*Contributo estratto dal MANUALE DEI CONTRATTI PUBBLICI, di L. Carbone, F. Caringella, G. Rovelli, Dike Giuridica, 2024

Sommario: 1. Alla ricerca dell’apriscatole giuridico. - 2. Un sintagma misterioso: il contratto pubblico. - 3. Un cambio di paradigma: la concorrenza non è un valore, ma uno strumento al servizio del risultato amministrativo. - 4. Segue: Dalla concorrenza assoluta alla concorrenza regolata: 4.1 Discrezionalità nella decisione sul ricorso al mercato; 4.2 Discrezionalità nella scelta del contratto; 4.3 Discrezionalità nella scelta e nella gestione del modello di affidamento; 4.4 Discrezionalità in sede di autotutela. - 5. I temperamenti alla discrezionalità: 5.1 Il ruolo dei principi: criterio di orientamento e parametro di legittimità; 5.2 La certezza dei tempi; 5.3 Il sindacato giurisdizionale sulla discrezionalità; 5.4 Responsabilità e tutela dell’affidamento; 5.5 La trasparenza rende il potere amministrativo democratico. - 6. L’attenzione al diritto civile dei contratti pubblici. - 7. Il regime transitorio: il sottile distinguo tra vigore ed efficacia. - 8. Conclusioni.

1.  Alla ricerca dell’apriscatole giuridico

È nota la storiella raccontata nella prefazione all’“Introduzione all’analisi economica del diritto” di A. Mitchell Polinsky. Un chimico, un fisico e un economista naufragano su un’isola deserta, avendo in dotazione solo una scatola di fagioli per sfamarsi. Il chimico e il fisico, uomini del fare, si industriano per aprirla senza disperderne il prezioso contenuto. L’economista, uomo del pensiero, dichiara trionfale: “Assumiamo di avere un apriscatole”.

Non è una storia particolarmente divertente, ma fotografa il sogno di ogni giurista degno di questo nome: avere a disposizione un apriscatole giuridico, ossia una legge capace di risolvere i problemi della società e di placare le voglie dell’uomo.

È l’ansia della riforma risolutiva.

Il codice dei contratti messo a punto dalla coraggiosa squadra capitanata dall’eroico Presidente Luigi Carbone sarà in grado di migliorare la qualità e l’efficienza delle gare pubbliche per portare un contributo serio alla crescita del Paese?

Il nuovo codice cambierà in meglio la giornata dell’operatore alle prese con l’ordigno esplosivo dei contratti pubblici?

Sarà la legge non interpretabile di Voltaire?

Incarnerà il mito crociano della legislazione che produce spontanea e convinta obbedienza del cittadino?

Sempre improba l’“ars divinandi”, ma le premesse ci sono tutte per sottrarsi alle massima dell’inutilità delle riforme e allo spettro della fuga vero l’ignoto.

Dobbiamo, però, rilevare che il nuovo codice è uno strumento autoesecutivo e autosufficiente, un congegno autarchico, un giocattolo capace di lavorare da solo, grazie anche al valore interpretativo e operativo dei principi generali. Non ha bisogno di rinvii esterni, vista l’inclusione negli allegati delegificabili delle norme di esecuzione. Il nuovo codice è un codice, è uno, unico, caratterizzato da un filo rosso che unifica tutte le parti e tutte le norme, il risultato di un meccanismo normativo perfetto e autonomo: una novità clamorosa e sconvolgente per un Paese in cui, come insegna Flaiano nel suo meraviglioso Diario degli errori, il vero rivoluzionario è chi rispetta la legge.

2.  Un sintagma misterioso: il contratto pubblico

Il nuovo Codice dei contratti pubblici, approvato con il D.Lgs. 31 marzo 2023, n. 36, è una riforma storica, chiamata a dare forma e senso a una materia affascinante e misteriosa.

Lo stesso sintagma “contratto pubblico” è sfuggente ed enigmatico perché fonde il concetto privatistico per antonomasia (“contratto”), autoregolamento espressione di autonomia negoziale, territorio di libertà ed espressione di volontà individuale, se non di capriccio personale, e un aggettivo (“pubblico”), che evoca la negazione del diritto privato, la mannaia del public power unilaterale, la scure dell’imperatività, l’asimmetria, se non il privilegio (vedi Cap. 2, par. 1).

La disciplina dei contratti pubblici, oggi confluita nel Codice che sta emettendo i primi vagiti, contiene, per questo, al tempo stesso, regole di diritto pubblico e prescrizioni di diritto privato. È, infatti, quello dell’e-procurement, un settore di confine, sospeso e frastagliato, alla ricerca di una definita identità che si diverte a sfuggire alle mani e dileguarsi agli occhi di chi la cerca: al legislatore spetta, così, la ricerca del delicato equilibrio imposto dalla doppia capacità o personalità giuridica di una pubblica amministrazione che, quando seleziona il contraente e stipula il contratto, mescola potere e autonomia, funzione e libertà, interesse pubblico e causa privatistica.

A testimonianza di questa caratterizzazione mista e di siffatta essenza ancipite dei “contrats administratifs”, la doppia clausola di rinvio esterno di cui all’art. 12 del nuovo Codice richiama la L. 7 agosto 1990, n. 241 per la procedura amministrativa a monte e il Codice civile per la regolazione del rapporto contrattuale a valle. La teoria gianniniana della separazione tra gara e negozio viene così scolpita dal diritto positivo, diventando stella polare dell’interprete e dell’operatore.

