Cons. Stato, Adunanza plenaria, 5 agosto 2022, n. 9

L’art. 1, comma 458, legge n. 147 del 2013, trova applicazione anche nei confronti dei professori universitari eletti componenti c.d. laici del C.S.M. che alla cessazione dell’incarico siano rientrati nei ruoli dell’università di provenienza.

Le nuove disposizioni si applicano ai ratei da corrispondersi a partire dal 1°febbraio 2014, anche se il conferimento dell’incarico di componente c.d. laico del C.S.M. sia avvenuto antecedentemente alla data di entrata in vigore della l. n. 147 del 2003 e senza che ciò comporti lesione del legittimo affidamento maturato dal consigliere

L’Adunanza plenaria si occupa del rapporto intercorrente tra innovativa disciplina volta a contenere la spesa pubblica e previgenti disposizioni in materia di trattamento economico e giuridico del dipendente pubblico alla cessazione di incarico cui è stato eletto (o nominato).

Nel caso specifico si tratta di consigliere del Consiglio superiore della magistratura, componente c.d. laico eletto dal Parlamento il quale, alla cessazione del mandato consiliare, rientra quale professore ordinario nei ruoli dell’Università degli studi e vede cessare la corresponsione dell’assegno personale previsto per l’incarico ricoperto. Infatti, a seguito del conferimento dell’incarico in seno al CSM, gli veniva corrisposto un assegno ad personam così come previsto dall’art. 3, l. 3 maggio 1971, n. 312 (contenente rinvio per “effetti e limiti” di tale assegno all’art. 202, T.U. impiegati civili dello Stato approvato con d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3).

Tuttavia, durante il mandato, entra in vigore l’articolo 1, comma 458, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, in base al quale “L’articolo 202 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3 e l’articolo 3, commi 57 e 58, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, sono abrogati. Ai pubblici dipendenti che abbiano ricoperto ruoli o incarichi, dopo che siano cessati dal ruolo o dall’incarico, è sempre corrisposto un trattamento pari a quello attribuito al collega di pari anzianità”.

A questo punto, cessato l’incarico, si è posta la questione se il legislatore con il menzionato articolo 1, comma 458, abbia inteso disporre fin dalla sua entrata in vigore (1°gennaio 2014) l’abrogazione dell’art. 202 d.P.R. n. 3 del 1957 e dell’art. 3, commi 57 e 58, l. n. 537 del 1993, tacita o implicita, o se, invece, abbia voluto innovare all’ordinamento giuridico senza effetti sulle disposizioni previgenti[1].

L’Adunanza plenaria risponde nel senso che l’art. 1, comma 458, l. n. 147 del 2013, debba trovare applicazione anche nei confronti dei professori universitari eletti componenti c.d. laici del C.S.M. che alla cessazione dell’incarico siano rientrati nei ruoli dell’università di provenienza.

Quanto all’efficacia temporale della sopravvenuta disposizione normativa, le nuove disposizioni si applicano ai ratei da corrispondersi a partire dal 1°febbraio 2014, anche se il conferimento dell’incarico di componente c.d. laico del C.S.M. sia avvenuto antecedentemente alla data di entrata in vigore della l. n. 147 del 2003 e senza che ciò comporti lesione del legittimo affidamento maturato dal consigliere.

 

LEGGI LA SENTENZA

 

Pubblicato il 05/08/2022

N. 00009/2022REG.PROV.COLL.

N. 00007/2022 REG.RIC.A.P.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso iscritto al numero di registro generale 7 dell’Adunanza plenaria del 2022, proposto dall’Università degli Studi di Roma Tre, in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;

contro

Eligio Resta, rappresentato e difeso dall'avvocato Giovanni Pesce, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Bocca di Leone, 78;

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, Roma, (Sezione Terza) n. 08984/2016, resa tra le parti;

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Eligio Resta;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 maggio 2022 il Cons. Federico Di Matteo e uditi per le parti l’avvocato dello Stato Davide Di Giorgio e l’avvocato Giovanni Pesce;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO e DIRITTO

1. Il prof. Eligio Resta è stato consigliere del C.S.M. – Consiglio superiore della magistratura in qualità di componente c.d. laico eletto dal Parlamento per il quadriennio 1998 – 2002.

Alla cessazione del mandato consiliare, egli rientrava nei ruoli dell’Università degli studi di Roma Tre, ove era incaricato della docenza della materia di Filosofia del diritto in qualità di professore ordinario.

Al rientro nei ruoli gli veniva corrisposto un assegno ad personam così come previsto dall’art. 3, l. 3 maggio 1971, n. 312 (contenente rinvio per “effetti e limiti” di tale assegno all’art. 202, T.u. impiegati civili dello Stato approvato con d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3).

All’entrata in vigore (il 1°gennaio 2014) dell’articolo 1, comma 458, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, per il quale “L’articolo 202 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3 e l’articolo 3, commi 57 e 58, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, sono abrogati. Ai pubblici dipendenti che abbiano ricoperto ruoli o incarichi, dopo che siano cessati dal ruolo o dall’incarico, è sempre corrisposto un trattamento pari a quello attribuito al collega di pari anzianità”, l’Università, con nota del 15 luglio 2014 prot. n. 61652, comunicava la cessazione dell’assegno personale a decorrere dal luglio 2014 e il recupero delle somme corrisposte a tale titolo nel periodo dal gennaio 2014 (data di entrata in vigore del citato art. 458) al giugno 2014.

2. Con ricorso al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, il prof. Resta impugnava la nota dell’Università sulla base di sei motivi; si costituiva in giudizio l’Università degli Studi di Roma Tre che concludeva per il rigetto.

Il giudice di primo grado, con la sentenza della terza sezione, 2 agosto 2016, n. 8984, accoglieva il ricorso ed annullava il provvedimento impugnato ritenendo fondati il primo ed il terzo motivo.

Il T.A.R. ha posto due argomenti a sostegno della decisione.

Il primo attiene all’ambito temporale di applicazione dell’art. 1, commi 458 e 459, l. n. 147 del 2013: per il tribunale, in assenza di espressa qualificazione di retroattività, va data una lettura costituzionalmente orientata della disposizione sopravvenuta, tale da escluderne l’applicazione, oltre che ai rapporti giuridici estintisi prima della sua entrata in vigore, anche a quelli che, sorti anteriormente, siano ancora in vita, così da evitare che si disconoscano effetti già verificatisi del fatto passato ovvero si tolga efficacia, in tutto e in parte, alle sue conseguenze attuali o future.

La nuova disposizione potrà, pertanto, regolare solo i rapporti successivamente instauratisi, o nei quali non vi sia collegamento con il fatto che li ha generati.

