qualificando il contratto sottoposto al suo esame come "non rilevante", o di "serie B". Il tema risulta particolarmente complesso, perché occorre chiarire la "doverosità" dell'intervento dell'ANAC e la possibilità di contestare la decisione di non attivare il giudizio, specie se sollecitata da cittadini titolari di "interessi legittimi", ai sensi del Considerando n. 122, di cui alla direttiva n. 24/2014.

Testualmente, poi, non è chiaro se la locuzione "di rilevante impatto", diretta a delimitare il potere di azione dell'ANAC, riguardi tutti i provvedimenti astrattamente censurabili, oppure si riferisca solo a quelli non aventi carattere generale. Ma è preferibile ritenere che l'espressione non riguardi solo i provvedimenti singoli, ancorché, per gli atti "generali", la rilevanza di "impatto" potrebbe ritenersi spesso in re ipsa, considerata la possibile influenza sulle dinamiche complessive del mercato.

 

2.3. L’assenza di un potere di azione relativo alla fase di esecuzione dei contratti. L’elenco degli atti impugnabili

Poiché l'unica azione disciplinata da due commi è proponibile dinanzi al giudice amministrativo, si deve ritenere, che l'ANAC non possa intervenire per denunciare violazioni che incidano sulla fase di esecuzione del contratto e che appartengano alla cognizione del giudice ordinario o degli arbitri.

La scelta del legislatore potrebbe apparire razionale, considerando le difficoltà di sindacare la fase esecutiva del contratto e la indubbia rilevanza dell'affidamento delle parti che hanno stipulato l'accordo. Tuttavia, si deve ricordare come l'attenzione dell'ANAC per la fase esecutiva del rapporto sia tutt'altro che marginale. L'interesse pubblico al contrasto alle illegittimità potrebbe emergere in modo più pressante, considerando l'assenza di soggetti interessati ad agire in giudizio. Si pensi al caso in cui, in corso di esecuzione dell'appalto, la stazione appaltante accordi una revisione del corrispettivo palesemente non dovuta o attribuisca altri vantaggi economici all'appaltatore. In tali eventualità nessun terzo avrebbe legittimazione al ricorso al giudice (ordinario), pur palesandosi l'opportunità di un contrasto a siffatte condotte, anche in chiave anticorruzione.

L'elencazione degli atti impugnabili dall'ANAC, modellata su quella racchiusa nell'art. 21-bis, non è priva di ambiguità. Si fa riferimento, infatti, ai bandi di gara e agli altri atti generali, insieme ai provvedimenti "singolari". Rispetto all'art. 21-bis, assume rilievo la menzione aggiuntiva dei bandi di gara e l'omissione dei regolamenti.

Il riferimento specifico ai bandi di gara potrebbe ritenersi superfluo, considerando che l'elenco indica già gli atti generali e i provvedimenti: i bandi appartengono necessariamente all'una o all'altra categoria. A tutto concedere, i bandi potrebbero assumere fisionomia "mista".

Tra gli atti generali dovrebbero rientrare, peraltro, a stretto rigore, anche i regolamenti adottati dalle stazioni appaltanti, indipendentemente dalla loro concreta attuazione. Ma la disposizione, a differenza dell'art. 21-bis, non li considera espressamente.

Questa discrepanza potrebbe circoscrive il potere dell'ANAC alla impugnazione di procedure di affidamento ben individuate, ancorché comprensive dei bandi e della lex specialis di gara. Viceversa, l'ANAC non dovrebbe mai agire contro atti di carattere normativo, per tutelare la sfera di autonomia delle amministrazioni.

Ma non si vede perché la contestazione degli atti regolamentari sia invece consentita all'Antitrust dall'art. 21-bis. In ogni caso, la legittimità del regolamento potrebbe essere vagliabile almeno nei casi in cui il vizio emerga in seguito alla adozione di un atto applicativo. Più in radice, è palese l'utilità di un intervento preventivo dell'ANAC, orientato all'annullamento immediato di atti suscettibili di reiterata applicazione e, per questo, più "pericolosi".

Ne deriva che sembra preferibile l'opinione secondo cui pure i regolamenti illegittimi possano essere impugnati, anche prescindendo dalla esistenza di un atto applicativo. Si dovrebbe valorizzare, in tal senso, la ratio della disposizione e il citato argomento secondo cui i regolamenti sono, in ultima analisi, tipi qualificati di atti generali. Il punto, comunque, formerà oggetto, assai probabilmente, di accurata valutazione in occasione del regolamento attuativo dell'ANAC, di cui al comma 1-quater.

 

2.4. Gli appalti e gli altri tipi contrattuali, le concessioni, i contratti esclusi

Il comma 1-bis, contempla letteralmente - e genericamente - i "contratti pubblici", omettendo di considerare espressamente anche le "concessioni".Si tratta di una carenza priva di conseguenze, perché non vi sono ragioni logiche per limitare il potere dell'ANAC in questa direzione. Oltretutto, il comma 1-ter sembra utilizzare una formula di maggiore ampiezza, incentrata sulle violazioni del "codice", che, ovviamente, disciplina anche le concessioni.

In sede interpretativa, del resto, è opportuno valorizzare la previsione dell'articolo 1 del codice: Il presente codice disciplina i contratti di appalto e di concessione delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori aventi ad oggetto l'acquisizione di servizi, forniture, lavori e opere, nonché i concorsi pubblici di progettazione. Si deve ritenere, allora, che la disposizione consideri unitariamente tutti i contratti con cui le stazioni appaltanti acquistano servizi forniture o lavori, indipendentemente dallo strumento utilizzato (appalto, concessione, altro contratto).

Un problema di un certo interesse riguarda l’applicabilità, o meno, del nuovo istituto ai “contratti esclusi”, aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture, nonché ai contratti attivi. L’affidamento di tali contratti, ai sensi dell’art. 4 del codice come modificato dall'art. 5, comma 1, del D. Lgs. 19 aprile 2017, n. 56, sebbene esclusi, in tutto o in parte, dall'ambito di applicazione oggettiva del codice, avviene nel devono essere affidati nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed efficienza energetica.

Il comma 1-bis fa riferimento a tutti i contratti relativi a lavori servizi o forniture, indipendentemente dall’assoggettamento al codice. Il comma 1-ter, poi, ha riguardo alle violazioni del codice, senza riferirsi ai soli contratti in materia di lavori servizi e forniture.

In questo caso, l’aporia tra i due commi complica il quadro, poiché il comma 1-ter in parte restringe e in parte amplia il raggio di azione della norma.

La soluzione più plausibile è che anche tali contratti rientrino nell'ambito applicativo della nuova disciplina.

 

2.5. Il parametro di legittimità delle censure deducibili dall’ANAC: la disciplina dei contratti pubblici e le violazioni “del presente codice”. La nozione di “grave” violazione del codice. L’ANAC ha il potere di denunciare i vizi di incompetenza e di eccesso di potere?

I commi 1-bis e 1-ter dell'art. 211, non essendo ben coordinati, pongono alcune questioni interpretative in ordine alla individuazione del parametro su cui misurare l'illegittimità dei provvedimenti impugnabili.

In primo luogo, l'illegittimità deve riguardare la disciplina dei contratti pubblici (comma 1-bis). La formula ha lo scopo di definire l'ambito del potere dell'ANAC, ma la dizione potrebbe essere ragionevolmente intesa in senso molto lato.

Il comma 1-ter, invece, fa riferimento alle violazioni (gravi) "del presente codice", ossia, in senso letterale, unicamente al contrasto con le sole disposizioni contenute nel corpus del codice. Tale formula, in base ad una esegesi testuale, avrebbe la conseguenza di escludere:

  • le violazioni di tutte le fonti, anche legislative - estranee al codice;
  • le violazioni riferite a norme di livello diverso, ancorché richiamate, direttamente o indirettamente, dal codice;
  • le violazioni immediatamente riferibili al diritto UE o a norme costituzionali.

Un parametro di legittimità così circoscritto, poi, potrebbe condurre ad escludere la proponibilità di questioni di legittimità costituzionale od europea. Nel contrasto fra le dizioni dei due commi sembra preferibile, tuttavia, seguire un'interpretazione omogenea, che consideri complessivamente tutta la disciplina in materia di contratti pubblici, indipendentemente dalla sua collocazione formale all'interno del decreto legislativo n. 50/2016. Il codice, in quanto espressione della normativa vincolante per le stazioni appaltanti, comprende anche le norme contenute in altre fonti, purché funzionalmente connesse alla materia dei contratti pubblici.

Si tratta, del resto, di normativa sempre rilevante, almeno per relationem. In questo senso, rileva, ovviamente, la violazione di regole e principi di matrice europea (UE e CEDU), ancorché non siano stati recepiti puntualmente nel codice; nonché il contrasto con provvedimenti presupposti, siano essi dotati, o meno, di efficacia generale (linee guida, bandi, capitolati).

Non è agevole stabilire in che cosa consista la "grave violazione". Anche in questo caso, il regolamento ANAC avrà certamente cura di chiarire molti degli aspetti problematici della nozione, riducendone l'elasticità. In prima approssimazione, si potrà fare riferimento alle gravi violazioni di cui all'art. 121 del CPA. Ma potranno essere considerate, in una prospettiva più larga, tutte le violazioni di norme espressione di regole del diritto europeo e recepite nel codice.

A ben vedere, però, il codice sembra avere accentuato la tendenza dell'ordinamento a considerare rilevanti solo le violazioni che comportino effettivamente una lesione di interessi sostanziali apprezzabili.

Mere violazioni formali non gravi sembrano inidonee ad incidere sulla annullabilità del provvedimento.

L'indicazione letterale incentrata sulla "violazione del codice" potrebbe portare alla inammissibilità delle censure di eccesso di potere e di incompetenza, in quanto non riconducibili alla disciplina racchiusa nel codice. Allo stesso risultato interpretativo, del resto, si potrebbe pervenire anche seguendo la dizione letterale del comma 1-bis, riguardante la violazione delle "norme dei contratti pubblici".

Questa soluzione, del resto risulta largamente accreditata in relazione alla ricostruzione interpretativa dell'art. 21-bis. Il punto merita di essere approfondito.

Nella materia dei contratti pubblici la rilevanza delle cause di annullabilità diverse dalla violazione di legge è sempre più netta. Il riparto delle competenze attiene all'ordinato svolgimento delle funzioni delle stazioni appaltanti: si pensi all'attenzione dell'ANAC per l'organizzazione delle amministrazioni stazioni appaltanti e dei compiti del responsabile, anche in chiave anticorruzione. Pertanto, l'incompetenza, per quanto circoscritta, dovrebbe assumere rilievo.

L'eccesso di potere, seppure ristretto nella disciplina dei contratti pubblici, ora contrassegnata dalla presenza di numerose norme vincolanti, continua ad avere uno spazio assai significativo nel contenzioso. La stessa ANAC, in più occasioni, ha sottolineato l'esigenza che le stazioni appaltanti procedano attraverso adeguate ponderazioni di interessi, motivazioni, istruttorie, che postulano un successivo controllo di legittimità attraverso il sindacato sull'eccesso di potere.

Tutto il sistema delle linee guida, inoltre, pare caratterizzato dalle esistenza di un certo spazio di discrezionalità delle stazioni appaltanti, subordinato, però, all'obbligo di adeguata e ragionevole motivazione della scelta compiuta. Anche il codice enuncia i principi generali cui devono conformarsi tutte le stazioni appaltanti nelle fasi di affidamento dei contratti, allargando l'ambito entro cui si svolge il sindacato del giudice amministrativo.

Pertanto, pare preferibile ritenere che il potere di azione dell'ANAC non sia limitato alla "violazione di legge" in senso stretto. Resta però da verificare in concreto, se tali illegittimità possano effettivamente superare la soglia della gravità.

 

3. La fase preliminare alla proposizione del ricorso e l'emanazione del parere motivato

3.1. Il procedimento preliminare all’esercizio dell’azione

La norma di cui al comma 1-ter ricalca, a grandi linee, la disciplina di cui al comma 2 dell'art. 21-bis, il quale descrive la sequenza procedimentale prodromica alla proposizione dell'azione dinanzi al TAR.

Secondo l'art. 21-bis, nei casi in cui una pubblica amministrazione abbia emanato un atto reputato lesivo delle norme antitrust, l'AGCM emana, entro sessanta giorni, un parere in cui indica gli specifici profili delle violazioni riscontrate. Se l'amministrazione intimata non si conforma nei sessanta giorni successivi alla comunicazione del parere, l'Autorità può ricorrere in giudizio entro trenta giorni.

L'art. 211, comma 1-ter contiene due importanti differenze:

  1. la decorrenza del termine per l'emissione del parere motivato è collegata espressamente alla "notizia della violazione";
  2. il termine spettante alla stazione appaltante per conformarsi al parere in seguito alla sua comunicazione, non è rigidamente stabilito dalla norma, ma è quello "assegnato dall’ANAC, comunque non superiore a sessanta giorni".

L'iter descritto dalla disposizione si sviluppa nelle seguenti tappe:

- La notizia della grave violazione del codice acquisita dall'ANAC;

- L'adozione e la successiva comunicazione alla stazione appaltante del parere motivato che "reca specificamente i vizi di legittimità riscontrati";

- La determinazione - anche tacita - con cui la stazione appaltante stabilisce di adeguarsi, o meno, al parere;

La decisione dell'ANAC di proporre ricorso al TAR, qualora sia accertata la mancata conformazione al parere.

La stringatezza della disciplina legislativa, a fronte della innegabile complessità della sequenza in esame, apre una pluralità di interrogativi.

A) L'iter descritto dal comma 1-ter va applicato in tutti i casi in cui l'ANAC intenda proporre ricorso, o costituisce una mera opzione di cui l'Autorità può liberamente avvalersi in alternativa al ricorso "diretto"?

B) Il comma 1-ter descrive un unico procedimento finalizzato alla decisione dell'ANAC di proporre ricorso? O si tratta di tre distinte fasi autonome, concluse con altrettanti atti:

- il parere motivato dell'ANAC;

- la decisione della stazione appaltante di conformarsi, o meno, al parere;

- la determinazione conclusiva dell'ANAC di proporre, o no, l'azione dinanzi al TAR, in seguito alla verifica della condotta della stazione appaltante.

C) Qual è la natura giuridica del procedimento?

D) L'ANAC è obbligata ad agire in giudizio, o, quanto meno, ad attivare il procedimento preliminare di cui al comma 1-ter?

E) Quali sono la natura giuridica, il contenuto e gli effetti del parere motivato? L'atto è impugnabile?

F) Quali obblighi scaturiscono in capo alla stazione appaltante in seguito alla comunicazione del parere motivato? Vi è un dovere di procedere all'autotutela? La stazione appaltante è soggetta alle regole di cui all'art. 21-nonies della legge n. 241/1990? Quale è il valore giuridico della eventuale conferma, anche tacita, del provvedimento osservato dall'ANAC?