L’importanza della missione ordinatrice assolta dal D.Lgs. 36/2023 – varato in tempi militareschi da una commissione speciale del Consiglio di Stato – è impreziosita dalla decisione di esplorare questo mondo complesso e sfaccettato con la lente di un paradigma del tutto innovativo. Lo ha chiarito, in modo lucido e incisivo, il Presidente Luigi Maruotti nel suo discorso di insediamento: il nuovo codice “ha inteso dare il segnale di un cambiamento profondo, per valorizzare lo spirito di iniziativa e la discrezionalità degli amministratori pubblici”.

È una rivoluzione copernicana.

3.  Un cambio di paradigma: la concorrenza non è un valore ma uno strumento al servizio del risultato amministrativo

A partire dalla direttiva del 26 luglio 1971, n. 71/305/CEE, il “diritto dei contratti pubblici è stato percepito, a tutti gli effetti, quale branca del diritto della concorrenza”, ispirata a principi unionali che impongono un’interpretazione estensiva e un’applicazione analogica dell’obbligo di ricorrere a procedure procompetitive e concorrenziali (c.d. “concorrenza imposta”, sulla base di regole minuziose che mettono sulle spalle delle stazioni appaltanti il fardello indigesto della garanzia coatta dell’effettiva competizione tra gli imprenditori di tutti gli Stati membri). La gara è stata così intesa, per più di cinquant’anni, alla stregua di una camicia di forza imposta agli enti pubblici a tutela del bene sacrale delle libertà transfrontaliere e del dogma assoluto del carattere competitivo del mercato. Negli scorsi anni il diritto dei contratti pubblici è stato, quindi, percepito, a tutti gli effetti, quale branca del diritto della concorrenza, ispirata a principi unionali che impongono un’interpretazione estensiva e un’applicazione analogica dell’obbligo di ricorrere a procedura pro-competitive e concorrenziali.

La riforma in atto cambia paradigma sul piano politico, ideologico, persino filosofico. E lo fa in modo netto, senza timidezze, alieno dai giochi di parole.

La centralità plastica del principio di risultato di cui all’art. 1 dimostra, infatti, che il diritto dei contratti pubblici non è più un settore del diritto comunitario della concorrenza (c.d. “concorrenza imposta” agli agenti pubblici, naturaliter refrattari alla logiche della competizione e alla pressione del mercato), ma un capitolo fondamentale del diritto amministrativo nazionale. La concorrenza non è, quindi, valore, fine o bene, ma mezzo per perseguire lo scopo del soddisfacimento dell’interesse pubblico attraverso contratti utili e produttivi. Il diritto dei contratti pubblici regola, quindi, un’azione schiettamente amministrativa di cura concreta dell’interesse pubblico. La procedura costituisce strada per l’obiettivo del benessere sociale, veicolo della felicità individuale, mezzo per le utilità collettive. L’obiettivo non è la gara, ma la stipulazione di un negozioproduttivo e utile, che assicuri prestazioni utili con il miglior rapporto qualità-prezzo-tempo, in omaggio al teorema di Coase sull’efficiente allocazione delle risorse in base alla relazione prezzo/valore.

Smaltita anche la sbornia della stagione penalistica post “Mani Pulite”, la concorrenza è, allora, esigenza da contemperare, metodo da calibrare, non fede da celebrare, rito da mitizzare, valore assoluto e intransigente da consacrare.

Il diritto degli appalti, in definitiva, non è più diritto comunitario, ma parte del diritto amministrativo, e non deve essere più un settore del diritto penale nella logica anti-corruttiva.

 

La concorrenza non serve alla concorrenza, esattamente come la gara non è funzionale alla gara (F. Cintioli, Per qualche gara in più).

Si tratta di strumento, pur se prezioso, per il perseguimento di obiettivi efficienti in termini di amministrazione di risultato.

Ed è un bene, perché la concorrenza funziona meglio se ha uno scopo da perseguire e un obiettivo da vivificare.

L’effetto virtuoso è quello di tutelare al massimo la concorrenza come strumento il cui fine è ottenere contratti aggiudicati ed eseguiti in funzione dell’interesse della collettività.

In questa prospettiva, concorrenza e trasparenza non costituiscono più finalità e valori in sé, ma strumenti al servizio del risultato. Da un lato, “la concorrenza tra gli operatori è funzionale a conseguire il miglior risultato possibile nell’affidare ad eseguire i contratti”; dall’altro, “la trasparenza è funzionale alla massima semplicità e celerità nella corretta applicazione delle regole e ne assicura la piena verificabilità”. Ma l’art. 1 del codice racconta ancora di più: collega (correttamente) il risultato al buon andamento di cui all’art. 97 della Costituzione – un ancoraggio che in verità c’era già nella legge Merloni e che poi era stato perso nei due codici – e ai principi di riforma amministrativa affermati sin dall’inizio degli anni ’90 nel senso dell’efficienza e dell’economicità.

 

La produzione di effettivi benefici per la comunità, allora, dipenderà dalla capacità di calare nel concreto tale enunciazione sul piano sia dell’azione sia dell’organizzazione amministrativa. Particolarmente significativa in questa prospettiva è la disposizione contenuta nel comma 4 dell’art. 1, dove si afferma che il risultato costituisce “criterio prioritario per l’esercizio del potere discrezionale e per l’individuazione della regola del caso concreto”.