Una diversa interpretazione (estensiva) dell’ambito temporale di applicazione della norma si porrebbe in contrasto con il principio di irretroattività della legge previsto dall’art. 11 della preleggi (“La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”) che la Corte costituzionale ha ritenuto fornito di copertura costituzionale (art. 25 Cost.) solo in materia penale, riconoscendo, però, che nelle altre materie il legislatore, pur potendo nella sua discrezionalità modificare in senso sfavorevole la disciplina dei rapporti in corso, è tenuto al rispetto del legittimo affidamento nella sicurezza dei rapporti giuridici, il quale, quindi, assurge a parametro di ragionevolezza dello ius superveniens. Prevale, pertanto, la posizione soggettiva incisa dalla nuova legge se sia “una posizione giuridica consolidata, in quanto radicata non soltanto su un provvedimento amministrativo che l’ha disposta (…), ma anche sull’esercizio effettivo delle attribuzioni connesse a quella posizione”, in un’ottica di bilanciamento di interessi tra quello pubblico e quello dei soggetti nei quali è sorto il legittimo affidamento nella sicurezza giuridica nutrito sulla base della normativa previgente, in base alla quale hanno maturato una situazione sostanziale consolidata.

Il secondo argomento riguarda l’ambito di estensione soggettiva della nuova disposizione.

Per il tribunale, l’abrogazione del solo art. 202 T.u. impiegati civili dello Stato non “è misura legislativa sufficiente ad eliminare dall’ordinamento anche gli effetti dell’art. 3 della L. n. 312/1971”, poichè l’art. 202 era dettato per evitare eventuali effetti negativi economici del passaggio di carriera degli impiegati, mentre l’art. 3 l. n. 312 del 1971 riguarda la ben diversa situazione di quei dipendenti che alla scadenza di un incarico onorario (e dunque non di un rapporto di impiego) rientrino nei ruoli della propria amministrazione di appartenenza: espunta dall’ordinamento la prima disposizione, sarebbe rimasta vigente la seconda, per eliminare la quale sarebbe stata necessaria una specifica disposizione di legge a contenuto abrogativo (con l’avvertenza che anche in questo caso si sarebbe dovuto tener conto del principio di irretroattività nei sensi delineati).

3. Ha proposto appello l’Università degli Studi Roma Tre sulla base di due motivi; ha resistito il prof. Resta.

L’Università critica la sentenza di primo grado per aver ritenuto le disposizioni di cui all’art. 1, commi 458 e 459, l. n. 147 del 2013 non applicabili ai rapporti giuridici sorti anteriormente ed ancora pendenti, poiché, invece, per il loro inequivoco tenore letterale come pure per la ratio ad esse sottesa – di contenimento della spesa pubblica mediante la cessazione di tutti gli assegni ad personam in godimento a dipendenti pubblici cessati da ruoli o incarichi precedentemente svolti – alle stesse dovrebbe essere senz’altro riconosciuta portata retroattiva.

L’appellante sostiene, poi, nel secondo motivo, che la portata abrogativa generale delle nuove disposizioni, per quanto testualmente riferita al solo art. 202 del T.u. impiegati civili dello Stato, si estenderebbe automaticamente anche all’art. 3 l. n. 312 del 1971, comprendendo, dunque, anche l’assegno personale corrisposto al dipendente pubblico rientrato nei ruoli dell’amministrazione di appartenenza alla cessazione della carica di consigliere c.d. laico del C.S.M..

Ciò in ragione dello stretto rapporto delle due disposizioni: per il rinvio effettuato dall’art. 3, l. n. 312 del 1972 all’art. 202 T.u. impiegati civili dello Stato, non sarebbe possibile ritenere che il primo continui ad essere in vigore una volta che il secondo sia stato espressamente abrogato; occorrerebbe piuttosto ritenere che l’art. 3 sia stato oggetto di una abrogazione implicita avvenuta “per rinnovazione della materia”, avendo il legislatore inteso dettare una nuova disciplina organica di tutta la materia del trattamento economico spettante ai dipendenti pubblici rientrati nei ruoli dell’amministrazione di appartenenza.

4. All’esito dell’udienza pubblica del 1° febbraio 2022 la settima Sezione del Consiglio di Stato, investita della causa di appello, ha pronunciato l’ordinanza 8 marzo 2022, n. 1672, con la quale, ai sensi dell’art. 99, comma 1, cod. proc. amm., ha rimesso all’adunanza plenaria la decisione dei seguenti quesiti:

a) se le disposizioni normative di cui all’art. 1, commi 457 e 458, della l. n. 147 del 2013, nonché quelle di cui all’articolo 8, comma 5, della legge n. 370 del 1999 (nel testo vigente) siano applicabili anche ai componenti cc.dd. laici del Consiglio superiore della Magistratura (con la conseguenza di rendere inapplicabili nei loro confronti l’istituto dell’assegno ad personam) ovvero se questi ultimi siano esclusi dalla applicazione delle norme ivi contenute, anche in ragione del particolare munus ad essi affidato (art. 104, comma 4, Cost.)”;

b) (in caso di risposta affermativa al primo quesito) se le disposizioni normative de quibus siano applicabili ai ratei da corrispondersi a partire da 1°febbraio 2014, anche se il conferimento dell’incarico di componente c.d. laico del Consiglio superiore della Magistratura sia avvenuto antecedentemente alla data di entrata in vigore della l. n. 147/2013”.

La sezione rimettente ha, infatti, ravvisato un contrasto di orientamenti in merito alle questioni, rilevanti per la decisione del giudizio, della perdurante vigenza dell’art. 3, l. n. 312 del 1971, in materia di trattamento economico dei componenti c.d. laici del C.S.M. cessati dalla carica, anche a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 1, commi 458 e 459, l. n. 147 del 2013 e, per il caso di riconosciuto effetto abrogativo, relativamente alla sua estensione anche ai rapporti sorti antecedentemente ed ancora in corso di svolgimento.

Precisamente, secondo un primo orientamento, fatto proprio dalle sentenze del Consiglio di Stato, sez. VI, del 5 marzo 2018, nn. 1384 e 1385, l’art. 3, l. n. 312 del 1972 sarebbe stato abrogato dalle disposizioni introdotte nel 2013 in via implicita o, secondo una prospettiva in parte diversa – giusto il richiamo ivi contenuto all’art. 202 T.u. impiegati civili dello Stato oggetto di abrogazione espressa – in seguito ad un fenomeno di vero e proprio “svuotamento normativo”; considerato, poi, che il comma 459 dell’art. 1 della l. n. 147 del 2013 ha imposto alle amministrazioni di adeguare i trattamenti giuridici “a partire dalla prima mensilità successiva alla data di entrata in vigore”, l’assegno personale non sarebbe più dovuto in relazione ai ratei retributivi da corrispondersi a partire dal 1°febbraio 2014.

Rammenta la sezione, inoltre, che nelle predette sentenze tale retroattività c.d. impropria è stata ritenuta non in contrasto con i limiti che la giurisprudenza della Corte costituzionale e della CEDU hanno posto alla legittima introduzione di discipline retroattive.

Aggiunge, infine, che l’orientamento esposto è stato in seguito accolto anche dalla terza sezione del Consiglio di Stato nella sentenza 1° dicembre 2021, n. 8026.