G) L'ANAC ha l'obbligo di proporre ricorso in caso di accertata mancata conformazione al parere? La determinazione di agire o non agire in giudizio deve essere formalizzata in un apposito atto ed è censurabile dalle parti interessate?

H) Le violazioni del procedimento preliminare possono essere fatte valere nel successivo giudizio dinanzi al TAR? Con quali strumenti processuali?

 

3.2. La fase preliminare è sempre condizione di ammissibilità del ricorso?

Il primo problema affrontato dalla giurisprudenza con riferimento alla applicazione dell'art. 21-bis, è stato la possibilità di ammettere un ricorso diretto contro il provvedimento adottato dall'amministrazione, non preceduto dall'adozione del parere motivato.

Il testo dell'art. 211, così come l'analoga previsione dell'art. 21-bis, non è affatto univoco. Anzi, sul piano letterale, la discrasia tra i commi 1-bis e 1-ter potrebbe giustificare la conclusione secondo cui la disposizione contempli un'ipotesi "generale" di legittimazione al ricorso, non subordinata a particolari regole procedurali (comma 1-bis), insieme ad una ipotesi speciale (le gravi violazioni del codice di cui al comma 1-ter), contrassegnata - essa sola - dalla previsione del passaggio prodromico attraverso il parere motivato.

La tesi sostenuta dall'AGCM, con riguardo all'art. 21-bis, è ancora più radicale: la norma consentirebbe all'Autorità di scegliere sempre, liberamente, tra l'azione ordinaria immediata e l'azione veicolata dalla particolare procedura preliminare conclusa con il parere motivato. Tuttavia, la soluzione ora prevalente in giurisprudenza ha qualificato il parere quale mero (ma indispensabile) presupposto per l'ammissibilità del ricorso (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 15 marzo 2013, n. 2720; Id., 27 maggio 2015, n. 7546; Cons. Stato, Sez. VI, 28 gennaio 2016, n. 323).

Tale conclusione è stata sostenuta valorizzando, da un lato, il tenore letterale della norma, che instaurerebbe un rapporto di perfetta coincidenza oggettiva fra i suoi primi due commi e, dall'altro, la ratio legis, volta a favorire un necessario momento dialettico di confronto fra amministrazioni alla luce del principio di leale collaborazione (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 6 maggio 2013, n. 4451).

Il primo argomento - esegetico - non è estensibile alla previsione dell'art. 211, nel quale difetta proprio l'indicata coincidenza oggettiva e letterale tra i due commi. Peraltro, la collocazione sistematica dell'istituto all'interno di un articolo la cui rubrica è riferita al precontenzioso potrebbe costituire un argomento ulteriore per giustificare la tesi della necessaria obbligatorietà del passaggio preliminare.

In tal senso, si è sostenuto che la funzione del parere motivato è duplice: sollecitare la pubblica amministrazione a rivedere le proprie scelte e conformarsi agli indirizzi dell'Autorità; fungere da strumento deflattivo del contenzioso, configurando la proposizione del ricorso come extrema ratio (Cons. Stato, Sez. V, 30 aprile 2014, n. 2246; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 1° settembre 2014, n. 9264).

I giudici hanno affermato che i due commi previsti dall'art. 21-bis devono essere letti congiuntamente e che la previa emanazione del parere motivato costituisce un presupposto per l'ammissibilità del successivo ricorso in sede giurisdizionale (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 6 maggio 2013, n. 4451; Corte cost., 14 febbraio 2013, n. 20; TAR Lazio, Roma, Sez. III, 27 maggio 2015, n. 7546; Cons. Stato, Sez. VI, 28 gennaio 2016, n. 323). Inoltre, data la sostanziale unitarietà e unicità del bene giuridico protetto, non sussistono ragioni né di ordine letterale né logico-sistematiche per ritenere che l'ordinamento abbia predisposto due distinte forme di tutela (Cons. Stato, Sez. V, 30 aprile 2014, n. 2246)

Un ulteriore argomento espresso dalla giurisprudenza si basa sulla circostanza che lo stesso termine ridotto di trenta giorni per la proposizione del ricorso, prevista dall'art- 21-bis, si giustifica in ragione del fatto che l'iniziativa giurisdizionale è preceduta da una fase procedimentale di interlocuzione fra l'Autorità e l'amministrazione che ha emanato l'atto reputato distorsivo della concorrenza (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 27 maggio 2015, n. 7546; Cons. Stato, Sez. VI, 28 gennaio 2016, n. 323). Ma l'argomento non può estendersi all'art. 211, dal momento che il termine del ricorso di cui all'art. 120 del CPA è, in ogni caso, di 30 giorni.

Piuttosto, potrebbe risultare criticabile la scelta del legislatore, volta a differire sempre l'accesso alla giustizia, all'esito del lungo procedimento preliminare, in un contesto, come quello dei contratti pubblici, caratterizzato da una evidente - e sempre crescente - esigenza di celerità.

Nemmeno di fronte a gravissime illegittimità l'ANAC potrebbe iniziare immediatamente il processo giurisdizionale, ma dovrebbe attivare il previo procedimento di diffida.

È vero che, a rigore, l'ANAC potrebbe sempre stabilire di chiudere il procedimento in pochissimi giorni e assegnare un termine molto breve per l'adeguamento. Ma la difficoltà di attivare rapidamente il giudizio resta comunque ferma e non si può escludere che la stessa stazione appaltante e l'aggiudicatario possano avere interesse alla veloce definizione del contenzioso.

Secondo la sequenza descritta dalla norma, invece, tra la notizia della violazione e la proposizione del ricorso potrebbero decorrere ben 150 giorni (sessanta per la diffida, sessanta per l'adeguamento; trenta per la notifica del ricorso al TAR).

Si tratta, quindi, di una vistosa deroga al termine ordinario per la proposizione del ricorso. Ciò è forse giustificato dalla particolare posizione dell'ANAC e dalla articolazione delle fasi procedimentali prodromiche (le quali potrebbero anche condurre a non attivare il giudizio). Tuttavia, deve notarsi come ciò potrebbe apparire in netta controtendenza rispetto all'indirizzo legislativo più recente, tutto proiettato alla accelerazione del giudizio in materia di appalti, in funzione del consolidamento delle posizioni giuridiche delle parti.

 

3.3. Il procedimento ha natura giuridica "privata" o amministrativa? Il potere dell'ANAC è libero, discrezionale, doveroso, o eventualmente autovincolato?

L'articolazione della fase preliminare può essere configurata come un vero e proprio procedimento amministrativo. Questa affermazione deve essere vagliata con attenzione, perché sembra trascurare le diverse caratteristiche delle fasi successive in cui si snoda l'iter.

In linea astratta, si potrebbe ritenere che il procedimento, riguardato nel suo complesso, debba essere qualificato come:

  • privato, perché riconducibile alla scelta - libera - dell'ANAC di esercitare, o meno, il proprio diritto di azione e difesa in giudizio;
  • amministrativo (speciale), perché soggetto alla disciplina generale del procedimento di cui alla legge n. 241/1990, ancorché contrassegnato da regole pubblicistiche ad hoc.

La natura amministrativa, con la conseguente sottoposizione alla relativa disciplina, risulta più marcata nelle prime due fasi (parere motivato e atto di conformazione della stazione appaltante). Ma anche la terza fase, direttamente riferita alla decisione di proporre ricorso, scaturendo da una serie di tappe in cui i soggetti coinvolti manifestano i loro contrapposti interessi, deve essere attratta nell'ambito della sequenza amministrativa.

La disciplina dell’art. 211 non fornisce sufficienti elementi per stabilire quali siano i caratteri della scelta demandata all’Autorità, nei distinti momenti in cui decida di avviare il procedimento preliminare, di emettere il parere motivato, di agire in giudizio.

Si potrebbero ipotizzare 4 diverse soluzioni, tutte astrattamente compatibili con il testo della legge.

  1. Per una prima tesi, si tratta di una scelta totalmente "libera", perché riconducibile al generale potere che avrebbe ogni soggetto, pubblico o privato, di esercitare la facoltà di agire e difendersi in giudizio.
  2. Per una seconda tesi, l'opzione di agire è pienamente "discrezionale", nel senso che, come ogni decisione amministrativa, richiede una piena ponderazione di interessi e deve essere congruamente motivata. La disposizione, mediante il riferimento duplice al rilevante impatto del contratto e alla gravità della violazione, attribuisce all'ANAC (diversamente da quanto prevede l'art. 21-bis per l'Antitrust) un ampio potere valutativo. Si deve osservare, da ultimo, che la decisione finale di agire in giudizio dopo l'emissione del parere motivato e le risposte della stazione appaltante, costituisce indiscutibilmente l'esito di una scelta che deve tenere conto della dialettica intermedia con i soggetti interessati.
  3. Per una terza tesi, la decisione di agire in giudizio è vincolata (sempre) all'oggettivo accertamento dei presupposti indicati dalla legge. Da questo punto di vista si osserva che la questione della discrezionalità "sembra dover essere risolto in termini negativi, almeno per quanto riguarda la discrezionalità nell'an. In termini generali, alle autorità indipendenti non è rimessa una ponderazione di interessi. In questa particolare ipotesi, all'Autorità antitrust spetta di agire a tutela della legge, quasi come il pubblico ministero. Inoltre, se si ammettesse la discrezionalità della sua decisione, si avrebbe la conseguenza paradossale che l'Autorità potrebbe decidere se emettere il parere motivato ma, in caso positivo, l'amministrazione - ordinariamente titolare di discrezionalità in ordine all'emanazione del provvedimento e al suo annullamento - sarebbe obbligata a ritirarlo (MATTARELLA).
  4. Una quarta opinione (espressa lucidamente da MATTARELLA) ritiene che il potere in questione debba essere considerato sì strettamente vincolato, ma sulla sola base delle regole e dei criteri stabiliti preventivamente dalla stessa Autorità, in sede di autodisciplina della funzione di advocacy.

La tesi muove dal giusto rilievo secondo cui non si possono negare le difficoltà pratiche che l'applicazione di questa disposizione comporta: l'Autorità non è certo in grado di verificare la legittimità di tutti i provvedimenti, potenzialmente lesivi della concorrenza, delle migliaia di PP.AA. Quindi non può esservi una garanzia di ricorso contro quelli effettivamente lesivi. Il problema della discrezionalità, inevitabilmente, si ripropone in relazione all'organizzazione dell'attività di monitoraggio e di selezione dei provvedimenti da impugnare.

La conclusione è che l'Autorità dovrà definire criteri in base ai quali selezionare i settori o i tipi di atti sui quali concentrare l'attenzione, magari tenendo conto del rilievo economico o della segnalazione degli interessati: nella definizione di questi criteri, si esaurirà la valutazione discrezionale. L'Autorità dovrà poi rispettare rigorosamente questi criteri, in modo da escludere una valutazione discrezionale nel caso concreto.

Questa ultima soluzione appare effettivamente la più equilibrata e trova un preciso punto di appoggio, per l'ANAC, nel comma 1-quater.

Il regolamento, una volta entrato in vigore, dovrebbe evidenziare, positivamente, tutti i casi in cui, sussistendo i presupposti fissati dalla norma, l'ANAC è tenuta a promuovere l'azione, attraverso la fase prodromica prevista dalla legge. La disposizione, vista letteralmente, sembra considerare il regolamento attuativo come una mera "facoltà". Inoltre, parrebbe orientata ad operare "unilateralmente", assegnando al regolamento attuativo il compito di indicare i soli casi in cui è consentito (e, a contrario, le fattispecie in cui è precluso) il potere di intervento dell'ANAC, senza precisare, simmetricamente, le ipotesi in cui l'azione è invece doverosa.

Parrebbe più corretto, invece, affermare che il regolamento abbia il compito di chiarire, anche e soprattutto positivamente, i casi in cui il potere debba esplicarsi obbligatoriamente. Tali casi potranno essere ragionevolmente circoscritti, forse anche in modo drastico, ma dovranno essere individuati con la massima precisione e trasparenza.

 

3.4. Le conseguenze della violazione del dovere di procedere dell’ANAC.

Si aprono, tuttavia, diversi problemi applicativi. Una volta consolidata una disciplina regolamentare volta a fissare i doveri di azione dell'ANAC, non è del tutto chiaro in quale modo possa emergere l'eventuale violazione dell'obbligo di procedere dell'ANAC, chi possa farla valere in giudizio e con quali strumenti. Di contro, è più agevole individuare le conseguenze di un intervento dell'ANAC esorbitante dal limite dei suoi poteri di azione: il ricorso dovrà essere dichiarato inammissibile, anche di ufficio, per mancanza di una condizione dell'azione.

La risposta più lineare è nel senso che il soggetto autore della segnalazione, o intervenuto legittimamente nel procedimento preliminare, potrebbe contestare il silenzio o la determinazione negativa dell'ANAC, mediante ricorso al TAR (contro il diniego espresso, o contro il silenzio inadempimento).

La questione più complessa riguarda l'ipotesi in cui l'ANAC, dopo avere emesso il parere motivato, stabilisca di non procedere al giudizio: si dovrebbe ammettere l'impugnabilità della determinazione espressa di non attivare il giudizio o del silenzio inadempimento. Per questa ragione, sembra opportuno che l'Autorità, dopo l'emissione del parere, formalizzi la determinazione di agire o di non agire in giudizio.

È però dubbio che il giudice possa "annullare" la determinazione dell'ANAC, riaprendo il termine per la proposizione del ricorso, con una pronuncia conformativa recante l'ordine di esercitare l'azione. In tal caso, infatti, l'illegittimità della condotta dell'ANAC non parrebbe idonea a superare l'intervenuta decadenza dal potere di azione. Resterebbe ferma, allora, almeno teoricamente, la responsabilità dell'ANAC, per violazione dei doveri da essa stessa fissati.

 

3.5. L’iniziativa di “denuncia” dei soggetti privati. Il Considerando n. 122 e la tutela dei “cittadini-contribuenti” imposta dal diritto UE

La prima fase del procedimento è finalizzata alla adozione del parere motivato. Secondo i TAR, pur trattandosi di un procedimento a iniziativa di ufficio, chiunque può sollecitare l'emanazione del parere motivato nei confronti di un'amministrazione che abbia adottato un determinato provvedimento in contrasto con le norme a presidio della concorrenza (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 6 maggio 2013, n. 4451; TAR Sicilia, Catania, Sez. IV, 7 aprile 2015, n. 947).

Al tempo stesso, le segnalazioni dei privati, in particolare, non sono considerate produttive di alcun vincolo di esame e istruttoria da parte dell'Autorità. Nella prassi, tuttavia, l'AGCM procede alla "archiviazione" formale delle segnalazioni non ritenute meritevoli di ulteriore seguito.