La formula “criterio prioritario” indica bene l’esistenza di una gerarchia degli interessi protetti. A sua volta, il riferimento alla discrezionalità può finalmente diventare concreto. In passato, infatti, in un contesto in cui l’interesse prioritario era quello della tutela della legalità e della prevenzione della corruzione, la discrezionalità, anche se formalmente proclamata, fatalmente si paralizzava. Le amministrazioni, infatti, erano indotte a non discostarsi dalla stretta osservanza della procedura maggiormente formalizzata che le avrebbe condotte a un’aggiudicazione quanto più possibile automatica. Se, invece, oggi l’obiettivo è quello del risultato finale, le amministrazioni saranno obbligate a individuare caso per caso il modus procedendi migliore che non necessariamente coincide con lo svolgimento di una gara pubblica e con l’esclusione di tutti i partecipanti che presentino vizi anche meramente formali.

Coerente con questa mutata prospettiva è la formula di derivazione anglosassone relativa all’individuazione della regola del caso concreto. L’amministrazione contraente non vive più in una camicia di forza regolamentare, ma può scegliere una molteplicità di modelli procedurali e normativi con un’ampia facoltà di selezionare la regola alla quale auto-vincolarsi. La regola alla quale l’amministrazione decide di auto-vincolarsi (purché ovviamente l’esito non sia paradossale o irragionevole o abusivo), inoltre, assurge a parametro di verifica cui si devono attenere sia le autorità di controllo sia gli organi di tutela giurisdizionale, che non possono poi pescare un diverso riferimento normativo per squalificare la scelta e la condotta dell’amministrazione. Questo mutamento di prospettiva costituirà una sfida fondamentale anche per l’Avvocatura dello Stato quando difenderà in giudizio le stazioni appaltanti, perché dovrà essere in grado di spiegare la razionalità innanzitutto economica della scelta della regola da parte dell’amministrazione.

Infine, il principio del risultato costituisce parametro per valutare la responsabilità del personale e per attribuire incentivi e premi. Ciò trova riscontro nella disciplina relativa al responsabile unico del progetto, dove si prescrive, da un lato, che la sua individuazione deve essere effettuata sulla base delle competenze professionali e, dall’altro, che la sua azione deve essere orientata ad assicurare il completamento dell’intervento pubblico nei termini previsti e nel rispetto degli obiettivi (art. 15). A tal fine, il responsabile è chiamato a svolgere una serie di attività puntualmente indicate. A queste si aggiungono “quelle comunque necessarie ove non di competenza di altri organi”. Si afferma così l’esistenza di poteri e doveri impliciti del responsabile unico del procedimento.  Il principio del risultato, quindi, si collega a quello della fiducia sancito nell’art. 2 (v. Cap. 3, par. 2 e 3). Infatti, soltanto valorizzando l’iniziativa e l’autonomia decisionale dei funzionari pubblici, è possibile garantire l’acquisizione e l’esecuzione delle prestazioni secondo il principio del risultato. Il principio della fiducia, poi, trova coerente svolgimento nella ridefinizione della portata della colpa grave e nella previsione di modalità di copertura assicurativa dei rischi.

 

Le novità assiologiche e teleologiche esposte sono valorizzate dalla prima giurisprudenza applicativa (Tar Catania, sez. III, 12 dicembre 2023, n. 3738; TAR Campania, sez. I, 13 gennaio 2024, n. 377; TAR Bolzano 316/2023; Cons. Stato, sez. V, 7870/2023), la quale ha rilevato che principio del risultato, codificato dal D.Lgs. 36/2023, costituisce “criterio prioritario per l’esercizio del potere discrezionale” e comporta che l’amministrazione debba tendere al miglior risultato possibile, in “difesa” dell’interesse pubblico per il quale viene prevista una procedura di affidamento; tale obiettivo viene raggiunto anche selezionando operatori che dimostrino, fin dalle prime fasi della gara, diligenza e professionalità, quali “sintomi” di una affidabilità che su di essi dovrà esser riposta al momento in cui, una volta aggiudicatari, eseguiranno il servizio oggetto di affidamento.

In via strettamente collegata, la stessa giurisprudenza rileva che il principio della fiducia, codificato dal D.Lgs. 36/2023, è finalizzato a valorizzare l’autonomia decisionale dei funzionari pubblici e comporta che ogni stazione appaltante sia tenuta a svolgere le gare non solo rispettando la legalità formale, ma tenendo sempre presente che ogni gara è funzionale a realizzare un’opera pubblica (o ad acquisire servizi e forniture) nel modo più rispondente agli interessi della collettività; è un principio che amplia i poteri valutativi e la discrezionalità della p.a. ma che non può tradursi nella legittimazione di scelte discrezionali che tradiscono l’interesse pubblico sotteso ad una gara, le quali, invece, dovrebbero in ogni caso tendere al suo miglior soddisfacimento. Non si tratta, peraltro, di una fiducia unilaterale o incondizionata; la disposizione precisa, infatti, che la fiducia è reciproca e investe, quindi, anche gli operatori economici che partecipano alle gare. È legata a doppio filo a legalità, trasparenza e correttezza, rappresentando, sotto questo profilo, una versione evoluta del principio di presunzione di legittimità dell’azione amministrativa.

4.  Segue: Dalla concorrenza assoluta alla concorrenza regolata

Il principio del risultato, quale direttiva regolatrice e parametro di legittimità dell’azione amministrativa segna, allora, il passaggio dalla concorrenza assoluta alla concorrenza regolata.

Nel rispetto dei vincoli di legge, spettano, infatti, alla discrezionalità amministrativa la graduazione e il dosaggio della competizione in modo da renderla funzionale e proporzionata alle esigenze da soddisfare. Tramontata l’epoca dell’iper-regolamentazione e dell’ostracismo per le scelte, torna a campeggiare il primato della decisione amministrativa, chiamata a utilizzare la leva del mercato in una delicata azione di balancing focalizzata sulla specialità infungibile del caso concreto.