Per altro orientamento, espresso dalla sentenza del Consiglio della Giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, 14 aprile 2016, n. 89, l’art. 3, l. n. 312 del 1971, per essere norma speciale – in quanto rivolta a regolare il caso assolutamente particolare e specificatamente individuato del professore universitario che sia stato eletto componente del C.S.M. – non potrebbe dirsi abrogata per l’avvenuta abrogazione di una norma di carattere generale, quale l’art. 202 T.u. impiegati civili dello Stato, che, infatti, si riferiva a “compiti, funzioni incarichi svolti all’interno dell’amministrazione”, ma non contemplava in alcun modo lo svolgimento di funzioni di competenza degli organi costituzionali.

Avrebbe aderito a tale orientamento anche la sentenza della sesta Sezione dell’11 dicembre 2017, n. 5801, per aver ritenuto che gli interventi normativi del 2013 privi di effetto abrogativo nei confronti dello speciale assegno personale di cui alla legge n. 312 del 1971; l’assenza di tale effetto abrogativo emergerebbe, oltre che dalla mancanza di abrogazione espressa della richiamata disposizione, anche dal carattere del tutto speciale dell’attribuzione patrimoniale disciplinata, che non potrebbe dirsi travolta dall’abrogazione dell’art. 202 T.u. impiegati civili dello Stato.

La sezione rimettente dichiara la sua preferenza per il primo orientamento.

5. Dopo il deposito delle memorie difensive e delle repliche, all’udienza pubblica del 18 maggio 2022, la causa è stata trattenuta in decisione.

6. Per la soluzione del primo quesito va svolto il ragionamento che segue.

6.1. Prima dell’entrata in vigore del comma 458 dell’art. 1, l. n. 174 del 2013 (Legge di stabilità per il 2014), erano contemporaneamente vigenti:

- l’art. 202 (Assegno personale nei passaggi di carriera) d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo stato degli impiegati civili dello Stato) per il quale “Nel caso di passaggio di carriera presso la stessa o diversa amministrazione agli impiegati con stipendio superiore a quello spettante nella nuova qualifica è attribuito un assegno personale, utile a pensione, pari alla differenza fra lo stipendio già goduto ed il nuovo, salvo riassorbimento nei successivi aumenti di stipendio per la progressione di carriera anche se semplicemente economica”;

- l’art. 3, l. 3 maggio 1971, n. 312 (Trattamento economico dei componenti del Consiglio superiore della magistratura eletti dal Parlamento cessati dalla carica) per il quale: “Ai componenti che fruiscono del trattamento previsto dall’articolo 40, comma terzo, della legge 24 marzo 1958, n. 195 l’assegno mensile a carico del Consiglio superiore della magistratura verrà tramutato, all’atto della cessazione dalla carica per decorso del quadriennio, in assegno personale agli effetti e nei limiti stabiliti dall’articolo 202 del testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3. In tali casi la liquidazione dei trattamenti di quiescenza e di previdenza avrà luogo con le norme vigenti per il personale della magistratura. L’attribuzione dell’assegno di cui al comma precedente esclude la concessione dell’indennità di cui all’articolo 1 della presente legge”.

L’identificazione dell’ambito soggettivo di applicazione di quest’ultima disposizione avveniva per rinvio all’art. 40, comma 3, l. 24 marzo 1958, n. 195 avente ad oggetto il trattamento dovuto ai “componenti eletti dal Parlamento che fruisc[o]no di stipendio o di assegni a carico del bilancio dello Stato” in costanza di carica,

Siccome l’art. 104, comma 4, Cost. dispone che i componenti del C.S.M. eletti da Parlamento siano scelti tra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati dopo quindici anni di servizio, i consiglieri del C.S.M. eletti dal Parlamento interessati dall’art. 3, l. n. 312 del 1971, erano i professori universitari.

6.2. L’art. 202 era una norma di carattere generale sul trattamento economico del dipendente pubblico in caso di “passaggio di carriera”: era prevista la conservazione del trattamento economico (più favorevole) in godimento nella precedente posizione mediante corresponsione di assegno ad personam (pari alla differenza tra lo stipendio già goduto e il nuovo stipendio), pensionabile e riassorbibile.

La norma vietata, dunque, la reformatio in pejus del trattamento economico in caso di passaggio di carriera: il mutamento di carriera non doveva in alcun modo risolversi in una regressione nel trattamento economico (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 15 febbraio 2022, n. 1093; VI, 7 febbraio 2018, n. 776; V, 12 febbraio 2013, n. 808; VI, 4 luglio 2011, n. 3961; IV, 29 febbraio 2008, n. 779; IV, 26 gennaio 2007, n. 289).

La disposizione era chiaramente ispirata alla volontà di favorire processi di mobilità all’interno della stessa amministrazione o tra amministrazioni diverse; in sua assenza, la mobilità sarebbe stata disincentivante, per la prospettiva di transitare in altro ruolo ed ivi subire un decremento retributivo (cfr. Cass. civ., sez. lav., 19 novembre 2019, n. 30071).

I precedenti articoli 200 e 201del testo unico definivano le modalità del passaggio di carriera.

Completava la disciplina dei passaggi di carriera l’art. 3 (Pubblico impiego) l. 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi correttivi di finanza pubblica) che, al comma 57, specificava: “Nei casi di passaggi di carriera di cui all’articolo 202 del citato testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, ed alle altre analoghe disposizioni, al personale con stipendio o retribuzione pensionabile superiore a quello spettante nella nuova posizione è attribuito un assegno personale pensionabile, non riassorbibile e non rivalutabile, pari alla differenza fra lo stipendio o retribuzione pensionabile in godimento all’atto del passaggio e quello spettante nella nuova posizione” e al comma 58 “L’assegno pensionabile di cui al comma 57 non è cumulabile con indennità fisse e continuative, anche se non pensionabili, spettanti nella nuova posizione, salvo che per la parte eventualmente eccedente”.

6.3. L’art. 3, l. 312 del 1971 definiva il trattamento economico dei consiglieri del C.S.M., eletti dal Parlamento e provenienti dai ruoli di pubbliche amministrazioni, alla cessazione dalla carica.

Ad essi spettava, per il periodo della consiliatura, il trattamento economico stabilito dall’art. 40, comma 2, l. 24 marzio 1958, n. 195 consistente in un assegno mensile lordo pari a quanto spettante per stipendio ed indennità di rappresentanza ai magistrati indicati nell’art. 6, n. 3, della legge 24 maggio 1951, n. 392, e, al rientro nella posizione di provenienza, un assegno ad personam che, per il rinvio effettuato al citato art. 202, era quantificato nella differenza tra quanto percepito in costanza di carica e il trattamento già goduto nell’amministrazione di provenienza, ed era anch’esso pensionabile e riassorbibile.

Con l’assegno ad personam al rientro nel ruolo di provenienza, il legislatore intendeva compensare le eventuali rinunce – in termini di occasioni di guadagno o anche solo di sviluppo professionale – sopportate per l’esercizio in via esclusiva dell’incarico di componente del C.S.M..

E’ spiegato chiaramente dalla Corte costituzionale nella sentenza del 14 luglio 1982, n. 131, in cui era sottoposta a vaglio di legittimità costituzionale l’attribuzione ai soli componenti c.d. laici del C.S.M. dell’assegno mensile lordo da questi goduto in costanza di carica e non anche ai magistrati componenti elettivi (cui spetta il trattamento economico previsto per le rispettive categorie di appartenenza).