Di solito, il privato terzo il quale abbia interesse sostanziale a sollecitare l'intervento dell'Autorità, è un soggetto il quale potrebbe essere già leso dal provvedimento e ha la possibilità di agire in giudizio impugnando direttamente l'atto in questione. Se invece egli è rimasto inerte, facendo spirare il termine di decadenza, l'ordinamento non potrà consentire un secondo rimedio attraverso l'impugnazione dell'archiviazione, perché si aggirerebbe la regola della perentorietà dei termini di impugnazione.

Infatti, nei casi in cui gli esposti provengano da operatori economici direttamente coinvolti nella vicenda sostanziale, questo ben potrebbero reagire proponendo essi stessi un'azione davanti al giudice. La possibilità di contestare la decisione negativa dell'Autorità si tradurrebbe in una sostanziale elusione dei termini di ricorso. Sulla base di queste premesse, allora, sembra ragionevole escludere che il terzo possa farsi "rimettere in termini" mediante l'attivazione - del tutto strumentale - del procedimento di cui al comma 1-ter.

Ma, appunto, questa soluzione sembra applicabile nel solo caso in cui il terzo abbia lasciato trascorrere inutilmente il termine per la proposizione del ricorso a cui sia già legittimato sin dall'origine.

Lo stesso esito interpretativo non sembra estensibile, automaticamente, alla diversa ipotesi in cui l'unico strumento riconosciuto dall'ordinamento al "terzo", mero cittadino contribuente, consista nella sola possibilità di attivare il procedimento amministrativo dinanzi all'Autorità.

In tal caso emerge la necessità di offrire comunque adeguata protezione ai cittadini titolari di interessi legittimi, secondo il disposto del Considerando n. 122, quanto meno nell'ambito di una procedura svolta dinanzi ad una Autorità indipendente. Il sistema ora vigente non sembra offrire una soluzione chiara e appagante al delicato problema della piena e puntuale attuazione concreta della previsione del Considerando n. 122.

Il veicolo della legittimazione processuale speciale dell'ANAC è certamente inidoneo a realizzare il risultato voluto dal diritto europeo, sia per la inadeguatezza dello strumento - non decisorio - della mera sollecitazione di un giudizio, sia per le numerose limitazioni previste dall'art. 211, ma non consentite dalla normativa UE.

In questo senso, l'attuale disciplina nazionale segna un innegabile passo indietro rispetto alla già insufficiente normativa delle raccomandazioni vincolanti. Una possibile via d'uscita potrebbe essere quella di definire, attraverso un'integrazione legislativa del codice, un apposito nuovo procedimento precontenzioso dinanzi all'ANAC o ad "arbitri" imparziali da questa vigilati e supportati logisticamente, attivato dal cittadino-contribuente che lamenti la violazione della normativa di derivazione UE (o anche di altre norme nazionali di particolare "spessore", quali la disciplina antimafia o le regole finalizzate alla prevenzione della corruzione), in relazione ai contratti di rilevanza europea e, se del caso, anche per affidamenti di minore valore, individuati dal legislatore o da decisioni generali dell'ANAC.

La decisione finale - purché impugnabile davanti al giudice amministrativo - dovrebbe avere efficacia vincolante per tutte le parti e per la stazione appaltante.

Il procedimento, in conformità con la normativa europea, dovrebbe essere caratterizzato da rapidi - ma ragionevoli - termini decadenziali di proposizione, correlati ad una adeguata pubblicità legale (anche informatica) degli atti di gara, in modo da scongiurare, strumentalmente, iniziative volte a riaprire vicende ormai consolidate. In ogni caso, la decisione finale dovrebbe tenere conto dello sviluppo concreto del rapporto contrattuale, secondo i principi dell'autotutela (e dei canoni di cui agli articoli 121 e ss del CPA in tema di inefficacia del contratto), tutelando gli affidamenti incolpevoli delle parti e gli interessi generali correlati ad esigenze imperative qualificate.

Il procedimento in esame, poi, non dovrebbe in alcune modo consentire ai soggetti autonomamente legittimati al ricorso giurisdizionale o di precontenzioso, ai sensi dell'art. 211, comma 1, di ottenere una duplicazione di tutela: pertanto, l'attuazione del Considerando n. 122 andrebbe riservata unicamente ai soggetti privi di altri strumenti di protezione processuale.

La struttura "precontenziosa" dello speciale procedimento, in linea con il Considerando n. 122, poi, dovrebbe esigere il massimo rigore nella specificità e chiarezza dei motivi di censura proponibili dai cittadini: saranno quindi radicalmente inammissibili iniziative meramente esplorative ed emulative.

La decisione finale dell'ANAC, caratterizzata dalla massima semplificazione motivazionale, ovviamente, sarebbe poi censurabile dinanzi al giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 120 CPA, con tutte le opportune conseguenze sulle spese, in caso di rigetto del ricorso giurisdizionale. Andrebbe previsto, poi, un meccanismo sanzionatorio, che richiami le regole della lite temeraria, secondo quanto previsto dall'art. 211, comma 1.

In attesa di questa necessaria disciplina (la cui mancanza potrebbe esporre lo Stato italiano a censure della Commissione) le iniziative del cittadino intese a stimolare l'esercizio dei poteri di cui al comma 1-ter devono essere tutelate in modo adeguato, generando, in capo all'ANAC un dovere di provvedere, il cui inadempimento è sindacabile con ricorso al giudice amministrativo.

 

3.6. Le segnalazioni provenienti da soggetti pubblici qualificati: un dovere di procedere dell’ANAC? Le possibili sovrapposizioni con il potere di azione dell’AGCM

La doverosità dell'intervento dell'ANAC potrebbe collegarsi alle iniziative di denuncia di illegittimità, derivanti da alcuni soggetti pubblici "qualificati"? La risposta dovrebbe essere positiva e si collega proprio alla logica complessiva del potere di advocacy in cui si inquadra la legittimazione straordinaria dell'ANAC.

In questo senso, si dovrebbero indicare, anzitutto, le segnalazioni provenienti dal giudice amministrativo, ai sensi della legge Severino, che l'ANAC aveva opportunamente valorizzato nel regolamento sulle raccomandazioni vincolanti. Ma si potrebbero aggiungere anche gli eventuali rapporti svolti dal giudice ordinario, penale o civile, e dal collegio arbitrale.

Ci si potrebbe chiedere, poi, se un potere di sollecitazione - parimenti qualificato - vada riconosciuto in capo al Governo e agli enti regionali e locali, venuti a conoscenza di possibili illegittimità nelle procedure contrattuali.

Sembra poi possibile ritenere che, in sede di spontanea regolamentazione della materia, l'ANAC possa attribuire rilievo specifico agli esposti di associazioni di consumatori e di utenti.

Un punto delicato, poi, riguarda il rapporto con l'Antitrust. L'interferenza tra le due legittimazioni, previste, rispettivamente, dall'art. 21-bis e dall'art. 211, è piuttosto evidente. Secondo una possibile ricostruzione, esiste una tendenziale sovrapposizione tra le due sfere di attribuzioni, dal momento che il potere dell'ANAC, quanto meno nella parte in cui mira a contestare i provvedimenti di Regioni ed enti locali, dovrebbe trovare fondamento proprio - e soltanto - nella disciplina della concorrenza, ai sensi dell'art. 117, comma primo, della Cost. Ma non tutte le norme in materia di contratti pubblici sono effettivamente poste a "tutela della concorrenza", a meno che non si voglia seguire un'interpretazione eccessivamente dilatata di tale nozione.

Allo stato, pertanto, potrebbe ipotizzarsi questa situazione:

le due legittimazioni, dell'ANAC e dell'ANTITRUST, sono parzialmente concorrenti, perché esiste un'area molto ampia di illegittimità "plurioffensive";

in tali ipotesi, entrambe le Autorità potrebbero legittimamente proporre l'azione giurisdizionale, attivando i preventivi procedimenti di loro competenza;

per evidenti finalità di leale collaborazione, ciascuna di esse è tenuta a cooperare con l'altra, notiziandola delle possibili illegittimità riscontrate e, presumibilmente, stipulando un apposito protocollo destinato a chiarire i rapporti tra le due azioni;

Un'ulteriore questione, poi, riguarda la possibilità che le illegittimità emergano nel corso di un precontenzioso avviato ai sensi dell'art. 211, comma 1. In tali eventualità sembrerebbe opportuno prevedere efficaci strumenti di coordinamento tra i due procedimenti, utilizzando il meccanismo già previsto nel regolamento sulle raccomandazioni vincolanti, opportunamente suggerito dal Consiglio di Stato.

 

3.7. Gli atti di preiniziativa adottati da soggetti privati o pubblici possono costituire un obbligo di procedere in capo all’Autorità?

Esiste, un obbligo dell'Autorità di valutare la segnalazione e di adottare, quanto meno, una determinazione conclusiva del procedimento, nella forma del "parere negativo" o dell'archiviazione, più o meno semplificata?

Con riferimento alla disciplina di cui all'art. 21-bis, la giurisprudenza ha affermato che, una volta ricevuta la richiesta o la segnalazione provenienti da soggetti privati, spetta all'Autorità decidere liberamente se avviare o meno il procedimento, a seconda dell'individuazione dei presupposti minimi per agire. Secondo la dottrina (GIOVAGNOLI), "appare dirimente la considerazione che la norma in esame attribuisce all’AGCM non un potere amministrativo in senso stretto, ma il diverso potere di agire in giudizio, cioè un vero e proprio diritto di azione. Ora, il diritto di azione implica anche la libertà di non agire in giudizio, essendo l’esercizio della facoltà processuale rimessa esclusivamente al titolare della stessa.

Solo sulla base di autovincoli spontaneamente stabiliti dalla stessa Autorità, potrebbero essere fissati i casi in cui la pre-iniziativa sia idonea ad imporre una formale decisione.

Tale conclusione, si dice, sembra trovare riscontro anche nella giurisprudenza comunitaria, che ha ritenuto irricevibile il ricorso proposto da un privato contro la decisione della Commissione di non avviare una procedura di infrazione contro uno Stato membro (Trib. di primo grado, Sez. IV, cause riunite T-479/93 e T-559/93).

Nel suo complesso, la soluzione proposta è ragionevole, perché, altrimenti, l'Autorità rischierebbe di essere travolta da innumerevoli esposti provenienti da soggetti sprovvisti di interessi differenziati.

Resta salva, però, la possibilità per l'ANAC di individuare casi di doverosità della risposta. Tra queste ipotesi si potrebbero indicare le segnalazioni "circostanziate", così come potrebbe essere valorizzata la lesione di un interesse concreto del segnalante, almeno nei casi in cui questi proponga l'istanza entro il termine di proposizione del ricorso giurisdizionale. In tal modo, infatti, la parte dimostrerebbe il proprio interesse a "contestare" tempestivamente la procedura di gara, attraverso il rapido intervento dell'ANAC.

 

3.8. Il termine per l'emissione del parere motivato e la sua decorrenza

La disciplina dei termini della complessiva sequenza che conduce alla proposizione del ricorso è piuttosto complessa. L'ANAC, dal momento in cui ottiene la conoscenza della violazione, fruisce di un termine complessivo massimo di ben centocinquanta giorni per la notificazione del ricorso.

Si tratta di stabilire, però:

la natura perentoria, ordinatoria (e in alcuni casi dilatoria) dei termini previsti;

l'esatta data di decorrenza del primo termine, essenziale, costituita dalla notizia della ipotizzata illegittimità;

la rilevanza e il calcolo preciso dei termini intermedi scanditi nella fase prodromica (sessanta giorni per la pronuncia del parere motivato; sessanta giorni per l'eventuale conformazione della stazione appaltante; trenta giorni per la proposizione del ricorso).

A tale ultimo riguardo, è sufficiente osservare subito che:

  • l'ANAC può sempre adottare il parere prima della scadenza del termine;
  • l'ANAC potrebbe assegnare alla stazione appaltante un termine di conformazione inferiore ai sessanta giorni;
  • potrebbe verificarsi una discrepanza temporale fra la data di adozione del parere e quella della sua comunicazione;
  • la stazione appaltante potrebbe adottare una determinazione espressa (negativa) già prima della scadenza del termine assegnato;
  • l'ANAC, a sua volta, potrebbe avere contezza della determinazione della stazione appaltante in epoca successiva alla scadenza del termine.

La tesi del carattere perentorio di tutti i termini previsti dal comma 1-ter (non diversamente da quelli contemplati dall'art. 21-bis) risulta nettamente preferibile, benché non sia espressamente stabilita.

La violazione del termine per l'adozione del parere motivato incide sulla successiva sequenza strettamente processuale, ma non impedisce che l'atto possa produrre gli effetti di una "raccomandazione non vincolante".

La violazione del termine di conformazione, poi, non rende di per sé illegittimo il provvedimento tardivo adottato dalla PA, quanto meno nei casi in cui esso sia conforme al parere.

Si tratta di stabilire, in primo luogo, quale sia la decorrenza del termine per la conclusione della fase diretta a sfociare, eventualmente, nel "parere motivato". Il comma 1-ter dell'art. 211, diversamente dall'art. 21-bis, chiarisce che esso decorre dalla "notizia" della violazione, superando, almeno in parte, i numerosi problemi interpretativi suscitati dalla normativa antitrust.

In mancanza di una tale previsione, la giurisprudenza ha affermato che il decorso del suddetto termine vada individuato nel giorno di esatta conoscenza da parte dell'Autorità dello specifico atto reputato anticoncorrenziale, e non già dalla conoscenza di generiche criticità concorrenziali (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 15 marzo 2013, n. 2720). Tale momento può essere individuato nella comunicazione (di qualsiasi provenienza) all'AGCM, a patto che la stessa abbia il requisito della specificità, ovvero che contenga chiaramente gli elementi rilevanti dell'atto che dovrebbe divenire oggetto del parere (TAR Veneto, Venezia, Sez. I, 26 giugno 2015, n. 737; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 29 giugno 2016, n. 1373).

Parimenti, il decorso del termine non può essere collegato alla mera pubblicazione legale del provvedimento. In senso contrario, l'AGCM sarebbe costretta a un continuo e gravoso monitoraggio di tutti gli atti amministrativi adottati da qualsiasi amministrazione pubblica. A conferma di ciò, il Consiglio di Stato (Sez. V, 9 marzo 2015, n. 1171) ha sostenuto che il predetto termine concerne un'attività amministrativa, con la conseguenza che non sussistono le condizioni per estendere a essa i principi processuali dettati dal CPA per l'esercizio dell'azione in giudizio.

La dottrina, al riguardo, aveva espresso una posizione diversa (GIOVAGNOLI)."E’ vero che la norma, purtroppo, non indica da quando decorrono i sessanta giorni, ma sul punto, trattandosi di un parere che ha una marcata funzione “processuale” (essendo il preludio del ricorso giurisdizionale: tanto che deve già contenere gli specifici profili di violazione che l’AGCM intenderà portare in sede giurisdizionale), sembra debbano soccorrere i principi generali in materia di termine di decadenza per l’impugnazione degli atti amministrativi.