Un atto di stima, se non una dichiarazione d’amore, per la capacità amministrativa di produrre norme concrete ed efficaci attraverso l’uso appropriato del potere di ponderazione.

Grazie alla semplificazione delle fonti – tradizionale fattore di disorientamento per i funzionari pubblici –, si mette al centro del palcoscenico la capacità d’iniziativa della pubblica amministrazione in modo da contrastare il paralizzante fenomeno della burocrazia difensiva. Nel rinnovato quadro che vede il responsabile del progetto quale responsabile del ciclo di vita del contratto – affiancato da possibili responsabili di fase –, la paura della firma, causa del flagello della burocrazia difensiva, viene coerentemente fronteggiata dall’esplicita esclusione di profili di responsabilità per colpa grave in caso di violazione od omissione determinata dal riferimento ai prevalenti indirizzi interpretativi della giurisprudenza o delle autorità competenti (art. 2, comma 3). Aleggia, forte, la voglia di fugare il timore di Bobbio: il vero potere dell’amministrazione non è quello di decidere, ma quello di non decidere.

 

Al centro del nuovo progetto si staglia, allora, la discrezionalità amministrativa, nelle sue molteplici angolazioni.

Proviamo ad esplorarne tre.

4.1  Discrezionalità nella decisione sul ricorso al mercato

La prima è la discrezionalità nel decidere se rivolgersi al mercato.

Sappiamo che le norme europee sui contratti pubblici, infatti, disciplinano, ma non impongono il ricorso al mercato.

L’art. 7 del codice non solo chiarisce, in questo quadro, che l’autoproduzione è una legittima alternativa alle procedure di outsourcing (Corte cost. 100/2020; Corte Giust, IX, 6 febbraio 2020, cause riunite da c89/19 a 91/2019; Cons. Stato, sez. V, 843/2024; Cons. Stato, sez. V, 243/2024; Cass., Sez. Un., 576/2024), ma, in chiave innovativa rispetto al previgente testo di legge e all’art. 17 del D.Lgs. 201/2022 sui servizi pubblici locali, prevede che l’in house providing non è un’eccezione blasfema da sottoporre a regimi autorizzarti e regimi limitativi, ma via ordinariamente percorribile ove giustificata da un discrezionale apprezzamento dei bisogni e delle opportunità.

In questa prospettiva estensiva, può essere utile ricordare il recente e pregnante insegnamento della Corte di Giustizia secondo cui i requisiti dell’affidamento in house devono sussistere non solo via genetica, ma anche in chiave funzionale in quanto il valore della concorrenza osta a che la gestione di un servizio pubblico possa proseguire da parte di un operatore non più sottoposto a controllo analogo ex art. 12 della direttiva 24/2014 (Corte Giust., IV, 12 maggio 2022, C-719/20). In definitiva, la direttiva 24/2014 osta a che l’esecuzione di un appalto pubblico che sia stato oggetto di affidamento in house, prosegua, senza indizione di gara, qualora l’amministrazione aggiudicatrice (a seguito della vendita con gara della partecipata) non possieda più alcune partecipazione, neppure indiretta, nell’ente affidatario e non disponga più di alcun controllo su quest’ultimo; e tanto in base a un’interpretazione restrittiva e pro concorrenziale dei requisiti dell’affidamento diretto secondo cui l’acquisizione privata della società pubblica durante l’appalto integra il cambiamento di una condizione fondamentale del contratto che impedisce l’assimilazione del nuovo ente affidatario ai servizi interni dell’amministrazione aggiudicatrice.

Secondo un recente approdo dei magistrati di palazzo Spada (Cons. Stato, sez. IV, 20 novembre 2023, n. 9933), peraltro, il fatto che, successivamente a un’operazione di aggregazione, l’ente comunale che abbia venduto le proprie azioni della società originaria in house non abbia successivamente acquisito le azioni della nuova società aggregatrice, non è elemento idoneo a far venir meno i presupposti per la prosecuzione del servizio (senza soluzione di continuità) da parte dell’operatore economico individuato con gara a doppio oggetto a seguito dell’operazione medesima, atteso che al momento della individuazione della nuova società come soggetto aggregatore l’ente comunale faceva ancora parte della compagine societaria della precedente società in house (e quindi partecipava delle relative decisioni gestionali e organizzative), mentre al momento della dismissione del pacchetto azionario da parte dell’ente comunale, quest’ultimo aveva già perduto la competenza in ordine alla gestione del servizio, che è stata attribuita alla provincia.

Più in generale, sulla scorta della previsione del dettato dell’art. 16, comma 2, del D.Lgs. 201/2022, pur relativa a spa mista, è evidente che laddove il nuovo socio della società ex in house venga selezionato con gara a doppio oggetto, non viene in rilievo l’ingiustificata procrastinazione di un privilegio diventato anti-competitivo, ma una trasformazione-novazione dell’affidamento che, pur a fronte della permanenza di un medesimo soggetto, cambia da affidamento in house a esternalizzazione in favore di soggetto scelto con gara; ne deriva, quindi, il carattere virtuoso e pro-concorrenziale del cambiamento.