Le ragioni addotte dalla Corte per escludere il contrasto con le norme costituzionali valgono anche a giustificazione della disciplina sul trattamento economico spettante alla cessazione dalla carica.

La Corte, rammentato lo stringente regime di incompatibilità previsto dall’art. 33 l. n. 195 del 1958 per i componenti del C.S.M. cui, tra le altre cose, è fatto divieto di restare o venire iscritti negli albi professionali, essere titolari di imprese commerciali, far parte di consigli di amministrazione di società commerciali, riconosce all’assegno la finalità di “ristoro di peculiari sacrifici” inerenti alla rinuncia ad un’attività professionale (non così per i componenti magistrati, per i quali le medesime incompatibilità non discendono dal far parte del Consiglio, ma preesistono in via permanente in ragione del loro stesso status di magistrati).

6.4. L’art. 3, l. n. 312 del 1971 ora esaminato era norma speciale, ma non singolare.

Era una norma speciale poiché si riferiva al trattamento dovuto ai dipendenti pubblici – e nello specifico ai professori universitari – eletti componenti c.d. laici del C.S.M. alla cessazione dalla carica, ma non era singolare, poiché altre ve ne sono all’interno dell’ordinamento che disciplinano il trattamento economico (e giuridico) spettante al dipendente pubblico alla cessazione di un incarico cui sia stato eletto (o nominato).

La disposizione più affine a quella in esame – anche per la rilevanza costituzionale dell’organo – è costituita dall’art. 2, l. 18 marzo 1985, n. 265 (Integrazioni e modificazioni alla L. 11 marzo 1953, n. 87 concernente l’organizzazione e il funzionamento della Corte costituzionale) che, al secondo comma, prevede: “Ai giudici della Corte costituzionale che con la cessazione dalla carica vengono riammessi in ruolo quali magistrati o professori universitari, si applica la norma contenuta nell’art. 202 del testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3. In tali casi la liquidazione dei trattamenti di quiescenza e di previdenza avrà luogo con le norme vigenti per il personale della Magistratura”.

Disciplina il trattamento economico e giuridico del dipendente pubblico alla cessazione dell’incarico parlamentare l’art. 88 d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati), come modificato dall’art. 4, l. 31 ottobre 1965, n. 1261, il quale, dopo aver stabilito (identicamente a quanto previsto dall’art. 68 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, per l’elezione, oltre che al Parlamento nazionale, anche al Parlamento europeo e ni Consigli regionali), che i dipendenti pubblici che siano eletti deputati o senatori sono collocati d’ufficio in aspettativa per tutta la durata del mandato parlamentare, prevede, al terzo comma il divieto del conseguimento di promozioni, se non per anzianità, e, al quarto comma, che “Nei confronti del parlamentare dipendente o pensionato che non ha potuto conseguire promozioni di merito a causa del divieto di cui al comma precedente, è adottato, all’atto della cessazione, per qualsiasi motivo, dal mandato parlamentare, provvedimento di ricostruzione di carriera con inquadramento anche in soprannumero”, nonché, al quinto comma, che: “Il periodo trascorso in aspettativa per mandato parlamentare è considerato a tutti gli effetti periodo di attività di servizio ed è computato per intero ai fini della progressione in carriera, dell’attribuzione degli aumenti periodici di stipendio e del trattamento di quiescenza e di previdenza”.

In relazione ai professori universitari (e ai direttori di istituti sperimentali equiparati) è specificato che le predette disposizioni si applicano solo a domanda degli interessati.

Relativamente ai dipendenti pubblici, che non siano membri del Parlamento e che abbiano assunto la carica di Ministro e di Sottosegretario di Stato, l’art. 47, comma 2, l. 24 aprile 1980, n. 146, che ha previsto la collocazione in aspettativa per il periodo di durata dell’incarico con conservazione per intero del trattamento economico spettante (in misura comunque non superiore a quella dell’indennità percepita dai membri del Parlamento), è stato interpretato dall’art. 23 (Riduzione dei costi di funzionamento delle Autorità di Governo, del CNEL, delle Autorità indipendenti e delle Province), comma 6, d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, conv. con mod. dalla l. 22 dicembre 2011, n. 204, nel senso che per la durata della carica “non spetta la parte del trattamento economico, comprese le componenti accessorie e variabile della retribuzione, eccedenti il limite indicato nella predetta disposizione”, specificando, però, che “il periodo di aspettativa è considerato utile ai fini dell’anzianità di servizio e del trattamento di quiescenza e di previdenza, con riferimento all’ultimo trattamento economico in godimento, inclusa per i dirigenti, la parte fissa e variabile della retribuzione di posizione, ed esclusa la retribuzione di risultato”.

6.5. Di particolare interesse per il presente giudizio, anche per quanto si dirà circa l’effetto abrogativo delle disposizioni sopravvenute, è, poi, l’art. 8 (Disposizioni in materia di personale universitario) l. 19 ottobre 1999, n. 370 (Disposizioni in materia di università e di ricerca scientifica e tecnologica).

Nella sua originaria formulazione, il quinto comma di tale articolo, prevedeva che: “Nei casi in cui la normativa vigente consenta al personale assunto o rientrato nei ruoli dei professori e ricercatori universitari di conservare l’importo corrispondente alla differenza tra il trattamento economico complessivo goduto nel servizio o nell’incarico svolto precedentemente e quello attribuito al professore o ricercatore universitario di pari anzianità, tale importo è attribuito come assegno ad personam da riassorbire per effetto sia della progressione economica e dell’assegno aggiuntivo di cui agli articoli 36. 38 e 39 del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382, sia di ogni altro incremento retributivo attribuito al personale docente e ricercatore delle università”.

Successivamente, con l’art. 5, comma 10-ter d.l. 6 luglio 2012, n. 95, conv. con mod. dalla l. 7 agosto 2012, n. 135, è stato riformulato in questi termini: “Al professore o ricercatore universitario rientrato nei ruoli è corrisposto un trattamento pari a quello attribuito al collega di pari anzianità. In nessun caso il professore o ricercatore universitario rientrato nei ruoli delle università può conservare il trattamento economico complessivo goduto nel servizio o incarico svolto precedentemente, qualsiasi sia l'ente o istituzione in cui abbia svolto l'incarico. L'attribuzione di assegni ad personam in violazione delle disposizioni di cui al presente comma è illegittima ed è causa di responsabilità amministrativa nei confronti di chi delibera l'erogazione”.

La disposizione è stata evidentemente ritenuta non applicabile al caso del professore universitario rientrato nei ruoli dell’università dopo aver svolto l’incarico di componente c.d. laico del C.S.M. per la perdurante vigenza dell’art. 3, l. n. 312 del 1971.

6.6. E’ poi entrato in vigore l’art. 1, comma 458, della l. 27 dicembre 2013, n. 147 (legge di stabilità per il 2014) per il quale: “L’articolo 202 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3 e l’articolo 3, commi 57 e 58, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, sono abrogati. Ai pubblici dipendenti che abbiano ricoperto ruoli o incarichi, dopo che siano cessati dal ruolo o dall’incarico, è sempre corrisposto un trattamento pari a quello attribuito al collega di pari anzianità”.