Occorre, allora, stabilire esattamente quando si possa ritenere sussistente una "notizia" avente per oggetto la ipotizzata violazione.

Il tema è particolarmente delicato, se si considera che tutto il sistema dei contratti pubblici è orientato a definire con la massima certezza la legittimità, o meno, delle procedure di aggiudicazione, riducendo i rischi di "rimessa in discussione" del rapporto.

Il termine in esame attiene ad una fase ancora amministrativa, comunque certamente non processuale, per cui non dovrebbero trovare applicazione i principi e le regole espresse dal CPA. Del resto l'art. 41 del CPA, nell'indicare la decorrenza del termine per la proposizione della domanda di annullamento, fa riferimento ad una formula basata sulla conoscenza qualificata dell'atto, senza considerare la "violazione".

Si dovrebbe ritenere che la "notizia" non possa certamente collegarsi al mero perfezionamento della fase di gara e alla sua prescritta pubblicità: perché questo significherebbe gravare l'ANAC di un compito di lettura di tutti gli atti della procedura evidentemente impossibile. Pertanto, la notizia deve consistere nella puntuale deduzione, da parte di un terzo, pubblico o provato, di possibili concrete violazioni. In questo senso si potrebbero considerare anche eventuali notizie provenienti dagli organi di stampa e di comunicazione.

Con riguardo alla disciplina dell'art. 21-bis, secondo un primo orientamento (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 15 marzo 2013, n. 2720), il termine di sessanta giorni previsto dalla legge per l'emanazione del parere ha natura ordinatoria.

Di diverso avviso è un secondo orientamento, il quale ha però introdotto una distinzione della natura del termine a seconda che l'emanazione del parere sia volta o meno ad attivare la fase contenziosa (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 1° settembre 2014, n. 9264). Laddove l'Autorità non intenda proporre ricorso, ma voglia solo limitarsi a sollecitare una nuova valutazione dell'amministrazione, non vi sarebbe alcun motivo per ritenere perentorio il termine di sessanta giorni. Al contrario, nel caso in cui il parere costituisca il presupposto per l'avvio di una fase pre-contenziosa, prodromica alla proposizione del ricorso giurisdizionale, il medesimo termine deve considerarsi necessariamente perentorio. Ma la giurisprudenza sembra attestarsi sulla tesi della natura perentoria del termine (TAR Veneto, Venezia, Sez. I, 26 giugno 2015, n. 737; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 29 giugno 2016, n. 1373)

Sul punto è poi intervenuto, ma non ancora risolutivamente, il Consiglio di Stato (Sez. V, 9 marzo 2015, n. 1171) che, pur non definendo la questione, ha affermato la non sostenibilità della tesi che configura la natura ordinatoria o perentoria del termine in base alla finalizzazione o meno della proposizione del ricorso, posto che un termine "o è perentorio, o non lo è".

Secondo la dottrina, fra le due interpretazioni, sarebbe da preferire quella che afferma la perentorietà, in applicazione dei principi generali sul ricorso al giudice amministrativo e alle esigenze di certezza garantite dall'ordinamento in materie che coinvolgono rilevanti interessi economici. Inoltre, se non si affermasse la natura perentoria del suddetto termine, si potrebbe verificare la situazione paradossale per cui, a distanza di molto tempo, l'amministrazione non avrebbe più la possibilità di annullare il provvedimento adottato, sul quale invece continuerebbe a gravare la possibilità per l'AGCM di emanare un parere e di ricorrere in sede giurisdizionale.

 

3.9. L’art. 21-nonies della legge n. 241/1990: il parere motivato è soggetto al limite temporale di diciotto mesi e al principio del termine ragionevole?

La norma non stabilisce espressamente se il potere dell'ANAC sia soggetto alle regole previste dall'art. 21-nonies, concernenti l'annullamento di ufficio. In senso negativo, si potrebbe osservare che la disposizione regola, nel suo complesso, l'esercizio di un potere di azione processuale, per cui non potrebbero trovare applicazione disposizioni riguardanti l'attività amministrativa sostanziale. In senso opposto, invece, proprio la tesi della natura amministrativa del procedimento dovrebbe condurre alla piena applicazione delle regole generali di cui alla legge n. 241/1990.

Il decorso di un lungo lasso di tempo, d'altro canto, potrebbe avere rilievo per valutare la sussistenza dell'interesse al ricorso, anche se la legittimazione speciale dell'Autorità, potrebbe risultare sganciata da una verifica troppo stretta della attualità e concretezza dell'interesse.

Resta fermo, peraltro, la regola riguardante l'inefficacia del contratto eventualmente stipulato: il decorso del termine potrebbe determinare la decisione di mantenere l'efficacia del contratto, anche in caso di accertata illegittimità dell'aggiudicazione.

In secondo luogo, il parere motivato sembra destinato ad evidenziare l'oggettiva presenza della violazione, senza alcun rilievo delle ragioni di interesse pubblico all'eventuale annullamento d'ufficio.

Tale valutazione, semmai, spetterebbe alla stazione appaltante.

Questa seconda opzione è, sul piano dei principi, abbastanza convincente, ma determina diverse complicazioni. La stazione appaltante potrebbe, infatti, stabilire di non annullare il provvedimento indicato nel parere motivato unicamente per la presenza di un interesse pubblico prevalente. In tale eventualità, però, non è chiaro se l'ANAC possa proporre, a sua volta, un ricorso contro questo secondo provvedimento (unitamente al primo), allo scopo di ottenere una pronuncia che annulli gli atti ritenuti violativi del codice, o che, quanto meno, accerti la sussistenza della originaria violazione. La soluzione più ragionevole è nel senso di ritenere che, almeno con riferimento alla questione "liquida" del termine dei diciotto mesi, l'art. 21-nonies si applichi direttamente all'ANAC, in occasione del parere vincolante. Un opportuno coinvolgimento procedimentale, poi, permetterebbe di vagliare immediatamente la ragionevolezza del termine di autotutela (anche se già contenuto nel limite dei diciotto mesi).

La questione, comunque, sembra suscettibile di una soluzione in sede di regolamento attuativo ANAC, ai sensi del comma 1-quater. L'auspicio è che il regolamento preveda, già nella fase precedente il parere motivato, un rapido coinvolgimento, per quanto sommario, della stazione appaltante e dell'aggiudicatario, finalizzato anche e soprattutto, a delibare gli interessi pubblici e privati coinvolti nella vicenda.

 

3.10. La partecipazione della stazione appaltante e dei terzi al procedimento.

La legge nulla dice in ordine alla necessità, o meno, dell'osservanza delle regole partecipative di cui alla legge n. 241/1990, a tutela dei terzi e della stazione appaltante, nella prima fase precedente l'adozione del parere motivato.

La tesi prevalente della dottrina e della giurisprudenza, riferita all'analoga previsione dell'art. 21-bis, è nel senso della superfluità di un coinvolgimento dell'amministrazione e dei terzi controinteressati. Non è però molto evidente la ragione di questa vistosa deroga ai principi della legge n. 241/1990, che contraddice l'affermata natura amministrativa del procedimento. Gli argomenti spendibili a sostegno di questa tesi sono, schematicamente, i seguenti.

A) L'evidente ristrettezza del termine di sessanta giorni renderebbe defatigante il contraddittorio.

B) Il parere motivato non avrebbe, di per sé, alcuna portata lesiva.

C) Non vi sarebbe, quindi, violazione rilevante di regole procedimentali, in assenza di un diretto pregiudizio, anche in conformità dei principi espressi dall'art. 21-octies della legge n. 241/1990;

D)La dialettica tra l'ANAC e gli altri soggetti si aprirebbe solo dopo l'adozione del parere, che svolge anche la funzione di comunicazione di avvio del procedimento.

E) La determinazione dell'Autorità riguarda il solo riscontro oggettivo di illegittimità, senza alcuna ponderazione discrezionale di interessi.

F) Il procedimento descritto dalla norma si conclude solo quando l'Autorità propone effettivamente il ricorso giurisdizionale.

In relazione agli argomenti sopra ricordati si può replicare che:

AA) la breve durata dei termini procedimentali non impedisce un contraddittorio snello ed efficace; resta in ogni caso salva la facoltà per l'ANAC di invocare speciali ragioni di urgenza;

BB) il parere motivato, anche se ritenuto non immediatamente lesivo, costituisce un presupposto processuale indispensabile per la successiva azione giudiziaria;

CC) La possibile sterilizzazione della eventuale omissione della comunicazione di avvio del procedimento, ai sensi dell'art. 21-octies, comma 2, è sempre ammessa, ma non impedisce di affermare che, in linea di principio, debbano sempre operare gli obblighi partecipativi ex art. 7;

DD) Non si comprende come il parere motivato, atto conclusivo della prima fase del procedimento preliminare, possa costituire "comunicazione di avvio del procedimento"; dopo il parere, l'Autorità non svolge alcun procedimento amministrativo ulteriore, ma stabilisce se promuovere, o meno, il giudizio dinanzi al TAR;

EE) Con riguardo all'art. 211, il giudizio dell'ANAC presenta profili di opinabilità assai significativi, che attengono al "rilevante impatto del contratto" e alla gravità della violazione;

FF) Non sembra molto persuasiva la tesi secondo cui la proposizione del ricorso costituirebbe, nella sostanza, anche la conclusione del procedimento amministrativo avviato dall'Autorità.

Sembra allora preferibile ritenere che il rapido procedimento preliminare debba essere svolto con l'osservanza dei principi partecipativi di cui alla legge n. 241/1990, ove occorra declinati dal regolamento attuativo di competenza dell'ANAC.

 

3.11. La conclusione della prima fase del procedimento preliminare: la natura giuridica del parere motivato e dei suoi effetti

Il comma 1-ter dell'art. 211, diversamente dall'art. 21-bis, sottolinea l'autonomia del momento della comunicazione del parere motivato, senza, peraltro, indicarne tempi e modalità. Questa determina, a sua volta, la decorrenza del termine per la conformazione della stazione appaltante.

È comunque necessario chiarire la corretta scansione dei diversi termini intermedi e della rilevanza della comunicazione del parere alla stazione appaltante. Prima del perfezionamento di tale comunicazione sembrerebbe che, per la stazione appaltante, non possa iniziare il termine assegnato per la conformazione. Ne conseguirebbe, allora, che anche il successivo termine di trenta giorni per l'eventuale proposizione del ricorso debba essere spostato in avanti per un periodo temporale corrispondente.

L'atto conclusivo della prima fase del procedimento preliminare è costituito, letteralmente, da un parere motivato. Non è chiara, tuttavia, la reale natura giuridica di tale atto. La formula prescelta dal legislatore (parere motivato) intende sottolineare che l'atto ha la struttura di un mero giudizio: una determinazione preparatoria, priva di effetti costitutivi od obbligatori. Secondo una possibile interpretazione, quindi, il parere si dovrebbe limitare ad indicare all'amministrazione l'oggettiva sussistenza delle violazioni riscontrate, e la possibile successiva iniziativa processuale dell'Autorità.

Le ipotesi alternative potrebbero essere nel senso che si tratti di un atto che deve:

- limitarsi a definire i soli profili di illegittimità dell'atto;

- racchiudere anche gli elementi tipici dell'autotutela, di cui all'art. 21-nonies.

Questa seconda opinione appare decisamente preferibile e si riannoda alle ampie considerazioni svolte dal Consiglio di Stato, con riferimento ai limiti sistematici delle raccomandazioni vincolanti, opportunamente ricondotte nel quadro dell'autotutela decisoria. Ora, la circostanza che la determinazione dell'ANAC consista nella decisione di proporre un ricorso e non più nell'imposizione di un ordine non sembra attenuare l'esigenza di ponderare i diversi interessi in gioco, nell'ambito della preventiva sequenza procedimentale.

D'altro canto, il comma 1-ter prescrive che il parere sia motivato, senza alcuna limitazione al solo profilo riguardante le violazioni riscontrate: queste sono uno degli elementi dell'atto, ma non esauriscono il dovere di motivazione. Ciò chiarito, non risulta univoca nemmeno l'individuazione degli effetti ulteriori derivanti dal parere.

Sebbene il dato testuale faccia propendere per il carattere meramente consultivo (come affermato, sia pure incidentalmente da Corte cost., 14 febbraio 2013, n. 20; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 1° settembre 2014, n. 9264), una seconda lettura tende a definirlo come una particolare forma di diffida.

Al riguardo, sono ipotizzabili due tesi:

I) la prima configura il parere-diffida come un vero e proprio "ordine" di conformarsi, o, quanto meno, di attivare il riesame del provvedimento affetto da illegittimità (quasi una raccomandazione semivincolante; o, una raccomandazione minore);

II) la seconda opinione sostiene che la diffida sia del tutto "privata" e vada inquadrata nell'ambito delle dichiarazioni non provvedimentali della PA. Si tratterebbe, pertanto, di una mera informativa, a carattere deflattivo, nell'interesse della PA.

Il punto non è privo di conseguenze sul piano della determinazione degli effetti giuridici derivanti dall'adozione dell'atto. Secondo la tesi della diffida, l'AGCM, attraverso l'emanazione del parere motivato, invita l'amministrazione alla conformazione, in mancanza della quale la stessa potrà essere chiamata in giudizio dinanzi al giudice amministrativo (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 15 marzo 2013, n. 2720).

Un'altra possibile lettura è quella secondo cui si tratterebbe di un semplice invito all'autotutela, non vincolante, finalizzato a deflazionare il contenzioso (nel caso in cui l'amministrazione si adegui spontaneamente all'invito), o comunque, ad assicurare il massimo contraddittorio, anche preventivo, in vista di un successivo eventuale giudizio.

Insomma, la previsione sarebbe sostanzialmente destinata a proteggere l'amministrazione (e, di riflesso, il beneficiario del contestato provvedimento favorevole) e, quindi, opererebbe "unilateralmente": l'amministrazione non sarebbe tenuta ad alcuna attività di autotutela.

La formula dell'art. 211, secondo cui l'ANAC "assegna" un termine sembra effettivamente in maggiore sintonia con la tesi di una vera e propria "diffida", produttiva di un obbligo di provvedere in ordine alla richiesta di autotutela.

 

3.12. Gli effetti sostanziali del parere motivato: un dovere della stazione appaltante di attivare l'autotutela?

Con riguardo all'art. 21-bis è ancora molto dubbia la natura del "potere di conformazione" dell'amministrazione al parere motivato e il carattere doveroso, o meno, del suo esercizio. La Corte costituzionale e il Consiglio di Stato hanno qualificato questa eventuale conformazione come esercizio del potere di autotutela. Il punto centrale consiste nello stabilire proprio se il destinatario del parere sia tenuto alla conformazione e se la determinazione sia soggetta, o meno, alla disciplina dell'annullamento d'ufficio di cui all'art. 21-nonies (motivazione, partecipazione procedimentale, termine ragionevole) e agli altri principi generali dell'autotutela.