4.2  Discrezionalità nella scelta del contratto

È nota la lezione gianniana secondo cui il sintagma “contratto pubblico” è un ossimoro apparente (v. Cap. 2, par. 1). Trattati, infatti, di un’anomalia solo nominalistica che va sciolta sulla base della teoria della doppia capacità (art. 11 c.c.) dei public bodies, da cui si ricava che la P.A., oltre che autorità pubblica munita della clava del potere, è anche soggetto di diritto comune, titolare di una generale capacità privatistica (“L’attività privatistica ha carattere istituzionale”, osserva sempre Giannini).

L’art. 8 del nuovo codice (Principio di autonomia contrattuale) ribadisce, allora, in modo netto e meritorio, che i “public bodies” sono dotati di una diffusa autonomia negoziale che non è sottoposta a generali limiti quantitativi o tipologici, ma solo, oltre che a norme speciali limitative (cd “riduttive della capacità”) ex art. 1418, comma 1, c.c., al limite teleologico del “vincolo di scopo” (“nec ultra vires”). Sono, quindi, praticabili, sulla scorta di un’ampia valutazione discrezionalità comparativa, in assenza di divieti specifici (come per i contrati di società ex art. 4 del T.U. 175/2016 e per i derivati finanziari ex lege 147/2013), tutti i contratti – anche liberali, gratuiti, atipici e misti – che, in concreto, siano sorretti da una causa concreta compatibile con gli scopi istituzionali, comprese donazioni, fideiussioni, sponsorizzazioni con clausole di tesoreria, advising, brokeraggio, acquisto di cosa futura, contratti in favore di terzi e aleatori. In via innovativa rispetto alla giurisprudenza del Consiglio di Stato, i contratti gratuiti sono peraltro considerati diversi dagli appalti e, quindi, esclusi dall’ambito di applicazione del codice per essere soggetti solo ai relativi principi. Di qui l’avvento dell’art. 1322, comma 2, c.c., con il conseguente sindacato di meritevolezza delineato da Cass., Sez. Un., 5657/2023.

 

La riforma ci regala, allora, un’amministrazione munita di una generale autonomia negoziale che le consente di affiancare all’attività privata, diretta alla cura dei propri interessi nel disimpegno di attività di ordine interno (cosiddetta attività strumentale per il funzionamento degli uffici pubblici), anche l’attività in forma privata, ossia un’attività funzionale al perseguimento dell’interesse pubblico e alla cura dell’interesse collettivo; il singolo contratto è, ex se, atto di diritto privato, ma l’attività contrattuale nel suo complesso è attività amministrativa, ossia esercizio di funzione pubblica in quanto soggetta a vincolo di scopo (c.d. attività di diritto privato equivalente, da distinguere da quella di diritto privato istituzionale che caratterizza i soggetti pubblici che agiscono essenzialmente con strumenti di diritto comune, come nel caso degli enti pubblici economici e delle società pubbliche).

La meritoria e coraggiosa enunciazione del principio di autonomia contrattuale, ex art. 8 cit., precisa, in definitiva, che la funzionalità dell’attività contrattuale non si traduce certo nella tipicità e nominatività dei modelli e dei contenuti, ma nel vincolo teleologico di coerenza della scelta con i fini istituzionalmente fissati e, quindi, nella ragionevolezza della scelta discrezionale del decisore pubblico.

4.3  Discrezionalità nella scelta e nella gestione del modello di affidamento

L’essenza della nuova impostazione si manifesta, poi, nella latitudine della crescente discrezionalità che, in pieno ossequio al divieto di gold plating e in un quadro di eliminazione di vincoli puntuali non imposti dalla normativa europea, si annida nella “decisione” (termine ex art. 17, comma 1, assai evocativo, che sostituisce la vecchia “determinazione” a contrare) in ordine al contenuto del contratto e al modello procedurale (v. le scelte discrezionali relative ai vincoli di aggiudicazione e partecipazione ex art. 54; Cons. Stato, sez. V, 8127/2023). Spicca, poi, una tendenza alla semplificazione, testimoniata, per un verso, dal potenziamento degli affidamenti diretti del tutto deproceduralizzati per gli appalti sotto-soglia (non a caso non considerati più vere “procedure” ex art. 70) e dalla manifestazione del favor verso procedure “chiavi in mano” come l’accresciuto appalto integrato (art. 44) e il resuscitato “general contractor” (art. 204). Si seguono, invece, le regole ordinarie ove la procedura presenti un interesse transfrontaliero certo (artt. 48-50).

La deproceduralizzazione accentua la discrezionalità amministrativa non solo sotto il profilo dell’elasticità del modulo di scelta, ma anche in ragione della pacifica possibilità, nella logica dell’autovincolo, di ricorrere a facoltative procedure formali e dettagliate (v. Circolare del Ministero delle infrastrutture 20 novembre 2023, n. 298).

4.4  Discrezionalità in sede di autotutela

Permane anche la discrezionalità amministrativa in sede di autotutela nelle fattispecie (atecnicamente definite “risoluzioni”) di cui all’art. 122, comma 1, costituenti, al pari dell’attuale art. 108, vere ipotesi di annullamento dell’aggiudicazione per vizi gravi della procedura (lett. c), d)) o a seguito di modifiche non autorizzate, a seguito di trattativa privata, dell’oggetto originario del negozio (v. Cap. 14, par. 4.1).

5.  I temperamenti alla discrezionalità

La discrezionalità illimitata è, tuttavia, arbitrio e potenziale sopruso. Pertanto, la creazione degli spazi astratti concessi alla riserva amministrativa implica, fatalmente, limiti e compensazioni volti a garantire il virtuoso utilizzo della libertà d’azione.