Due sono le norme di cui si compone il comma 458.

La prima abroga espressamente l’art. 202 d.P.R. n. 3 del 1957, unitamente all’art. 3, commi 57 e 58 l. n. 537 del 1993, le quali, come si è detto, completavano la disciplina dei c.d. passaggi di carriera.

La seconda fissa la regola per la quale alla cessazione dell’incarico ricoperto (o del diverso ruolo assunto) al dipendente pubblico che rientri (nei ruoli) nell’amministrazione di provenienza spetta un trattamento pari quello del collega con pari anzianità.

6.7. Occorre allora stabilire in che rapporto si ponga tale (innovativa) regola con le previgenti disposizioni in materia di trattamento economico e giuridico del dipendente pubblico alla cessazione di incarico cui era stato eletto (o nominato) e, per quanto interessa al presente giudizio, con la disposizione di cui all’art. 3, l. n. 312 del 1972, riferita ai professori eletti consiglieri c.d. laici del C.S.M..

Occorre domandarsi se il legislatore abbia inteso disporre la loro abrogazione, tacita o implicita, o se, invece, abbia voluto innovare all’ordinamento giuridico senza effetti sulle disposizioni previgenti (alcune delle quali sono state in precedenza richiamate).

6.8. L’abrogazione delle leggi è disciplinata dall’art. 15 delle Disposizioni sulla legge in generale, per il quale: “Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l’intera materia già regolata dalla legge anteriore”.

Si suole distinguere tre tipologie di abrogazione: a) l’abrogazione espressa qualora una norma successiva espressamente dichiari abrogata una norma precedente; b) l’abrogazione tacita (anche denominata da parte della dottrina abrogazione implicita) che avviene nel caso in cui la norma successiva risulta incompatibile con quella precedente di modo che sia resa impossibile la contemporanea applicazione delle due leggi in comparazione, per cui dall’applicazione ed osservanza della successiva deriva necessariamente la disapplicazione o l’inosservanza dell’altra; c) l’abrogazione per rinnovazione della materia se, alla luce di una disamina complessiva delle varie disposizioni, si giunge a ritenere che il legislatore abbia inteso innovare completamente una certa materia, con l’avvertenza che qui per “materia” non deve intendersi l’intero ordito normativo che regola una determinata attività umana – il che evidentemente relegherebbe siffatto fenomeno abrogativo a casi estremamente limitati (se non del tutto impossibili) – ma, piuttosto, anche solo un particolare segmento di una certa materia che la nuova normativa sottopone a diversa disciplina (cfr. Cass. pen., Sez. Unite, 24 ottobre 2019 – 13 gennaio 2020, n. 698 Sinito; Adunanza plenaria, 27 luglio 2016, n. 17)

L’abrogazione implicita è stata elaborata dalla dottrina costituzionalistica dell’ottocento come prerogativa del legislatore che può innovare la disciplina di una materia senza doversi far carico di ricercare e disporre l’abrogazione espressa di tutte le (precedenti) disposizioni con la nuova incompatibili, ma rimettendo tale compito all’interprete che di esse si trovi a dover far applicazione in vicenda concreta.

Anche senza che di queste ultime sia stata disposta l’abrogazione espressa, si presume, infatti, dalla lettera e dal contenuto della nuova legge, la volontà del legislatore che le precedenti disposizioni non siano più applicate dopo l’entrata in vigore della nuova disciplina (cfr. Cass. civ., 20 aprile 1995, n. 4420).

6.9. Delle disposizioni qui in esame va certamente esclusa l’abrogazione espressa (riservata, come detto, al solo art. 202 e all’art. 3, commi 57 e 58, l. n. 537 del 1993), ma va esclusa anche l’abrogazione tacita o implicita.

L’introduzione della nuova regola non può aver prodotto un’abrogazione tacita per l’applicazione del brocardo lex posterior generalis non derogat priori speciali.

Questa antica massima, più che fissare una regola risolutiva di un’antinomia tra norme, reca in sintesi la spiegazione del seguente fenomeno: la sopravvenienza di una norma generale non comporta espunzione dall’ordinamento della norma speciale, perché entrambe possono restare contemporaneamente vigenti, disciplinando la norma generale tutte le fattispecie salvo quella che trova la sua disciplina nella norma speciale, che già esisteva e che continua ad esistere.

Detto altrimenti, quando l’innovazione legislativa consiste nell’introdurre una regola generale all’interno di un ordinamento che, per la medesima fattispecie, prevedeva una norma speciale, non si crea antinomia tra due disposizioni, tale per cui l’una consente quel che l’altra nega, da risolvere facendo applicazione del criterio cronologico, e la norma speciale potrà continuare ad essere vigente.

Nel caso di specie, non può essersi verificata una abrogazione tacita poiché, come si è in precedenza spiegato, le disposizioni previgenti erano connotate da elementi di specialità, relativamente all’incarico dal quale il dipendente pubblico cessava, ognuna di esse prevedendo uno specifico trattamento economico al rientro nel ruolo di provenienza; esse, per quanto ora detto, potrebbero restare contemporaneamente vigenti anche a seguito dell’introduzione della nuova regola.

6.10. L’Adunanza plenaria ritiene, invece, che si sia prodotta un’abrogazione delle disposizioni previgenti incompatibili per rinnovazione della materia.

Il legislatore, con la norma contenuta nella seconda parte del comma 458 della legge di stabilità per il 2014, ha fissato una regola unitaria per quella particolare vicenda del rapporto di pubblico impiego rappresentata dal rientro nei ruoli di provenienza in seguito alla cessazione dell’incarico (o del ruolo) al quale il dipendente sia stato eletto o nominato; si è disposto che il trattamento dovuto sarà equivalente a quello attribuito al collega di pari anzianità.

Se è vero che all’entrata in vigore della nuova norma, spetta all’interprete – e in sede giurisdizionale – rivelare la volontà del legislatore, è corretto dire che la disposizione qui in esame si presenta connotata da una evidente portata di uniformazione delle diversificate previgenti discipline, appare cioè caratterizzata da un afflato generalizzante, per cui ora v’è una sola regola che vale a disciplinare tale particolare e specifica vicenda del rapporto di pubblico impiego.

D’altronde, vi è un argomento dirimente che induce a questa conclusione: a voler diversamente opinare, considerato, come prima dimostrato, che nel precedente assetto normativo siffatta vicenda del rapporto di impiego pubblico trovava discipline diversificate a seconda dell’incarico cui il dipendente pubblico era stato destinato e dal quale cessava – o, altrimenti detto, v’era un reticolato di norme speciali – la nuova norma, non riferita alla cessazione di uno specifico incarico, e quindi, di portata generale, non potrebbe trovare mai concreta applicazione.

E ciò sarebbe scelta elusiva della chiara volontà del legislatore quale emerge dall’analisi diacronica delle disposizioni rilevanti in precedenza svolta.

6.11. Per giungere a diversa conclusione, non vale dar peso ai termini utilizzati dal legislatore nella formulazione del comma 458.