Secondo MATTARELLA, "l'obbligo di conformarsi sussiste: l'amministrazione non può decidere di confermare un provvedimento emanato in violazione di norme a tutela della concorrenza; se lo facesse, sarebbe il giudice amministrativo ad annullarlo, su ricorso dell'Autorità." L'Autore precisa, tuttavia, che "Ciò vale, ovviamente, solo se il parere dell'Autorità antitrust è stato tempestivo e i rilievi dell'Autorità stessa sono fondati (e, quindi, il provvedimento è effettivamente illegittimo). Se il parere è stato reso oltre il termine, esso rientra nella normale attività di segnalazione dell'Autorità, che non fa venir meno la discrezionalità del potere di autotutela proprio dell'amministrazione che ha emanato il provvedimento contestato."

Ora, su questo aspetto così delicato della disciplina occorrerebbe la massima chiarezza, viste le conseguenze pratiche derivanti dall'una o dall'altra tesi interpretativa. Se la "sanzione" della asserita doverosità consistesse unicamente nel "rischio" di un ricorso al giudice amministrativo, proposto unicamente dall'Autorità, la portata dell'obbligo diventerebbe davvero molto esigua. E, forse, sarebbe più corretto definire, allora, il potere di conformazione quale mero "onere" della stazione appaltante, destinato, cioè, a scongiurare l'alea dell'eventuale ricorso proposto dall'Autorità.

Se, invece, si volesse ritenere che il parere vincolante crei, in capo alla stazione appaltante, un vero e proprio obbligo di provvedere, rilevante sul piano sostanziale, le conseguenze sarebbero totalmente diverse, poiché qualsiasi interessato dovrebbe considerarsi abilitato ad agire in giudizio, per far valere l'attuazione dell'obbligo giuridico. Se è vero, infatti, che il parere motivato è fisiologicamente destinato ad accorparsi al giudizio promosso dall'Autorità o alla determinazione conformativa della PA, risultano diversi i casi in cui emerge un interesse a rimuovere un atto che getta comunque una pesante ombra sul contestato provvedimento dell'amministrazione.

L'altra questione da analizzare a fondo riguarda la disciplina applicabile all'atto di conformazione. Non sembra affatto dimostrato che ci trovi in presenza di un'ipotesi della controversa figura dell'autotutela doverosa. Nessuna norma indica con chiarezza la sussistenza di un obbligo in tal senso. Peraltro, vi potrebbero essere, in tale direzione, alcuni argomenti testuali:

- la "conformazione", seppure può descrivere solo il dato estrinseco della corrispondenza di contenuto, generalmente indica l'attuazione di un obbligo;

- il "parere motivato" assume caratteristiche molto simili a quelle del "parere vincolante" di cui all'art. 211 comma 1, di cui è pure discussa la natura;

- la circostanza che, ora, nell'art. 211, comma 1-ter, l'ANAC "assegni" alla stazione appaltante un termine per l'adeguamento fa ragionevolmente pensare alla costituzione di un obbligo giuridico.

Sembra allora preferibile la tesi secondo cui la stazione appaltante, se intende conformarsi al parere, perché concorda con la valutazione giuridica espressa dall'ANAC in ordine all'accertamento della violazione, debba pur sempre esercitare il potere discrezionale riguardante tale procedimento, con riferimento alla ponderazione di tutti gli interessi coinvolti (a cominciare, ovviamente, da quello espresso dall'Autorità procedente).

Ma, contrariamente a quanto ritenuto finora dalla giurisprudenza, in caso di motivato rifiuto di conformazione, l'Autorità avrà l'onere di impugnare anche tale secondo atto.

 

3.13. Il parere motivato è autonomamente e immediatamente impugnabile?

Altra questione controversa è stata quella riguardante l'immediata impugnabilità del parere motivato dell'AGCM. Secondo la dottrina (GIOVAGNOLI), appare preferibile la tesi che esclude l’immediata impugnabilità del parere. Ciò in quanto il parere non è un atto immediatamente lesivo, essendo ancora meramente eventuale la circostanza che l’Amministrazione si conformi ad esso, modificando o ritirando il provvedimento contestato. L’Amministrazione potrebbe, infatti, ignorare il parere lasciando in piedi l’atto contestato e questo esito esclude ogni concreta lesività del parere. Semmai, gli eventuali terzi interessati alla conservazione dell’atto potranno intervenire ad opponendum nel giudizio di annullamento iniziato dall’AGCM).

Se, invece, l’Amministrazione segue il parere modificando l’atto, il ricorso potrà indirizzarsi contro l’atto modificato (o contro l’atto con cui si dispone l’annullamento del precedente), il parere dell’AGCM. In definitiva, quindi, il parere viene considerato atto meramente presupposto, che diventa lesivo solo quando viene adottato l’atto consequenziale, per quanto il contenuto di quest’ultimo sia inevitabilmente condizionato e conformato dal contenuto del primo.

Come evidenziato da parte della dottrina, infatti, la pubblica amministrazione non ha interesse a impugnare autonomamente il parere, considerato che può ancora conformarsi a esso nei termini stabiliti e, qualora non lo faccia, la legge pone in capo all'AGCM l'onere di adire il giudice amministrativo. Secondo questa interpretazione, quindi, il parere sarebbe un atto meramente presupposto, che diventa lesivo solo quando viene adottato l'atto consequenziale.

Secondo MATTARELLA; op. cit., "l'amministrazione che ha emanato il provvedimento censurato non ha bisogno di impugnare il parere, essendo in capo all'Autorità l'onere di adire il giudice amministrativo. Gli eventuali interessati non hanno interesse a farlo, potendo impugnare il provvedimento di conformazione eventualmente adottato dall'amministrazione".

Come si è detto, secondo una parte della dottrina, di norma, gli eventuali terzi interessati alla conservazione del provvedimento potranno intervenire ad opponendum nel giudizio successivamente instaurato dall'AGCM. Anzi, è palese che tali soggetti, se rivestono la qualifica di controinteressati (ad esempio, l'aggiudicatario), dovranno essere necessariamente evocati in giudizio, a pena di inammissibilità.

Si ritiene, inoltre, nella prospettiva opinabile della "autotutela doverosa" che, se il parere risulta tardivo o se l'Autorità rimane inerte, essi potrebbero impugnare l'atto di annullamento adottato dalla stazione appaltante, congiuntamente al parere che ha ispirato l'autotutela (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 1° settembre 2014, n. 9264; Cons. Stato, Sez. V, 9 marzo 2015, n. 1171). Ovviamente, però, questa tesi sarebbe condivisibile solo nei casi in cui il provvedimento di autotutela non esprima anche autonome ragioni, relative alla sussistenza dell'interesse pubblico specifico all'annullamento.

Non è chiaro, però, il rapporto di connessione tra il parere e il successivo atto di autotutela della stazione appaltante.

La casistica potrebbe essere, in concreto, molto variegata. La soluzione è condizionata dal carattere obbligatorio, o meno, dell'autotutela sollecitata dall'ANAC.

Non sembra, tuttavia, che eventuali vizi della procedura preliminare possano incidere automaticamente sulla validità dell'atto di autotutela.

Altra questione, però, è quella della necessità di realizzare il contraddittorio anche con l'ANAC, nel caso in cui la parte impugni la determinazione conformativa adottata dalla stazione appaltante, senza lamentare alcuna violazione intrinseca del preventivo parere, che pure costituisce uno degli antecedenti logici della decisione.

In linea di massima, anche in tali ipotesi, è evidente l'interesse dell'Autorità a difendere una determinazione della stazione appaltante coerente con le valutazione espresse in occasione della adozione del parere motivato.

Si può affermare con certezza che l'ANAC possa intervenire ad opponendum. Ma è preferibile ritenere, che, in ogni caso, considerando l'unitarietà della vicenda, l'ANAC sia parte necessaria del giudizio, ancorché diretto contro il solo provvedimento della stazione appaltante, senza alcuna censura di illegittimità derivata.

Non sembra, invece, che il ricorrente sia tenuto a notificarle il ricorso a pena di inammissibilità entro il termine decadenziale, ben potendo integrare il contraddittorio in un momento successivo.

Si potrebbe aggiungere che l'ANAC, coinvolta in questo giudizio, potrebbe a sua volta proporre un ricorso incidentale condizionato contro l'atto originariamente considerato nel parere motivato e oggetto del provvedimento di autotutela.

Un 'ultima considerazione di ordine sistematico merita di essere evidenziata. Come si è detto, la giurisprudenza si è a lungo interrogata sulla impugnabilità dei pareri non vincolanti di precontenzioso, giungendo ad individuare diverse ipotesi concrete in cui sussiste un concreto interesse al ricorso (vedi supra).

D'altro canto, nell'art. 211, l'espressa impugnabilità è prevista solo con riguardo ai pareri vincolanti di precontenzioso e alle (abrogate) raccomandazioni vincolanti. In base all'argomento "a contrario", si dovrebbe allora ritenere la non impugnabilità dei pareri di cui al comma 1-ter.

Tuttavia, tale conclusione potrebbe essere a sua volta smentita dalla previsione dell'art. 213, che, come si è ricordato, stabilisce, in modo generalizzato, l'impugnabilità di tutti gli atti dell'ANAC, nella comprensibile preoccupazione di bilanciare gli ampi poteri assegnati a tale soggetto.

 

3.14. I provvedimenti adottati dall’amministrazione in seguito alla pronuncia del parere

La giurisprudenza, infine, si è trovata di fronte la questione che attiene al rapporto fra il parere dell'Autorità e la successiva attività di conformazione da parte dell'amministrazione.

L'AGCM, attraverso il suo parere, "esorta" l'amministrazione destinataria a rimediare attraverso un potere di autotutela, nella specie dell'annullamento d'ufficio. Sicché l'amministrazione intimata potrebbe decidere di non aderire alle indicazioni dell'Autorità, sia perché ritiene il provvedimento emanato non lesivo della concorrenza, sia perché afferma che non sussistano i presupposti richiesti dall'art. 21 nonies, L. n. 241/1990, con particolare riguardo alla valutazione dei diversi interessi, pubblici e privati, in gioco.

Seguendo tale impostazione, l'eventuale ricorso dell'AGCM dovrebbe contenere, oltre ai motivi inerenti la violazione delle norme concorrenziali, anche le valutazioni relative al rifiuto dell'annullamento d'ufficio, quali ad es. l'interesse pubblico o l'affidamento, non previste dall'art. 21-bis, L. n. 287/1990. Secondo la giurisprudenza (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 15 marzo 2013, n. 2720), tale tesi è apparsa in contrasto con il dato letterale e con la stessa ratio della norma.

I giudici amministrativi hanno specificato che la successiva attività dell'amministrazione, sia nel senso di conformazione al parere che di conferma della soluzione originaria, non costituisce l'estrinsecazione di un potere di autotutela strictu sensu inteso, non implicando alcun apprezzamento discrezionale.

In ragione di ciò, l'amministrazione non potrà quindi, pur riconoscendo la violazione delle norme a tutela della concorrenza, decidere di non rimuovere o di non modificare l'atto originariamente adottato sul presupposto della mancanza degli elementi richiesti dall'art. 21-nonies della L. n. 241/1990. Ne conseguirebbe che le determinazioni dell'amministrazione a seguito del parere rimangono attratte nel momento di interlocuzione voluto dal legislatore, senza assumere valenza provvedimentale esterna come atti di autotutela.

Tuttavia, parte della dottrina, confermando le conclusioni rispetto all'ampiezza del thema decidendum del giudizio, ha osservato che il ritiro del provvedimento censurato a seguito del parere dell'AGCM può rientrare a pieno titolo nel fenomeno dell'autotutela, non rilevando a tal fine l'assenza di discrezionalità di fronte a violazioni delle norme antitrust. Tutto ciò vale ancor più se si è al di fuori di un giudizio attivato ai sensi dell'art. 21-bis, L. n. 287/1990.

Se, come anticipato, il ricorso è proposto da un terzo danneggiato dal ritiro o dalla modifica del provvedimento a seguito dell'emanazione del parere dell'AGCM (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 1° settembre 2014, n. 9264; Cons. Stato, Sez. V, 9 marzo 2015, n. 1171), si è in presenza di un normale giudizio di legittimità avverso un vero e proprio atto di autotutela dell'amministrazione intimata che, con la sua attività, ha in qualche modo anticipato la pronuncia giurisdizionale, che l'Autorità intende ottenere.

 

3.15. Il termine assegnato all’amministrazione per l’adeguamento al parere motivato

La giurisprudenza si è interrogata sul dies a quo e sulla natura dilatoria o acceleratoria di tale termine. Il problema ha importantissime ricadute pratiche poiché, essendo strettamente legato ai successivi trenta giorni per la proposizione del ricorso, incide direttamente sulla valutazione della sua tempestività.

Rispetto alla prima questione, il TAR (Sicilia, Catania, Sez. IV, 3 marzo 2014, n. 676) ha affermato che il termine entro cui la pubblica amministrazione può conformarsi al parere decorre dalla sua comunicazione e non dalla mera notifica, rilevando a tal fine il momento di formazione e comunicazione effettiva dell'atto e non anche quello in cui l'amministrazione lo abbia ricevuto.

Ma è preferibile ritenere che vada tenuta ferma una fondamentale distinzione: per l'Autorità il termine di sessanta giorni per la pronuncia del parere è rispettato se, entro tale data, l'atto è formato ed è avviato il procedimento di comunicazione. Per la stazione appaltante, invece, il termine per la conformazione inizia a decorrere dal momento in cuio risulta perfezionato il procedimento di notifica o comunicazione.

In merito al secondo quesito, gli orientamenti registrati in giurisprudenza non sono univoci. In alcune pronunce, infatti, i giudici amministrativi hanno affermato la natura dilatoria del predetto temine, posto che i successivi trenta giorni per la proposizione del ricorso decorrono dalla data in cui si esaurisce interamente il termine preventivo di sessanta giorni a disposizione dell'amministrazione (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 15 marzo 2013, n. 2720; TAR Sicilia, Catania, Sez. IV, 3 marzo 2014, n. 676; TAR Lazio, Roma, Sez. III, 27 maggio 2015, n. 7546; TAR Veneto, Venezia, Sez. I, 26 giugno 2015, n. 737).