5.1  Il ruolo dei principi: criterio di orientamento e parametro di legittimità

Primo limite è il rispetto dei principi generali, che, lungi dall’atteggiarsi a declamazione teorica, fungeranno da criterio decisivo di orientamento della decisione amministrativa e parametro di valutazione della sua legittimità sul piano dell’eccesso di potere.

5.2  La certezza dei tempi

Il primo temperamento è la certezza dei tempi dell’azione amministrativa.

La procedura amministrativa è discrezionale nell’ an e nel quomodo, ma non nel quando: assunto coerente con l’acquisita consapevolezza della centralità del tempo nella vita degli istituti giuridici come nella vita delle persone.

Il tempo non solo è un bene della vita, ma è l’unico bene della vita, peraltro disperatamente insufficiente a fronte della nostra voglia di eternità e del nostro anelito verso la divinità.

In questo quadro si iscrive la previsione di un termine puntuale per la definizione della procedura di gara (art. 17, comma 3, di rinvio all’allegato 1.3), assistito dagli effetti della formazione del silenzio-inadempimento (o rifiuto) e della responsabilità per danno da ritardo.

È, poi, confermato, ex art. 18 (comma 2), il termine di sessanta giorni per la stipula del contratto, decorrente dall’efficacia dell’aggiudicazione, la cui violazione rende attivabile il rito del silenzio-rifiuto (art. 18, comma 5). Quest’ultima previsione conferma la lettura forte della dicotomia procedimento amministrativo-negoziazione, cristallizando, a livello positivo, la pregressa riflessione pretoria secondo cui non solo va escluso che l’aggiudicazione sia contratto (bilaterale, claudicante o patto di opzione o “pactum de contrahendo”), ma anche che essa dia luogo ex lege a un vincolo bilaterale, o anche solo unilaterale, alla futura stipulazione; il ritardo e il rifiuto ingiustificati di stipulare nei tempi legali sono allora illeciti omissivi contrastabili con l’azione avverso il silenzio con cui il privato fa valere il suo interesse pretensivo ottenere una risposta che è discrezionale nel quid ma vincolata nell’an (Tar Lazio 12400/2015).

5.3  Il sindacato giurisdizionale sulla discrezionalità

In prima battuta, emerge l’esigenza di un controllo rigoroso, in sede giurisdizionale, sulla discrezionalità amministrativa con il grimaldello dell’eccesso di potere forgiato dalla qualificazione del “principio di risultato del potere” come tegola di legittimità.

È, poi, pregnante, con riguardo a procedure connotate da significativi margini di esercizio della discrezionalità tecnica, la necessità di un controllo intrinseco sulla discrezionalità tecnica esercitato con l’uso pregnante di regole tecniche, e non di parametri schiettamente giuridici.

Si ricordi di recente la recente decisione (Cons. Stato, sez. VI, 5 dicembre 2022, n. 10624), secondo cui, a differenza delle scelte politico-amministrative (c.d. «discrezionalità amministrativa») ‒ dove il sindacato giurisdizionale è incentrato sulla “ragionevole” ponderazione degli interessi, pubblici e privati, non previamente selezionati e graduati dalle norme ‒ le valutazioni dei fatti complessi richiedenti particolari competenze (c.d. «discrezionalità tecnica») vanno vagliate al lume del diverso e più severo parametro dell’“attendibilità” tecnico-scientifica; è, quindi, ben possibile per l’interessato ‒ oltre che far valere il rispetto delle garanzie formali e procedimentali strumentali alla tutela della propria posizione giuridica e gli indici sintomatici di eccesso di potere ‒ contestare ab intrinseco il nucleo dell’apprezzamento complesso, ma in tal caso egli ha l’onere di metterne seriamente in discussione l’attendibilità tecnico-scientifica. Se questo onere non viene assolto e si fronteggiano soltanto opinioni divergenti, tutte parimenti plausibili, il giudice deve dare prevalenza alla posizione espressa dall’organo istituzionalmente investito (dalle fonti del diritto e, quindi, nelle forme democratiche) della competenza ad adottare decisione collettive, rispetto alla prospettazione individuale dell’interessato.

È da segnalare, con favore, il superamento delle incertezze innescate dal problematico coordinamento tra termine di accesso e termine di ricorso (vedi i contrasti a seguito di Ad. Plen. 12/2020), grazie al collegamento netto e univoco del dies a quo per il computo del termine di ricordo dalla ricezione della comunicazione di cui all’art. 90, dalla messa a disposizione degli atti o, in caso di mancata pubblicità, dalla pubblicazione dell’avviso di aggiudicazione o della determinazione di procedere all’affidamento in house (art. 209, comma 2, modificativo dell’art. 120 c.p.a.).

5.4  Responsabilità e tutela dell’affidamento

Particolarmente incisiva è, poi, l’affermazione della responsabilità della stazione appaltante non solo per l’illegittimità degli atti, ma anche per la non tempestività delle procedure (arg. ex art. 17 cit, ove si prevede un termine sollecitatorio sanzionato con il silenzio-inadempimento) e per la violazione dei canoni di correttezza delle condotte sul piano della buona fede e dell’affidamento (art. 5), ove si riconosce la giurisdizione amministrativa sulla responsabilità precontrattuale (v. Cons. Stato, sez. V, 9298 e 8273/2023), superando la tesi della Cassazione in tema di giurisdizione ordinaria sul danno da comportamento lesivo dell’affidamento (v. combinato disposto dell’art. 5, comma 4, del D.Lgs. 36/2023 e dell’art. 124, comma 1, del modificato c.p.a.: v. Cap. 3, par. 5).