Si tratta di argomento sul quale insiste l’appellato nelle proprie difese e che è evocato anche dal quesito posto dalla Sezione rimettente (in quanto presente nella sentenza del Cons. giust. amm. Sicilia n. 89 del 2016 a sostegno dell’orientamento della specialità dell’art. 3 l. n. 312 del 1971); l’appellato ha dedotto che il comma 458 non troverebbe applicazione al dipendente pubblico al rientro nell’amministrazione di provenienza (in sostanza, per quanto ormai chiarito, ai professori universitari) dopo essere stato consigliere del C.S.M. in quanto esso vale per il caso in cui sia stato ricoperto presso altra amministrazione un “incarico” ovvero un “ruolo”, laddove quello di componente c.d. laico del C.S.M. sarebbe una “carica istituzionale” ovvero un “munus pubblico” (rispetto al quale, quindi, non è assunto alcun “ruolo” – mancando, peraltro, il “ruolo” dei componenti del C.S.M. – né “incarico”).

Le ragioni che inducono a dire ininfluente sotto tale profilo la terminologia utilizzata dal legislatore sono le seguenti.

E’ vero, come nota il Consiglio di giustizia amministrativa della Regione Siciliana nella sentenza citata, che l’art. 104 della Costituzione, in relazione ai membri del C.S.M., utilizza il termine “carica” (ove, al sesto comma, è detto che essi “durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili” e al comma successivo che “finchè sono in carica” non possono essere iscritti negli albi professionali, né far parte del Parlamento o di un Consiglio regionale), così come è vero che il termine “carica” è associato nelle disposizioni costituzionali ad altri organi, ossia al Presidente della Repubblica (all’art. 85 Cost.) e al Governo (o meglio, al Presidente del Consiglio dei ministri e ai ministri, dall’art. 96 Cost.), ma ciò non comporta alcuna specialità ai fini che qui interessano.

A parte che, come ben notato dalla difesa erariale nella discussione orale, entrambi i termini – “carica” e “incarico” – evocano il concetto di peso, essendo la “carica” l’operazione di porre il peso sopra una persona e, dunque, per l’impegno che ciò comporta, in via traslata, quello di assunzione di un ufficio pubblico, e così, identicamente, secondo antica dizione, l’incarico è l’esito dell’operazione di carica, per cui potrebbe dirsi che etimologicamente non vi sia differenza tra i due termini.

Ad ogni modo, quel che più conta è che, per aver il legislatore indicato i destinatari della disposizione in coloro che abbiano “ricoperto un ruolo o incarico”, può affermarsi che il concetto di “incarico” sia qui usato in maniera metonimica: riferendosi all’atto di conferimento – l’ “incarico”, appunto – il legislatore ha inteso riferirsi all’esercizio della funzione (in conseguenza di un atto di conferimento) al di fuori dell’amministrazione di appartenenza (addenda logica necessaria per tutto quel che si è detto); il che ovviamente significa – per il caso in cui la funzione in oggetto sia propria di un organo – assunzione della titolarità di un organo monocratico o di componente di organo collegiale.

Così intesa, la formula linguistica utilizzata dal legislatore ricomprende certamente anche il concetto di “carica”, in quanto l’assunzione di una carica comporta l’esercizio di una funzione ed anche essa presuppone un atto di conferimento (per nomina o per elezione) della funzione ovvero, altrimenti detto, della titolarità dell’organo (anche di rilevanza costituzionale), che comporti instaurazione del rapporto organico.

Quanto sopra vale a superare l’argomento ed esime dalla necessità di approfondire la differenza tra i due concetti – che giustifica il differente uso che ne fa il legislatore (anche nella legge n. 195 del 1958 sulla costituzione e il funzionamento del C.S.M.) – in particolare quanto all’instaurazione del rapporto di servizio, che, nel caso dell’assunzione di una “carica”, è normalmente onorario (con ogni conseguenza, per cui cfr. Cons. Stato, sez. V, 4 febbraio 2021, n. 1062).

6.12 D’altra parte, sotto il profilo testuale, va rilevato che l’invocato art. 3 della legge n. 312 del 1971 disponeva l’attribuzione di emolumenti “agli effetti e nei limiti stabiliti dall’art. 202” del T.U. n. 3/1957.

Tuttavia, l’art. 1, comma 458, della legge n. 147 del 2013 ha abrogato il citato art. 202, è venuta meno la disposizione che garantiva in contenuto lo stesso art. 3, determinando così quanto spettante in base all’art. 202 dello stesso T.U..

Ne deriva perciò una abrogazione consequenziale dello stesso art. 3 per incompatibilità.

6.13. In conclusione, al primo quesito posto dalla sezione remittente questa Adunanza plenaria risponde nel senso che l’art. 1, comma 458, l n. 147 del 2013, debba trovare applicazione anche nei confronti dei professori universitari eletti componenti c.d. laici del C.S.M. che alla cessazione dell’incarico siano rientrati nei ruoli dell’università di provenienza.

7. Il secondo quesito attiene all’efficacia temporale della sopravvenuta disposizione normativa; si domanda, come rammentato, se essa sia applicabile ai ratei da corrispondere ai professori universitari a partire dal 1°febbraio 2014, anche se la data di cessazione dell’incarico sia stata antecedente all’entrata in vigore.

7.1. L’efficacia temporale della nuova disposizione è stabilita dal comma 459 della legge di stabilità 2014 per il quale: “Le amministrazioni interessate adeguano i trattamenti giuridici ed economici, a partire dalla prima mensilità successiva alla data di entrata in vigore della presente legge, in attuazione di quanto disposto dal comma 458, secondo periodo, del presente articolo e dall’articolo 8, comma 5, della legge 19 ottobre 1999, n. 370, come modificato dall’articolo 5, comma 10 – ter, del decreto - legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135”.

La norma è chiara e non dà adito a dubbi interpretativi: le amministrazioni sono tenute ad applicare immediatamente la nuova disposizione (id est. a partire dalla prima mensilità successiva alla sua entrata in vigore) e, di conseguenza, a rivedere il trattamento giuridico ed economico in godimento dei dipendenti già beneficiari del previgente regime, ormai superato dalla nuova disciplina.

Per rispondere compiutamente al secondo quesito posto all’Adunanza plenaria, tuttavia, occorre verificare se la scelta del legislatore si ponga in contrasto con principi di rilevanza costituzionale poiché in tal caso sarebbe corretto vagliare altre possibili interpretazioni che tale contrasto consentano di evitare.

7.2. A tal scopo, va detto che per aver il legislatore disposto l’immediata revisione del trattamento giuridico ed economico in godimento dei dipendenti cessati dall’incarico di consigliere del C.S.M. vigente la precedente disciplina, il comma citato è una norma connotata da retroattività c.d. impropria.