Ciò in quanto, in linea con l'intentio legis, le eventuali comunicazioni che quest'ultima trasmette all'Autorità, anche divergenti rispetto al parere, si inseriscono in quel momento necessario di dialogo, non impedendo che prima dei sessanta giorni comunque l'amministrazione, ravvedendosi, si conformi al parere. In senso contrario, il Consiglio di Stato (Sez. IV, 28 gennaio 2016, n. 323) ha affermato che il termine di trenta giorni per la proposizione del ricorso inizia a decorrere già dall'atto definitivo di non conformazione o, in caso di inerzia, dal silenzio serbato della pubblica amministrazione di fronte al parere. I giudici amministrativi hanno aggiunto che la configurazione della natura acceleratoria del termine favorisce l'azione dell'Autorità che, di fronte a una violazione, non deve attendere l'eventuale ripensamento, il quale può pervenire anche a giudizio in corso finché non intervenga il giudicato.

Del medesimo avviso una successiva pronuncia (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 6 maggio 2016, n. 5335), in cui è stato affermato che né il dato testuale, né la ratio della norma autorizzano a concludere che solo lo spirare del termine di sessanta giorni assurga a dies a quo affinché l'AGCM possa proporre ricorso. Infine, rispetto all'ultimo termine di trenta giorni per la proposizione del ricorso, la giurisprudenza ne ha dichiarato la perentorietà (TAR Sicilia, Catania, Sez. IV, 3 marzo 2014, n. 676; TAR Veneto, Venezia, Sez. I, 26 giugno 2015, n. 737).

In dottrina (MATTARELLA, op. cit.), si è però osservato che "non appare scontato quanto affermato dal Cons. Stato nella citata sent. n. 323 del 2016, che fa decorrere il termine per il ricorso al TAR da parte dell'Autorità, nel caso di mancata conformazione, dal momento in cui l'amministrazione destinataria del parere comunica di non volersi conformare e non dal decorso del termine di sessanta giorni fissato dal legislatore per la conformazione: la sentenza, evidentemente, interpreta l'espressione "entro i successivi trenta giorni" ritenendo che si tratti dei trenta giorni successivi alla mancata conformazione e non al decorso del termine di sessanta giorni per conformarsi. Si tratta di un'interpretazione opinabile per diverse ragioni: perché la dichiarazione di non volersi conformare non è un provvedimento, dal quale debba farsi decorrere un termine per impugnare; perché nulla esclude che l'amministrazione, dopo aver dichiarato di non volersi conformare, si conformi comunque entro il termine di sessanta giorni; e perché questa interpretazione potrebbe incentivare comportamenti elusivi da parte delle amministrazioni interessate, che potrebbero rispondere al parere dell'Autorità in modo elusivo, senza un espresso rifiuto di conformazione, solo per far decorrere il termine per impugnare."

Sembra comunque opportuno chiarire quali conseguenze derivino dalla adozione di un espresso provvedimento di rifiuto di conformazione al parere, in una data precedente alla scadenza del termine assegnato dall'Autorità.

Infatti, se si esclude il carattere dilatorio del termine, come ritenuto dalla giurisprudenza, l'Autorità dovrebbe avere non solo la facoltà, ma anche l'onere di impugnare il provvedimento adottato dalla stazione appaltante entro trenta giorni dalla conoscenza di tale determinazione.

In senso contrario, tuttavia, si potrebbe affermare che vi sia un interesse dell'ANAC ad attendere la scadenza del termine assegnato, per scongiurare eventuali ripensamenti successivi della stazione appaltante.

Inoltre, si potrebbe dubitare che il termine per la proposizione del ricorso sia "unitario" (derivando dalla sommatoria del termine per la conformazione con quello di trenta giorni) e che il ricorso dell'ANAC sia in ogni caso rivolto solo contro l'originario provvedimento contestato.

 

4. La fase processuale

4.1. Dal parere motivato alla proposizione del ricorso L'oggetto del giudizio nel caso di conferma espressa dell’originario provvedimento

Verificata la mancata conformazione della stazione appaltante al parere motivato, l'ANAC può (o deve, nelle ipotesi problematiche individuate supra) attivare il giudizio.

La legge non prevede un "atto" formale con cui si esterni la decisione finale dell'Autorità. Questo potrebbe essere individuato nello stesso atto di autorizzazione a stare in giudizio. Ma, per l'ANAC, la previsione del patrocinio dell'Avvocatura dello Stato sembra escludere la necessità di siffatta determinazione.

Presumibilmente, il regolamento di cui al comma 1-quater potrà chiarire questo profilo. Pare invece indispensabile una decisione espressa nel caso in cui, dopo l'emanazione del parere vincolante, l'ANAC decida di non agire in giudizio.

Una volta scaduto il termine per il ricorso, comunque, l'inerzia deve considerarsi pienamente equivalente ad una determinazione negativa, poiché comporta lo stesso effetto giuridico della decadenza dal potere di azione.

Si deve affrontare ora la delicata problematica relativa dell'oggetto del ricorso. Con riguardo all'art. 21-bis, si dice che, una volta emanato il parere da parte dell'AGCM, l'amministrazione destinataria, se decide di non conformarsi a esso, ha due strade a sua disposizione: restare inerte o emanare una determinazione con cui respinge la richiesta di modifica o di ritiro del provvedimento.

In tali casi, la giurisprudenza si è chiesta se l'atto da impugnare sia il rifiuto - espresso o tacito - del ritiro oppure di modifica del provvedimento, oppure quello originario reputato distorsivo della concorrenza. I giudici amministrativi (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 15 marzo 2013, n. 2720; Cons. Stato, Sez. VI, 28 gennaio 2016, n. 323) hanno affermato che oggetto del ricorso è l'atto originariamente emanato dalla pubblica amministrazione. A conferma di ciò, è stato sostenuto che il comma 2 dell'art. 21-bis non ha individuato l'oggetto del giudizio, ma si è limitato a dettare le regole procedimentali per il ricorso in sede giurisdizionale.

Ne deriverebbe, che l'eventuale annullamento del provvedimento originariamente adottato dall'amministrazione determinerà un effetto automaticamente caducante del successivo atto di rifiuto adottato. La soluzione prospettata dai TAR dovrebbe valere senz'altro nei casi in cui il rifiuto di autotutela espresso dall'amministrazione sia motivato con riferimento alla violazione della procedura prodromica: la contestazione di tale atto diventa pregiudiziale ad ogni altra questione riguardante la legittimità dell'atto originario.

Il giudice adito dall'ANAC dovrà verificare preliminarmente questo aspetto. Tuttavia, il veicolo necessario non sembra costituito dalla rituale impugnazione, da parte dell'Autorità, dell'atto adottato dall'amministrazione.

Parimenti, nel caso in cui il rifiuto di conformazione sia motivato mediante la confutazione degli argomenti giuridici espressi dal parere motivato, tali deduzioni difensive riemergeranno nell'ambito del giudizio proposto dall'ANAC.

Più delicato è il caso in cui la stazione appaltante rifiuti l'autotutela richiamando, nella motivazione, le regole di cui all'art. 21-nonies (affidamento, interesse pubblico) o degli artt. 121 e 122, nel caso in cui il contratto sia stato stipulato.

Ora, sotto il profilo sostanziale, come si è detto, non sembra affatto plausibile la tesi secondo cui i principi dell'autotutela restino completamente fuori gioco nella fase preliminare.

La stazione appaltante non può non tenere conto delle circostanze di fatto entro cui si collocherebbe l'annullamento dei provvedimenti censurati dall'ANAC con il parere.

Semmai, è dubbio che anche l'Autorità, già all'atto di emissione del parere, compia una delibazione, "allo stato degli atti", della situazione di fatto.

Pertanto, il nuovo provvedimento motivato di rifiuto dell'autotutela in tal caso non potrà essere caducato "automaticamente", per effetto dell'accertata illegittimità dell'originario affidamento.

 

4.2. L’ANAC deve dimostrare la sussistenza di un concreto diretto e attuale interesse al ricorso?

Rispetto alle condizioni dell'azione, la giurisprudenza e la dottrina si sono interrogate, anzitutto sulla necessità di verificare la sussistenza originaria - e la successiva permanenza - dell'interesse al ricorso proposto dall'Autorità. A tal riguardo, si è sostenuto che, potendo il ricorso essere rivolto anche nei confronti di atti non ancora lesivi, il giudizio prescinderebbe sempre dalla verifica dell'interesse ad agire (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 6 maggio 2013, n. 4451).

Questa prospettiva è analizzata in modo approfondito dalla dottrina. In particolare, secondo CINTIOLI, op. cit., 16, "sfuma nel rapporto processuale che contraddistingue questo peculiare diritto di azione di AGCM anche l’interesse ad agire. L’interesse ad agire è personale, attuale e concreto. Sono, questi, caratteri che non si addicono all’azione di un ente pubblico che sia chiamato all’attuazione della legge (le norme a tutela della concorrenza) anziché alla realizzazione di propri interessi. AGCM agisce, appunto, come una sorta di p.m. e per la realizzazione dell’interesse generale alla concorrenza.

D'altro canto, però, in alcune pronunce del giudice amministrativo è stato osservato che nelle ipotesi di ricorso ex art. 21-bis l'AGCM agisce per la tutela in sé della concorrenza, presupponendo il relativo interesse (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 1° settembre 2014, n. 9264; Cons. Stato, Sez. V, 9 marzo 2015, n. 1171).

Così identificato il requisito dell'interesse al ricorso è possibile verificarne la effettiva sussistenza e permanenza nel corso del giudizio.

In tal senso, la giurisprudenza si è trovata di fronte alcune istanze di parte che, ravvisando l'assenza di interesse, hanno richiesto l'improcedibilità del ricorso per cessazione della materia del contendere.

Le fattispecie possono essere quelle del ritiro dell'atto lesivo da parte dell'amministrazione a giudizio in corso, o di annullamento da parte del giudice all'esito di un diverso e giudizio avviato da un terzo direttamente leso dal medesimo provvedimento.

In concreto, il TAR (Lazio, Roma, Sez. III, 15 marzo 2013, n. 2720; Id., 20 febbraio 2015, n. 2896) ha sostenuto che permane l'interesse del ricorrente all'annullamento degli atti pregressi, giacché questi ultimi continuano a trovare applicazione in tutti quei rapporti intercorsi dalla sua emanazione fino al momento della nuova delibera di revoca e sostituzione. Inoltre, nel caso di norme regolamentari, la dottrina ha affermato che l'adozione di nuovi atti consequenziali non fa venir meno l'interesse a eliminare l'atto presupposto, passibile di altre applicazioni.

In caso di intervenuta "conformazione" tardiva sembra corretta la pronuncia di sopravvenuta carenza di interesse, fermo restando l'onere delle spese processuali in capo alla stazione appaltante.

Più complesso, invece, è il caso degli atti amministrativi generali, come ad es. i bandi di gara, il cui semplice l'annullamento, senza l'impugnazione dell'aggiudicazione, sarebbe privo di utilità, posto che l'effetto lesivo si è ormai perpetrato e l'atto ha esaurito la sua applicazione.

Si tratta di stabilire, allora, se la legittimazione speciale dell'ANAC possa giustificare un'azione di carattere meramente accertativa, sin dall'origine o "trasformata" in corso del giudizio, in seguito al ritiro o alla modifica del provvedimento impugnato.

Con riferimento all'azione dell'AGCM, si può affermare che lo scopo dell'azione sia sempre quello di rimediare agli "effetti distorsivi della concorrenza", determinati da un provvedimento. Pertanto, una volta eliminato il pregiudizio, con un atto pienamente ripristinatorio, l'interesse al ricorso (pur in origine notevolmente ampliato) risulta effettivamente venuto meno.

Per l'art. 211, invece, la legittimazione dell'ANAC non è ancorata ad una nozione "funzionale". Per cui, si potrebbe sostenere che la privazione di effetti del provvedimento impugnato non determini la sopravvenuta carenza di interesse.

In senso contrario, tuttavia, occorre evidenziare che la legittimazione è ancorata ad una azione di impugnazione: per cui, una volta venuto meno il suo oggetto, il ricorso dovrebbe essere improcedibile.

Il punto, però meriterebbe un'analisi approfondita, poiché la specialità della legittimazione potrebbe giustificare anche una soluzione ampliatrice del novero delle azioni proponibili dall'ANAC.

 

4.3. La competenza territoriale: l’applicazione delle regole generali e la inoperatività della competenza funzionale del TAR Lazio. Il rito applicabile e il rinvio all’art. 120 del CPA

Un particolare quesito ha riguardato l'individuazione del giudice territorialmente competente per le controversi di cui all'art. 21-bis. La giurisprudenza, applicando i criteri dettati dall'Ad. Plen. nella pronuncia 26 luglio 2012, n. 29, ha dichiarato che in questi casi non opera la competenza funzionale del TAR Lazio ex art. 135, comma 1, lett. b) CPA (TAR Sicilia, Catania, Sez. IV, 3 marzo 2014, n. 676).

Ciò in quanto tale previsione si riferisce esclusivamente alle controversie aventi a oggetto i "provvedimenti dell'Autorità" e non anche a quelle da quest'ultima promosse contro gli atti emanati da altre amministrazioni (TAR Veneto, Venezia, Sez. I, 26 giugno 2015, n. 737; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 29 giugno 2016, n. 1373). Questo esito interpretativo sembra estensibile anche alle nuove previsioni dell'art. 211.

La nuova disciplina dell'art. 211 intende chiarire con maggiore precisione, rispetto all'art. 21-bis, quale sia il rito applicabile al giudizio avviato dall'ANAC.

In questo senso, la formula utilizzata, che richiama il rito appalti di cui all'art. 120 CPA, potrebbe apparire senz'altro migliore di quella racchiusa nel comma 3, dell'art. 21-bis, il quale compie un mero rinvio generico all'intero Titolo V del Libro IV del CPA.

La norma è ora univoca nello stabilire che l'azione dell'ANAC resti sempre soggetta al rito di cui all'art. 120 CPA.

Una volta puntualizzato che vi è un rinvio pieno all'art. 120 del CPA, apparirebbe del tutto superflua l'esplicita previsione di un termine di trenta giorni per la proposizione del ricorso. Tale indicazione, infatti, era importante nell'ambito della previsione dell'art. 21-bis, poiché, attraverso il rinvio in blocco agli articoli 119 e ss. sarebbe rimasta incerta l'applicazione del termine ordinario o, in alternativa, di quello abbreviato.

La disposizione conserva una certa, limitata utilità nella parte in cui permette di coordinare il termine di trenta giorni con la complessa sequenza dei termini delle fasi precedenti la proposizione del ricorso.

Pertanto, qualora si ritenessero ipotizzabili violazioni del codice dei contratti pubblici astrattamente non riconducibili alla dizione dell'art. 120, nondimeno le azioni proposte dall'ANAC resterebbero sottoposte a tale rito.

 

4.4. Le regole processuali: la compatibilità con il rito superspeciale su ammissioni ed esclusioni.

Risulta coerente la scelta di richiamare il rito speciale di cui all'art. 120 del CPA. Restano aperti, tuttavia, alcuni dubbi applicativi.