5.5  La trasparenza rende il potere amministrativo democratico

Il potere amministrativo è autoritario per il solo fatto di essere invisibile.”

Le graffianti parole di Norberto Bobbio ci insegnano che nel mistero si annida la sopraffazione, mentre il bacino di coltura della democrazia è la casa di vetro cara a Mario Nigro, padre spirituale della L. 241/1990.

Il moderno rapporto amministrativo, plasmato dallo “jus comune europaeum” non più alla stregua di soggezione unilaterale dominata “a latere principis”, ma come autentica relazione calibrata “a latere civis”, impone, infatti, la soggezione dell’agire pubblicistico a canoni di pubblicità che consentano al singolo di elevarsi dalla condizione di suddito e di acquistare lo “status” di cittadino.

La piena informazione sulle dinamiche del potere e sulle variabili dell’azione pubblica assurge, quindi, a elemento costitutivo del moderno Stato di diritto, che investe le nozione e la funzione del diritto amministrativo: non più strumento dispotico usato dal potere per annichilire i diritti dei singoli, ma veicolo illuministico adoperato dal potere per soddisfare i diritti e nutrire le libertà.

Non il potere contro i diritti, ma i diritti serviti dal potere, direbbe Romagnosi.

La piena consapevolezza dell’individuo in merito allo svolgersi dell’azione del “pubblic power” si atteggia, in questo contesto, a veicolo per ribaltare la visione gerarchica che mette l’interesse pubblico in una condizione di estraneità e superiorità rispetto all’interesse privato, per assecondare uva concezione moderna che postula la compenetrazione dell’uno nell’altro come interessi dotati di pari dignità e impreziositi dello stesso valore.

Il cittadino informato può allora dialogare in termini effettivi con l’autorità, vincendo l’amara visione di Carlo Rosselli secondo cui nei confronti del potere l’italiano medio mostra, alternativamente ma con uguale sterilità, “la rassegnazione della pecora o la ribellione dell’anarchico”.

Conoscenza vuol dire consapevolezza, democrazia, dinamismo, capacità di controllo e atteggiamento critico volto a verificare il corretto esercizio della delega da parte del titolare reale della sovranità.

In questo quadro, ben si comprende la portata delle innovazioni, di matrice unionale, recepite del nuovo codice dei contratti pubblici, che hanno trasformato l’accesso ai documenti amministrativi e alle informazioni dei “public bodies” da istanza conoscitiva del titolare di un interesse egoistico a empito collaborativo del cittadino ansioso di collaborare, nella qualità di cittadino, alla gestione dell’interesse collettivo.

L’accento posto dal codice in gestazione su trasparenza, motivazione e informatica, consente di segnare una tappa saliente nel processo faticoso volto trasformare la pubblica amministrazione da luogo oscuro in casa di vetro e il potere amministrativo da meccanismo segreto in funzione conoscibile, controllabile e trasparente. Si può anche dire che si tratta di una tappa importante in direzione della democrazia, alla luce della citata lezione di Bobbio secondo cui la trasparenza distingue gli ordinamenti democratici da quelli autoritari, nei quali il segreto è la regola, la conoscibilità, l’eccezione. Un potere invisibile, si è già detto, è il contrario della democrazia, un potere trasparente è solo per questo democratico. Un’attività amministrativa ispirata ai principi di partecipazione, motivazione, accessibilità e condivisione è espressione di un potere amministrativo vicino al cittadino, come tale democraticamente legittimo e legittimato.

6.  L’attenzione al diritto civile dei contratti pubblici

Altro merito indiscusso del nuovo Codice è l’attenzione inevitabile al diritto civile dei contratti pubblici, in ossequio a una lettura innovativa che mette al centro non il procedimento “ex se”, ma il ciclo di vita complessivo del contratto.

È qui possibile un cenno a due profili.

Il primo è la consacrazione legislativa del principio citato di autonomia negoziale (art. 8; v. par. 4.2). È, da tempo, acquisito che la P.A. gode di un’autonomia negoziale di carattere generale. I contratti pubblici sono, infatti, un capitolo quotidiano e fondamentale dell’azione amministrativa, che rappresenta una voce essenziale della spesa pubblica (oltre il 15% del prodotto interno lordo) e, quindi, una strada primaria verso l’uscita dal tunnel della crisi. Per dirla, ancora, con Giannini, “l’attività di diritto privato della P.A. ha carattere istituzionale”. Il ricorso a meccanismi consensuali in luogo di quelli imperativi è, d’altronde, coerente con le raffinate teorie economiche che postulano il primato delle soluzioni negoziali in tutti i casi in cui non vi siano elevati costi di transazione (teorema di Coase). Va, quindi, salutato con favore il ricordato riconoscimento della legittimazione dei public bodies alla stipula di ogni contratto – attivo e passivo, gratuito e oneroso, liberale e egoistico, tipico e atipico – idoneo in concreto a soddisfare l’interesse pubblico in modo efficiente e proporzionato (secondo i parametri civilistici della causa concreta e del controllo di razionalità dell’atto di autonomia negoziale: Cass., Sez. Un., 23 febbraio 2023, n. 5657). Evidente è l’eco del canto ammaliante sprigionato dalle sirene del principio di autonomia contrattuale ex art. 1322, comma 2, del Codice civile e dalla teoria della doppia capacità dell’ente pubblico ex art. 11 del Codice civile (v. sul tema, il Cap. 2, par. 2.1).