Per la giurisprudenza civile una norma è retroattività: a) se introduce, sulla base di una nuova qualificazione di fatti e rapporti già assoggettati all’imperio di una legge precedente, una disciplina degli effetti già esauriti alla vigenza della legge precedente ovvero b) se introduce una nuova disciplina degli effetti di un rapporto sorto in precedenza senza distinguere tra effetti che si siano verificati anteriormente o posteriormente alla sua entrata in vigore; non è retroattiva, invece, se disciplina status, situazioni soggettive e rapporti che, pur costituendo lato sensu gli effetti di un pregresso fatto generatore (e, per questo, previsti e considerati nel quadro di una diversa normazione), siano ontologicamente e funzionalmente (e, quindi, indipendentemente dal loro collegamento con il fatto generatore) distinti e, per questo, suscettibili di una nuova regolamentazione mediante l’esercizio di poteri e facoltà non consumati sotto la vecchia disciplina (cfr. Cass. civ., Sez. Unite, 29 gennaio 2021, n. 2142; sez. lav., 5 aprile 2022, n. 11012).

Secondo la giurisprudenza amministrativa, le prime due sono ipotesi di retroattività c.d. propria, l’ultima di retroattività c.d. impropria, in quanto la successiva disposizione, pur disponendo per il futuro, incide sullo stato dei rapporti giuridici che sono sorti in ragione di fatti generatori anteriori alla sua entrata in vigore (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 15 febbraio 2022, n. 1093, che si pronuncia proprio sulla portata retroattiva del comma 459 qui in esame; sez. III, 1° dicembre 2021, n. 8026; VI, 14 maggio 2021, n. 3809; V, 4 dicembre 2020, n. 7695; VI, 2 ottobre 2019, n. 6620).

Il comma 458 dell’articolo 1 della legge di stabilità del 2014 è connotata da retroattività impropria perché: a) considera un fatto generatore di un rapporto giuridico – la cessazione dall’incarico di consigliere c.d. laico del C.S.M. – che si è verificato anteriormente alla sua entrata in vigore; b) quel rapporto giuridico era disciplinato da una previgente disciplina alla quale le parti sono state sottoposte per un certo periodo; c) introduce una nuova disciplina cui le parti sono sottoposte a partire dalla sua entrata in vigore.

Ricorre, pertanto, una cesura tra due diverse discipline che corrisponde al momento di entrata in vigore della nuova norma, per cui uno stesso rapporto, per il tempo della sua durata, è regolato prima in un modo e poi in altro.

Quel che più conta, però, è che la nuova regola del rapporto comporta per il periodo successivo alla sua entrata in vigore un peggioramento del trattamento economico (e giuridico) del dipendente pubblico; essa, cioè, incide negativamente sui diritti in godimento.

Che essa valga a ridefinire immediatamente il trattamento dei professori universitari trova conferma nel richiamo contenuto nel comma 459 all’art. 8, comma 5, l. n. 370 del 1999 che, come in precedenza si è esposto, prevedeva una analoga regola per il rientro nei ruoli universitari per l’aver svolto incarichi diversi da quello qui in esame.

Per questo motivo, se ne deve accertare l’eventuale contrasto con il principio del legittimo affidamento del dipendente pubblico.

7.3. Il principio del legittimo affidamento nella certezza delle situazioni giuridiche costituisce un limite alla scelta del legislatore ordinario di introdurre discipline che modificano rapporti giuridici in corso di svolgimento.

Visto nell’ottica dei rapporti amministrativi, esso tutela l’aspettativa della parte privata a poter conservare – per tutto il periodo di spettanza e nell’originaria entità – l’utilità legittimamente acquisita in forza di un atto della pubblica amministrazione; così inteso vale per ogni norma retroattiva, nelle due accezioni, propria e impropria, prima esposte (e con specifico riguardo alle leggi di interpretazione autentica).

Non essendo impedito da specifiche disposizioni costituzionali – salvo, come noto, in materia penale dall’art. 25, comma 3, Cost. – il legittimo affidamento quale limite all’adozione di norme retroattive ha fondamento nell’art. 3 Cost. e nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento (oltre che nei principi connaturati allo Stato di diritto, quale l’indispensabile coerenza dell’ordinamento giuridico e la certezza del diritto, cfr. Corte cost., 5 novembre 2021, n. 210; 23 marzo 2021, n. 46; 30 gennaio 2018, n. 12; 4 luglio 2014, n. 191)

Esso non è, però, limite assoluto, né inderogabile.

La giurisprudenza costituzionale, ha infatti precisato che: “nel nostro sistema costituzionale non è interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali modifichino sfavorevolmente la disciplina dei rapporti di durata, anche se il loro oggetto sia costituito da diritti soggettivi perfetti, salvo, qualora si tratti di disposizioni retroattive, il limite costituzionale della materia penale (art. 25, secondo comma, Cost.). Dette disposizioni però, al pari di qualsiasi precetto legislativo, non possono trasmodare in un regolamento irrazionale e arbitrariamente incidere sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti, frustrando così anche l'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, che costituisce elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto” (così Corte cost. 12 dicembre 1985, n. 349, nonché, più recentemente, Corte cost. 22 ottobre 2010, n. 302; 24 luglio 2009, n. 236; 9 luglio 2009, n. 206).

La disposizione va, dunque, sottoposta a scrutinio di ragionevolezza il quale sempre si risolve nella verifica del corretto bilanciamento tra le opposte esigenze: dell’una, sempre uguale, s’è detto ed è l’aspettativa del privato a conservare quel che ha acquisito, l’altra, mutevole, è ciò che giustifica l’intervento in senso peggiorativo del preesistente assetto di interessi deciso dal legislatore.

È quel che si definisce la “causa normativa adeguata” (così in Corte cost. 2016, n. 203; 12 marzo 2015, n. 34; 2013, n. 92); a sua volta consistente ad un interesse pubblico sopravvenuto (o anche in una “inderogabile esigenza”) di rilievo costituzionale (o che abbia riscontro in principio, diritto o bene di rilevo costituzionale).

7.4. Per la Corte costituzionale lo scrutinio di ragionevolezza della norma sopravvenuta che appaia suscettibile di lesione del legittimo affidamento va svolto in tre momenti successivi; se è superato positivamente l’uno, è possibile passare all’altro.

Preliminarmente è da verificare se l’aspettativa del privato nella conservazione inalterata della sua situazione soggettiva per l’intera durata del rapporto sia giustificata al momento in cui sopravviene la modifica normativa (e, per questo motivo, appunto legittima).

Lo è se si tratta posizione adeguatamente consolidata per essersi protratta per un tempo ragionevolmente lungo (Corte cost. 9 maggio 2019 n. 108; 26 aprile 2018 n. 89; 1° dicembre 2017, n. 250; 20 maggio 2016, n. 108; 31 marzo 2015, n. 56) e se la modifica peggiorativa non era prevedibile; ciò che accade quanto la situazione soggettiva è sorta in un contesto giuridico atto a far sorgere nel destinatario una ragionevole fiducia nel suo mantenimento (cfr. Corte cost. 24 gennaio 2017, n. 16; 31 marzo 2015, n. 56).

Se l’affidamento è realmente legittimo, occorre accertare se ricorra la “causa normativa adeguata” di cui s’è già detto; si tratta della ragione dell’intervento legislativo che vale a giustificare la ripercussione della nuova norma su di uno stabile assetto di interessi.

Infine, è pur sempre necessario – se anche ricorra una “causa normativa adeguata” – che sia rispettato il limite della proporzionalità, nel senso che l’intervento normativo deve essere coerente rispetto all’obiettivo perseguito dal legislatore.