Anzitutto, il riferimento al solo art. 120, nel suo complesso, potrebbe determinare l'insorgere di una delicata questione riguardante l'impugnazione delle ammissioni e delle esclusioni e il rito applicabile.

Si potrebbe immaginare - in linea di ipotesi - che l'ANAC ottenga un'immediata conoscenza dell'ammissione e della sua probabile illegittimità. In tal caso, il giudizio dovrebbe svolgersi secondo il rito superspeciale di cui all'articolo 2-bis.

È più probabile, però, che la grave violazione riscontrata dall'ANAC riguardi, in prima battuta, proprio un'ammissione o un'esclusione, ma che l'Autorità ne abbia conoscenza solo dopo un lasso di tempo successivo (anche di molti mesi) all'aggiudicazione. La "logica" acceleratoria del rito superspeciale potrebbe entrare in conflitto con la legittimazione straordinaria dell'ANAC.

Una possibile soluzione potrebbe essere nel senso di assecondare la tendenza al consolidamento della fase di ammissioni ed esclusioni, con la correlata preclusione del potere di intervento dell'Autorità. Ma si deve obiettare che l'esigenza di verificare la legittimità dell'affidamento, anche in relazione alla sussistenza dei prescritti requisiti soggettivi dell'appaltatore, costituisce uno dei valori portanti del sistema.

Pertanto, anche in tal caso, non pare che la normativa impedisca all'ANAC di intervenire con i poteri di advocacy, attraverso l'impugnazione congiunta dell'aggiudicazione e del provvedimento di ammissione o di esclusione.

In tal caso, l'eventuale giudizio, proposto contro aggiudicazione e presupposto provvedimento di ammissione o di esclusione resterà assoggettato al rito di cui all'art. 120 "ordinario" e non a quello dei commi 2-bis e 6-bis. Un'ulteriore interrogativo riguarda la possibilità di agire, anche a distanza di tempo, contro violazioni afferenti alla fase di esclusione e di ammissione che non abbiano determinato conseguenze sull'intervenuta aggiudicazione.

Se il potere è finalizzato - anche - all'accertamento della disciplina applicabile e a indirizzare le condotte della stazione appaltante, si potrebbe anche ammettere l'impugnazione "tardiva" di tali atti. A questo risultato, del resto, si deve pervenire considerando anche l'orientamento interpretativo che enfatizza l'autonomia della fase di ammissione ed esclusione delle offerte.

 

4.5. Il giudizio cautelare

Si sono prospettate incertezze in ordine alla possibilità dell'Antitrust di attivare il giudizio cautelare. Simili incertezze potrebbero estendersi anche alla legittimazione dell'ANAC.

Un primo dubbio è essenzialmente procedimentale. Si osserva, infatti, che l'azione davanti al TAR deve essere preceduta, di regola, dalla fase procedimentale diretta all'adozione del parere motivato. Tale dilatazione dei tempi sembrerebbe inconciliabile con la ratio della tutela cautelare.

Nel nuovo disegno dell'art. 211, tuttavia, l'ANAC ben potrebbe "bruciare" i tempi, imponendo alla stazione appaltante di "conformarsi" al parere entro un termine di pochi giorni.

Ciò sarebbe reso ancora più agevole aderendo all'opinione secondo la quale la fase procedimentale non richiede l'attuazione puntuale del contraddittorio.

In tal caso, quindi, lo spazio "tecnico" per la tutela cautelare sarebbe sostanzialmente assicurato, anche nelle forme dell'istanza di misure urgenti ante causam e del giudizio monocratico.

Una seconda obiezione ha una portata più radicale e si connette alla controversa natura della legittimazione dell'Antitrust e della posizione sostanziale tutelata attraverso il giudizio.

In effetti, poiché la legittimazione sembra essere disancorata da una effettiva lesione di un interesse sostanziale concreto, appare ancora più difficile ipotizzare un pregiudizio grave e irreparabile, necessitante la tutela processuale d'urgenza (CINTIOLI, op. cit., 17).

Seppure probabilmente non frequente in concreto, l'esigenza cautelare dell'ANAC potrebbe emergere e giustificare l'attivazione degli appositi strumenti di tutela. Si può osservare, poi, che l'art. 120, richiamato dall'art. 211, contempla la tutela cautelare, sicché non dovrebbero esserci ostacoli testuali per ammetterla anche nell'ipotesi del ricorso proposto dall'ANAC.

Peraltro, con riguardo alla tutela cautelare nell'ambito dell'art. 21-bis, al fine di confutare la necessità di un ricorso diretto senza previo espletamento del parere, la giurisprudenza ha affermato che non vi sarebbe nessun motivo per non ammettere, ricorrendone i presupposti, la richiesta da parte dell'AGCM di misure cautelari ante causam. (Consiglio di Stato, Sez. V, 30 aprile 2014, n. 2246).

 

4.6. I motivi aggiunti e l’impugnazione di provvedimenti connessi: è necessaria l’emanazione di un nuovo parere motivato?

Quale parte ricorrente, l'ANAC dovrebbe essere astrattamente titolare del potere di proporre motivi aggiunti, sia per prospettare nuovi vizi del provvedimento impugnato, sia per contestare nuovi provvedimenti. La giurisprudenza ha riconosciuto all'AGCM il potere di proporre motivi aggiunti (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 15 marzo 2013, n. 2720), valorizzando la funzione di tale strumento nel processo amministrativo come mezzo a tutela dell'economicità e della celerità del giudizio, a garanzia del simultaneus processus per la definizione di vicende unitarie o strettamente connesse dall'altro.

Secondo la giurisprudenza (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 15 marzo 2013, n. 2720; TAR Lombardia, Milano, Sez. I, 8 luglio 2016, n. 1356) l'Autorità non è obbligata a emanare un nuovo parere ogni qual volta intenda proporre motivi aggiunti contro lo stesso atto.

 

4.7. Il patrocino dell’Avvocatura dello Stato secondo le regole generali

La nuova disciplina non ripete la previsione del comma 2 dell'art. 21-bis, L. n. 287/1990, riguardante il patrocinio dell'Avvocatura dello Stato. La norma era apparsa superflua, giacché l'art. 1, R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611 prescrive il patrocinio obbligatorio dell'Avvocatura dello Stato per tutte le Amministrazioni dello Stato, in cui ormai possono essere pacificamente annoverate le Autorità amministrative indipendenti.

Si era osservato che la norma potesse conservare un limitato rilievo nelle ipotesi in cui il ricorso sia proposto contro un'altra Amministrazione dello Stato o quando al momento di esercizio dell'azione giurisdizionale, l'atto censurato risulti già impugnato da altri soggetti privati e in tale giudizio la pubblica amministrazione si sia costituita per mezzo dell'Avvocatura dello Stato (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 15 marzo 2013, n. 2720).

In simili casi, come osservato dalla stessa Avvocatura in un suo parere reso in data 1° ottobre 2013, l'AGCM potrà senz'altro avvalersi del patrocinio di un avvocato appartenente al libero foro, derogando alla regola generale che implicherebbe invece la soluzione del conflitto a favore dell'amministrazione attrice (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 27 maggio 2015, n. 7546; Cons. Stato, Sez. IV, 28 gennaio 2016, n. 323; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 29 giugno 2016, n. 1373).

Infatti, in questo caso, verificandosi un’ipotesi di conflitto di interessi tra due Amministrazioni dello Stato, si verifica uno di questi “casi eccezionali” che, ai sensi dell’art. 5 r.d. n. 1611/1933, consentono (anzi, in questo caso impongono) ad una delle due Amministrazioni in conflitto di avvalersi del patrocinio di un avvocato del libero foro. In quest’ottica, il fatto che l’art. 21-bis specifichi che il ricorso in esame è proposto dall’AGCM sempre con il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato porta alla conclusione che ad avvalersi dell’avvocato del libero foro, con le modalità indicate dal citato art. 5 r.d. n. 1611/1933, sarà l’Amministrazione resistente.

Molto opportunamente, allora, l'art. 211 omette il riferimento all'Avvocatura dello Stato: pertanto, il patrocinio sarà regolato dalla disciplina generale.

 

4.8. Le domande proponibili al giudice amministrativo. L’azione di annullamento esaurisce la legittimazione speciale dell’ANAC? La corrispondenza tra i vizi dedotti in giudizio e quelli enunciati nel parere motivato. La proponibilità di questioni incidentali di legittimità costituzionale o comunitaria

La nuova disciplina dell'advocacy dell'ANAC, al pari dell'art. 21-bis[10], non evidenzia quali siano le azioni proponibili dall'Autorità. Si prospetta allora il dubbio che l'unica domanda coerente con la funzione attribuita all'ANAC sia quella di annullamento dell'atto di cui si afferma l'illegittimità. Non vi sarebbe spazio, allora, per altri tipi di azione, autonomamente esercitate, o connesse con quella di annullamento.

Sotto il profilo letterale, l'art. 211 fa riferimento al potere di "agire in giudizio per l'impugnazione…"

Pur non essendo impeccabile sotto l'aspetto formale, la disposizione appare piuttosto chiara nella direzione di attribuire una legittimazione incentrata, essenzialmente, sulla proposizione di un'azione di annullamento (o, se del caso) di nullità di provvedimenti contrastanti con la disciplina dei contratti pubblici.

Ciò non dovrebbe impedire, a priori, quanto meno la proposizione di domande strettamente connesse.

In questo senso, si dovrebbe ammettere la richiesta di dichiarazione della inefficacia del contratto e l'azione di "adempimento", impropria, diretta ad individuare, già in sede di cognizione, gli effetti conformativi della pronuncia. In questo ambito, poi, si dovrebbe ammettere la domanda diretta all'accertamento dei presupposti per l'applicazione delle sanzioni alternative di cui agli artt. 121 e 123 del CPA. Non pare incompatibile con il dettato e la ratio della disposizione, poi, l'esercizio dell'azione di ottemperanza, necessaria, per concretizzare l'annullamento dell'atto impugnato.

Più problematico è stabilire se l'ANAC possa agire contro l'inerzia della stazione appaltante, inadempiente ad obblighi scaturiti dal codice. La concezione "attizia" del silenzio potrebbe condurre ad una risposta affermativa. Ma, in ogni caso, anche prescindendo da ulteriori approfondimenti del rito in materia di silenzio, risulta preferibile seguire una tesi "estensiva".

Dubbi ancora più forti riguardano l'ammissibilità dell'azione di risarcimento del danno, per equivalente o in forma specifica.

La questione potrebbe apparire di sapore "teorico". Tuttavia, occorre stabilire, in primo luogo, se l'ANAC, possa agire per individuare l'operatore economico subentrante all'aggiudicatario, in caso di annullamento dell'affidamento e della conseguente declaratoria di inefficacia del contratto. Il punto non è di semplice soluzione, riannodandosi anche all'interpretazione degli articoli 121 e 122: solo in caso di gravi violazioni il giudice può procedere, anche 'ufficio, alla declaratoria di inefficacia del contratto. Invece, nell'ipotesi dell'art. 122 CPA sembrerebbe sempre necessaria una domanda della parte interessata al subentro.

Non pare allora, che l'ANAC possa sostituirsi alla parte interessata, richiedendo, in sua vece, il subentro e l'affidamento

Del tutto diverso è il problema della ammissibilità della domanda di risarcimento del danno subito direttamente dall'ANAC, in conseguenza del provvedimento illegittimo adottato dalla stazione appaltante.

Sul piano processuale non vi dovrebbero essere difficoltà a consentire alla parte ricorrente di articolare gli adeguati strumenti di tutela della posizione giuridica lesa.

Sotto il profilo sostanziale, tuttavia, potrebbe risultare difficile dimostrare la sussistenza di un pregiudizio patrimoniale dell'ANAC derivante dal provvedimento illegittimo della stazione appaltante.

In ogni caso, poi, questo tipo di controversia pare estraneo alla logica dell'art. 211 e dovrebbe connettersi, semmai, alla legittimazione "ordinaria" dell'ANAC.

Un'ultima importantissima questione riguarda la possibilità di proporre l'azione di accertamento, tesa alla declaratoria di illegittimità del provvedimento contestato. L'interrogativo riguarda anzitutto, il caso in cui, in corso di causa, il provvedimento impugnato risulti avere già completamente esaurito i suoi effetti. Ma il dubbio dovrebbe estendersi anche alle ipotesi in cui, sin dall'origine, il ricorso appare riferirsi a procedure di affidamento già completamente eseguite. In linea di massima, l'azione di mero accertamento della illegittimità di un provvedimento che abbia esaurito i propri effetti non risulta ammessa dal nostro ordinamento processuale, ad eccezione dei casi in cui vi sia spazio potenziale per la (futura) domanda di risarcimento del danno.

Ma, nel quadro della speciale legittimazione attribuita all'ANAC, potrebbe ritenersi giustificata un'azione rivolta all'accertamento della corretta applicazione del diritto oggettivo.

Del resto, se si ammette l'impugnazione di atti generali indipendentemente dalla loro attuazione, sembra possibile compiere un ulteriore passo e riconoscere la proponibilità di azioni dirette all'accertamento della illegittimità di provvedimenti che hanno completamente esaurito i loro effetti.

Sembrerebbe scontato, poi, che il ricorso debba esporre motivi corrispondenti a quelli già espressi nel parere motivato, secondo un criterio non dissimile elaborato con riguardo al rapporto tra ricorso gerarchico e successivo ricorso giurisdizionale.

Si possono ovviamente restringere le censure, così come le argomentazioni giuridiche del ricorso potrebbero essere più ricche e complesse, purché inquadrabili nello stesso contenuto.

Inoltre, si deve riconoscere all'ANAC la facoltà di indicare nel parere motivato i vizi riscontrati mediante una motivazione agile e sintetica. Diversamente, il ricorso potrà sviluppare in modo più dettagliato, i diversi profili delle censure articolate dall'Autorità.

Potrà tenersi conto delle posizioni espresse della stazione appaltante e dalle parti private nel corso del procedimento preliminare.

In ogni caso, dovrebbero consentirsi integrazioni connesse a fatti sopravvenuti dopo l'emissione del parere, senza necessità di riattivare ex novo l'intera procedura.

Ci si deve domandare se, all'interno del giudizio azionato dall'ANAC, si possa richiedere al giudice a quo di sollevare questioni di legittimità costituzionale o comunitaria.

Con riferimento all'art. 21-bis, la risposta positiva sembra prevalente. Del resto è già accaduto che il TAR (Lazio, Roma, Sez. III, 15 marzo 2013, n. 2720; Id., 20 febbraio 2015, n. 2896), accogliendo la richiesta contenuta nel ricorso dell'Autorità, abbia posto una questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE. Si osserva che, nell'esperienza pratica, non è raro che la violazione della concorrenza derivi proprio dalla legge, poi attuata dalle singole amministrazioni.