Il secondo elemento privatistico di interesse è l’affermazione del principio di conservazione dell’equilibrio contrattuale (art. 9), da cui si ricava il diritto alla rinegoziazione azionabile da parte del soggetto colpito dalla scure di sopravvenienze perturbatrici esogene al ciclo economico fisiologico della “scommessa” contrattuale (v., sul tema., Cons. Stato, sez. VII, 7200/2023). Affascinanti gli scenari misteriosi innescati da una previsione che profuma di modernità, con particolare riferimento alla mappa dei rimedi, all’enucleazione del riparto di giurisdizione (se si tratta di un diritto soggettivo partorito dall’integrazione reciproca, ex bona fide, del programma contrattuale, dovrebbe prefigurarsi la giurisdizione civile) e alla praticabilità di interventi giudiziari correttivi caratterizzati da un taglio ortopedico e da una metodica surrogatoria che conduce a una sentenza di carattere costitutivo ex art. 2932 c.c. (ove il contratto, alla luce dei canoni ermeneutici di cui al codice civile, preveda già i criteri di ripartizione del rischio e i canoni per il relativo riequilibrio, in guisa da legittimare una correzione giudiziale non esterna, ma interna al contratto, ossia un’operazione strettamente interpretativo-integrativa scaturente da un obbligo de contrahendo). V., sul punto, Cap. 3, par. 9.

7.  Il regime transitorio: il sottile distinguo tra vigore ed efficacia

In base all’art. 229, le disposizioni del nuovo codice hanno acquistato efficacia (e quelle del vecchio codice sono state abrogate) dal 1° luglio 2023, ad eccezione di quelle relative a trasparenza, digitalizzazione e verifica dei requisiti, posticipate al primo gennaio 2024. Nelle more le gare indette e le procedure avviate hanno seguito la disciplina di cui al D.Lgs. 50/2016.

Tuttavia, le nuove regole sono entrate in vigore subito, anche se posticipate nella loro concreta attuazione.

Questa distinzione tra efficacia e vigore – tra operatività sostanziale e vigenza formale – non è, quindi, un giochino di prestigio per alchimisti o un tributo inevitabile ai vincoli europei collegati al PNRRR. L’immediata entrata in vigore sancisce, in effetti, una scissione tra vincolatività ed efficacia, conosciuta dal diritto privato per i contratti stipulati ma non ancora impegnativi per via della soggezione a un termine o a una condizione sospensiva; e dal diritto europeo con riferimento alle direttive non recepite o non auto-esecutive, prive di efficacia piena (specie, sul piano orizzontale), ma caratterizzate da una pur limitata cogenza.

Sono norme inefficaci, non inesistenti.

Sono misure vincolanti, anche se non pienamente obbligatorie.

Sono statuizioni precettive, anche se non impegnative.

Producono quei limitati, ma non poco significativi, effetti precettivi e costitutivi dati dall’imposizione di un obbligo di interpretazione conforme, dal valore immediato delle nuove norme ove ricognitive di principi anteriori, dall’integrazione di un parametro di indirizzo della discrezionalità amministrativa (e tecnica) e dalla necessità di attività preparatorie, organizzative e strumentali alle future azioni schiettamente applicative.

8.  Conclusioni

Potremmo a questo punto mettere l’accento sugli altri e numerosi venti di novità che spirano da un codice che ha il pregio dell’unità e dell’organicità: la centralità dei valori etico-giuridici della fiducia e della buona fede, l’avvento delle procedure virtuali, la sfida della qualificazione delle stazioni appaltanti, la reviviscenza dell’appalto integrato e del general contractor, l’azione di rivalsa della stazione appaltante nei confronti dell’aggiudicatario colpevole, la compiuta contrattualizzazione delle concessioni, la flessibilizzazione degli appalti sotto-soglia, la formale “deproceduralizzazione” degli affidamenti diretti e la rimodulazione dei controlli sui requisiti soggettivi degli operatori economici. Preferiamo, tuttavia, asserragliarci nel saggio e misterioso riserbo che deve caratterizzare ogni premessa che si rispetti. Meglio non togliere al famelico lettore il gusto delle sorprese che troverà nelle analisi acute e approfondite che gli autori hanno dedicato agli snodi salienti della riforma. Desidero, invece, ringraziare, insieme ai due meravigliosi compagni di viaggio con cui ho diviso il privilegio del coordinamento, tutti gli amici che, con un approccio capace di coniugare rigore scientifico e investigazione operativa, hanno colto, con lucidità e profondità, la portata e il significato di una sistemazione normativa così ambiziosa.

Nella premessa al suo meraviglioso “Il nuovo codice dei contratti pubblici prima e dopo la riforma” (Dike Giuridica, 2023), Marco Giustiniani ha rinvenuto nel Codice e nei suoi principi la plastica attuazione delle tre regole di lavoro di Albert Einstein: “1) Esci dalla confusione, trova semplicità; 2) Dalla discordia, trova armonia; 3) Nel pieno delle difficoltà risiede l’occasione favorevole”.

Ci permettiamo di aggiungere una quarta regola, tratta dal pensiero incendiario di don Tonino Bello: “Per cambiare il mondo, bisogna rivoluzionarlo all’insegna del bene e del bello”. Ebbene, questo Codice rivoluziona il mondo dei public contracts e a noi piace condividere con i nostri affezionati lettori il fascino impalpabile e seducente delle corse verso nuove frontiere.

*Contributo estratto dal MANUALE DEI CONTRATTI PUBBLICI, di L. Carbone, F. Caringella, G. Rovelli, Dike Giuridica, 2024