Non vi è ragione di escludere l'estensione di questi principi anche al giudizio di cui all'art. 211. L'ostacolo formale maggiore rimane costituito dalla infelice formulazione del comma 1-ter, che prende in considerazione le sole violazioni del codice.

Si è però già prospettata la più corretta lettura interpretativa, in forza della quale il "codice" riguarda il complesso delle norme su cui esso si basa, costituite, in termini fondamentali, dalle regole di derivazione europea e dai vincoli costituzionali.

È peraltro ragionevole ipotizzare che l'ANAC, prima di adottare tale pesante iniziativa processuale, si avvarrà dei poteri di segnalazione per invitare il Parlamento e il Governo ad assumere le opportune iniziative finalizzate a correggere la normativa nazionale.

D'altro canto, la sottoposizione della questione al giudice ben potrebbe rappresentare uno degli strumenti prescelti dall'ANAC per sottolineare l'urgenza del richiesto intervento correttivo.

 

4.9. L’appello e le altre impugnazioni

La dottrina (CINTIOLI) ha giustamente osservato che si potrebbe anche ipotizzare un giudizio impugnatorio promosso dall'ANAC. Ciò è senz'altro ammissibile nei casi di rigetto della domanda proposta dalla stessa ANAC.

Ci si potrebbe chiedere, però, se sia ammissibile anche l'impugnazione, da parte dell'ANAC di una sentenza di rigetto del ricorso proposto da un altro soggetto interessato. La risposta potrebbe essere affermativa, nonostante il silenzio della legge. In tal caso, la vicenda processuale in atto condurrebbe a ritenere superflua l'attivazione del procedimento preliminare di cui al comma 1-ter.

Ma si potrebbe anche ipotizzare il caso limite di una sentenza di accoglimento, che, annullando la determinazione di una stazione appaltante, abbia determinato, nella sostanza, una "violazione" del diritto degli appalti. Letteralmente, l'art. 211 non contempla nemmeno questa fattispecie e si potrebbe anche osservare che sarebbe inapplicabile la particolare procedura prodromica di cui al comma 1-ter, posto che, evidentemente, la stazione appaltante sarebbe cointeressata all'azione ANAC. E tuttavia, sembra innegabile la sussistenza di un interesse dell'ANAC alla promozione della corretta e uniforme interpretazione del diritto oggettivo.

 

4.10. La fase transitoria e il regolamento attuativo di cui al comma 1-quater.

La complessità della materia trattata rende quanto mai opportuna una disciplina attuativa, che l'ANAC potrà introdurre mediante il regolamento di cui al comma 1-quater. L'oggetto essenziale di tale strumento normativo riguarda la definizione dei presupposti oggettivi di intervento dell'ANAC. Ma è possibile - e auspicabile - che il regolamento stabilisca anche alcuni snodi procedimentali determinanti.

È prevedibile che il regolamento sarà preceduto dal parere - facoltativo - del Consiglio di Stato e che sarà frutto di una procedura di consultazione molto attenta.

Peraltro, il regolamento ANAC sarà a sua volta sindacabile dal giudice amministrativo, al pari degli altri atti adottati dall'Autorità.

Alcuni dei contenuti del regolamento sulle raccomandazioni vincolanti, comunque, potranno essere trasferiti alla disciplina del potere di azione dell'ANAC.

L'attuazione regolamentare determinerà un possibile differimento della piena messa a regime del nuovo istituto. Peraltro, ciò non significa che esso debba considerarsi totalmente inutilizzabile, sino all'entrata in vigore del futuro regolamento.

Nella fase transitoria potranno porsi i seguenti problemi.

L'inserimento formale della nuova disciplina nel corpus del codice dei contratti pubblici rende evidente che la legittimazione speciale ANAC potrà riferirsi solo alle violazioni riguardanti procedure di gara bandite dopo la sua entrata in vigore (aprile 2016).

Fermo restando tale limite, la nuova normativa deve essere qualificata come essenzialmente processuale e, quindi, risulta suscettibile di immediata applicazione, in base al principio tempus regit actum. È vero che il comma 1-ter descrive anche una disciplina di carattere sostanziale, ma appare prevalente la sua proiezione verso l'eventuale svolgimento del processo. D'altro canto, anche la qualificazione sostanziale non sembrerebbe impedire l'immedaita applicazione della disciplina.

Diventa determinante, allora, la data in cui l'ANAC ottiene la notizia della violazione, indipendentemente dalla diversa epoca, eventualmente precedente, in cui l'illegittimità si è realizzata. In quest'ottica, dunque, sussiste la legittimazione speciale dell'ANAC in ordine alle notizie intervenute dopo l'entrata in vigore della nuova normativa, ancorché riferite a violazioni concretizzatesi in epoca precedente.

È incerta invece la legittimazione dell'ANAC in ordine alle notizie già acquisite prima dell'entrata in vigore del nuovo comma 1-bis.

La soluzione più lineare dovrebbe essere nel senso che, a partire dalla data di entrata in vigore del nuovo istituto, inizia a decorrere il termine di sessanta giorni, previsto dal comma 1-ter, in relazione a tutte le notizie di violazioni gravi già acquisite dall'ANAC.

Nella prassi, si potrebbe anche immaginare che l'ANAC, allo scopo di ottenere la certezza della "notizia" della violazione, stabilisca di richiedere ai soggetti pubblici o privati, denuncianti o autori di segnalazioni, di rinnovare la comunicazione della notizia, "adeguandola" alla nuova disciplina e alle sue finalità. Sullo sfondo di questo delicato problema si pone la questione, più generale, del "vuoto" lasciato dalla abrogazione secca delle raccomandazioni vincolanti, seguita, ma con un salto di diverse settimane, dalla introduzione del nuovo istituto.

Né il Governo, in sede di adozione del correttivo, né il Parlamento, in sede di conversione della "manovrina", si sono preoccupati di coordinare il passaggio dal sistema delle raccomandazioni vincolanti a quello della legittimazione speciale dell'ANAC. E l'inconveniente risulta aggravato dalla esistenza di un lasso temporale "vuoto", nel quale risultano inapplicabili sia le raccomandazioni vincolanti sia la legittimazione speciale dell'ANAC.

Potrebbe essere ragionevole seguire, allora, l'interpretazione sopra delineata: i procedimenti ancora in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione potranno riqualificarsi come procedimenti ex art. 211, commi 1-bis e ss.


[1] In particolare, il decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50, recante Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo, come modificato dalla legge di conversione, 21 giugno 2017, n. 96 (in G.U. n. 144 del 23 giugno 2017 – Suppl. Ord. n. 31; in vigore dal 24 giugno 2017) reca il seguente art. 52-ter. - (Modifiche al codice dei contratti pubblici). – 1. All’articolo 211 del codice di cui al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, dopo il comma 1 sono aggiunti i seguenti:

"1-bis. L’ANAC è legittimata ad agire in giudizio per l’impugnazione dei bandi, degli altri atti generali e dei provvedimenti relativi a contratti di rilevante impatto, emessi da qualsiasi stazione appaltante, qualora ritenga che essi violino le norme in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture.

1-ter. L’ANAC, se ritiene che una stazione appaltante abbia adottato un provvedimento viziato da gravi violazioni del presente codice, emette, entro sessanta giorni dalla notizia della violazione, un parere motivato nel quale indica specificamente i vizi di legittimità riscontrati. Il parere è trasmesso alla stazione appaltante; se la stazione appaltante non vi si conforma entro il termine assegnato dall’ANAC, comunque non superiore a sessanta giorni dalla trasmissione, l’ANAC può presentare ricorso, entro i successivi trenta giorni, innanzi al giudice amministrativo. Si applica l’articolo 120 del codice del processo amministrativo di cui all’allegato 1 annesso al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104.

1-quater. L’ANAC, con proprio regolamento, può individuare i casi o le tipologie di provvedimenti in relazione ai quali esercita i poteri di cui ai commi 1-bis e 1-ter".

 

[2] Si suggerisce pertanto la seguente formulazione alternativa, la prima più restrittiva e la seconda più generale (il comma 3 della seconda formulazione è puramente facoltativo):

1) “1. L'Anac è legittimata ad agire in giudizio contro i bandi, gli altri atti generali e i provvedimenti relativi a contratti di rilevante impatto, di qualsiasi stazione appaltante che violino le norme in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture.

2. L’Anac, se ritiene che un atto del comma 1 sia affetto da un vizio di legittimità emette, entro sessanta giorni, un parere motivato nel quale indica gli specifici profili della violazioni riscontrate. Se la stazione appaltante non si conforma nei sessanta giorni successivi alla comunicazione del parere l’Autorità può presentare ricorso, entro i successivi trenta giorni, innanzi al giudice amministrativo. Ai giudizi di cui al periodo precedente si applica l’articolo 120 del codice del processo amministrativo”.

2) “1. L'Anac è legittimata ad agire in giudizio contro i bandi, gli altri atti generali e i provvedimenti di qualsiasi stazione appaltante che violino le norme in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture.

2. L’Anac, se ritiene che un atto del comma 1 sia affetto da un vizio di legittimità emette, entro sessanta giorni, un parere motivato nel quale indica gli specifici profili della violazioni riscontrate. Se la stazione appaltante non si conforma nei sessanta giorni successivi alla comunicazione del parere l’Autorità può presentare ricorso, entro i successivi trenta giorni, innanzi al giudice amministrativo. Ai giudizi di cui al periodo precedente si applica l’articolo 120 del codice del processo amministrativo.

3. L’Anac con proprie linee guida può individuare i casi, o le tipologie di provvedimenti, di cui al comma 1 in relazione ai quali esercitare i poteri di cui al comma 2”.

[3] La legge porta, come rubrica, la “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, recante disposizioni urgenti per la crescita, l'equità e il consolidamento dei conti pubblici".

[4] Per un’aggiornata e completa rassegna delle principali questioni applicative, si rinvia a DIMITRIO G. e FILICE M., I poteri di competition advocacy dell'AGCM ex art. 21 bis, l. n. 287/1990, Giornale Dir. Amm., 2017, 2, 262; MATTARELLA B. G., I ricorsi dell'autorità antitrust al giudice amministrativo, Giornale Dir. Amm., 2016, 3, 291; M. CLARICH, I poteri di impugnativa dell'Agcm ai sensi del nuovo art. 21 bis della l. n. 287/1990, in Concorrenza e mercato, 2013, 868; R. GIOVAGNOLI, Atti amministrativi e tutela della concorrenza. Il potere di legittimazione a ricorrere dell'AGCM nell'art. 21-bis legge n. 287/1990, relazione al convegno tenutosi presso l'Università degli studi di Milano il 27 settembre 2012, 4.

[5] Per un’accurata analisi della nozione, si veda il saggio di M. D'ALBERTI, I poteri di advocacy delle autorità di concorrenza in prospettiva comparata, in Concorrenza e mercato, 2013, 871

[6] Nel periodo considerato, l'ANAC sembra avere adottato una sola raccomandazione vincolante. Non si conoscono altri dati riguardanti lo svolgimento di altri procedimenti di vigilanza e la loro eventuale archiviazione.

I lavori parlamentari non danno conto dello svolgimento di un'analisi mirata sulla concreta attività svolta dall'ANAC in applicazione dell'art. 211, comma 2 e del regolamento attuativo.

[7]1. L'Autorità garante della concorrenza e del mercato è legittimata ad agire in giudizio contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti ed i provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato.

2. L'Autorità garante della concorrenza e del mercato, se ritiene che una pubblica amministrazione abbia emanato un atto in violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato, emette entro sessanta giorni, un parere motivato, nel quale indica gli specifici profili delle violazioni riscontrate.

Se la pubblica amministrazione non si conforma nei sessanta giorni successivi alla comunicazione del parere, l'Autorità può presentare, tramite l'Avvocatura dello Stato, il ricorso, entro i successivi trenta giorni.

3. Ai giudizi instaurati ai sensi del comma 1 si applica la disciplina di cui al Libro IV, Titolo V, del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104.”

[8] Anche la disposizione che contiene la novella (il citato articolo 52-ter) adotta la tecnica deprecabile della rubrica muta, che indica, cripticamente, le "modifiche al codice dei contratti pubblici", senza nemmeno fare lo sforzo di indicare l'articolo oggetto di innovazione.

[9] La dottrina più attenta ha analizzato l’art. 21-bis anche nella prospettiva della tendenza recente dell’ordinamento processuale a introdurre elementi tipici della giurisdizione oggettiva. In questo senso, si rinvia CINTIOLI F., Osservazioni sul ricorso giurisdizionale dell’autorità garante della concorrenza e del mercato e sulla legittimazione a ricorrere delle autorità indipendenti, in Federalismi.it, pubblicato il 6 giugno 2012. L’Autore evidenzia le possibili connessioni con l’introduzione della azione di classe e dell’istituto delle sanzioni alternative di cui all’art. 123 del CPA.

Analoga prospettiva di studio propone SANDULLI M.A: Il problema della legittimazione ad agire in giudizio da parte delle autorità indipendenti.

POLITI R. Ricadute processuali a fronte dell’esercizio dei nuovi poteri rimessi all’agcm ex art. 21-bis della legge 287/1990. legittimazione al ricorso ed individuazione dell’interesse alla sollecitazione del sindacato.ovvero: prime riflessioni sul nuovo protagonismo processuale dell’autorità antitrust, tra il minosse di dante ed il giudice di De André, Federalismi.it; BELLESINI C.L’articolo 21 bis della legge n. 287 del 1990 e la legittimazione ad agire nel processo amministrativo della Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato; CLARICH, I poteri di impugnativa dell'agcm ai sensi del nuovo art. 21 bis della l. n. 287/1990.

Si veda anche l'accurato contributo di SIMONETTI H., L’art. 21 bis della Legge 287/1990 ed il potere di impugnazione dell’Agcm: è ancora il secolo della «giustizia nell’amministrazione»?, Giust.amm.it

 

[10] I dubbi della dottrina riferiti all'art. 21-bis sono numerosi.

Per la tesi favorevole all'ampliamento delle azioni esperibili si veda SIMONETTI, op. cit.: Se nell’individuazione e nella delimitazione del parametro normativo è auspicabile un’interpretazione restrittiva, quanto all’oggetto in senso stretto del ricorso giurisdizionale deve osservarsi come la legittimazione ex art. 21 bis non possa essere circoscritta alla sola impugnazione di atti e, quindi, alla sola e tradizionale azione di annullamento. La violazione delle regole della concorrenza e del mercato si nutre, infatti, tanto di “opere” quanto di “omissioni” (si è già fatto l’esempio della mancata modifica dei regolamenti comunali in materia di orari di apertura degli esercizi commerciali), il che rende necessaria una lettura interpretativa dell’art. 21 bis che consenta all’Autorità di proporre tutte le tipologie di azioni previste oggi dal Codice del processo, comprese quelle di accertamento (quanto meno, dell’obbligo di provvedere) e quella di adempimento (M.Clarich).