7.5. La suesposta elaborazione trova concordi la Corte costituzionale e Corte europea dei diritti dell’uomo.

L’intervento normativo modificativo può risultare lesivo dei principi costituzionali interni, nel senso in precedenza esposto, ma anche dell’art. 1 del Protocollo n.1 addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ove è stabilito, nella prima parte del par. 1, che “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni” – qui da intendersi in senso ampio, non solo quale res materiale, ma come ogni attività che possa essere qualificata come “diritto patrimoniale” fino a comprendere anche la “aspettativa legittima” della sua acquisizione. Anche un diritto di credito rientra, pertanto, tra i beni protetti.

Il par. 1 continua con la previsione per la quale: “Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale”.

Il par. 2 stabilisce che: “Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o altri contributi o delle ammende”.

Il pacifico godimento dei beni è tutelato dall’ingerenza dell’autorità pubblica; ingerenza che può avvenire anche mediante esercizio della funzione legislativa.

La Corte considera l’ingerenza dei poteri pubblici nel godimento dei beni compatibile con l’art. 1 del Protocollo n. 1 se soddisfa il principio di legalità, se necessaria per una ragione legittima di pubblica utilità o per un interesse generale e sempre che abbia luogo mediante mezzi ragionevolmente proporzionati al fine che si intende realizzare (sentenza Béláné Nagy c. Ungheria, 13 dicembre 2013).

Disposizioni retroattive sono ritenute conformi al requisito di legalità (sentenze Maggio e altri c. Italia, 31 maggio 2011 e sentenza Arras e altri c. Italia, 14 febbraio 2012).

Le finalità per le quali l’ingerenza può essere giustificata poiché rispondente ad una ragione di pubblica utilità o ad un interesse generale sono varie: in ogni caso, quando si tratta di misure generali di strategia economica o sociale la Corte riconosce allo Stato un ampio margine di apprezzamento (sentenza Wallishauser c. Austria (n.2), 20 giugno 2013,§ 65), poiché, per la conoscenza diretta della loro società e delle sue esigenze, le autorità nazionali sono in linea di massima in una posizione migliore del giudice internazionale per decidere cosa sia nel “pubblico interesse” (sentenza Azienda agricola Silverfunghi e altri c. Italia, 24 giugno 2014, § 103).

L’eliminazione delle disposizioni discriminatorie e il controllo della spesa pubblica sono considerati fini legittimi per meglio garantire la giustizia sociale e tutelare il benessere economico dello Stato (così sentenza Stefanetti e altri c. Italia, 15 aprile 2014, § 56).

Ribadisce, inoltre, la Corte che è necessario vi sia il giusto equilibrio (fair balance) tra le esigenze dell’interesse generale e l’obbligo di proteggere i diritti fondamentali della persona; ciò che non sussiste se l’interessato sopporta un “onere individuale eccessivo” (cfr. Sporrong e Lonnroth c. Svezia, 23 settembre 1982, § 69-74; Vékony c. Ungheria, 13 gennaio 2015 § 35).

7.6. Per le chiare indicazioni della Corte costituzionale, in consonanza con la Corte EDU, può escludersi ogni dubbio di contrasto con il principio del legittimo affidamento (come corollario del principio di certezza dei rapporti giuridici) della normativa qui in esame.

Pur volendo dire legittimamente maturata l’aspettativa dei consiglieri c.d. laici alla conservazione del favorevole trattamento economico in godimento all’entrata in vigore dei commi 458 e 459 dell’articolo 1 della l. n. 147 del 2013, è certo che le nuove regole rispondano ad interessi generali (che hanno cioè “causa normativa adeguata”); ciò che rende ragionevole la decisione in punto di loro immediata applicazione.

La nuova disciplina del trattamento economico del dipendente pubblico alla cessazione dell’incarico risponde ad un’esigenza di contenimento della spesa pubblica, poiché porta alla soppressione di quel surplus di retribuzione (l’assegno ad personam) – non correlata all’attività svolta al rientro presso l’amministrazione di appartenenza né conseguente all’anzianità maturata – percepita per il solo fatto del pregresso svolgimento dell’incarico.

Ragioni di contenimento della spesa pubblica, come detto, possono giustificare l’immediata modifica della disciplina dei rapporti in corso di svolgimento, dovendo il legislatore fronteggiare subito l’avvertito eccessivo dispendio di denaro pubblico.

In secondo luogo, attraverso l’innovativa disposizione sono eliminate ragioni di differenziazione dei trattamenti economici all’interno della stessa amministrazione: prevedendo che alla cessazione dell’incarico sia corrisposto al dipendente “un trattamento pari a quello attribuito al collega di pari anzianità” il legislatore riconosce che il tempo della durata dell’incarico c.d. esterno valga ai fini dell’anzianità di servizio – a sua volta rilevante, per quel che si ricava dalla norma, ai fini economici – come la continuativa attività lavorativa che per lo stesso periodo sia svolta all’interno dell’amministrazione, dando così alle due carriere – quella che per un tratto si svolge fuori dall’amministrazione e l’altra integralmente al suo interno – pari dignità quanto alla maturazione del trattamento economico.

Il superamento di disparità di trattamento tra situazioni (identiche o) assimilabili, più di ogni altra ragione, giustifica interventi legislativi di immediata applicazione: ove il legislatore del tempo presente rilevi l’esistenza di ragioni di disparità è tenuto per imperativo costituzionale (art. 3 Cost.) a porvi immediatamente rimedio senza attendere oltre – fissando, cioè, un momento futuro per l’efficacia delle nuove regole, e così, però, consentendo che tale ingiusta situazione si perpetui ancora.

Ciò naturalmente fatti salvi i diritti quesiti e consumati, ossia quei diritti che siano entrati nella loro interezza nella sfera giuridica del destinatario in ragione di un fatto generatore verificatosi nel passato e i cui effetti nel passato si sono integralmente prodotti (cfr. Cons. Stato, sez. I, 28 dicembre 2021, n. 1984, che si occupa di tale problema in relazione alle sentenze che dichiarano l’illegittimità costituzionale di una norma, ma con argomenti di portata generale).

7.7. Le considerazioni da ultimo svolte valgono ancor più per lo specifico caso qui in esame del trattamento riservato ai consiglieri c.d. laici del C.S.M. al rientro nella amministrazione di appartenenza; l’effetto abrogativo del comma 458 come precedentemente ricostruito infatti porta a definire un unico trattamento dei consiglieri eletti dal Parlamento alla cessazione dell’incarico a fronte delle differenti discipline prima esistenti in ragione della categoria di provenienza al momento dell’elezione.

Occorre, infatti, considerare che il secondo comma dell’art. 3, l. n. 312 del 1971 prevede che “L’attribuzione dell’assegno personale di cui al comma precedente esclude la concessione dell’indennità di cui all’articolo 1 della presente legge”; a sua volta l’articolo 1 richiamato prevede che: “Ai componenti del Consiglio superiore della magistratura eletti dal Parlamento è corrisposta, all’atto della cessazione dalla carica per decorso del quadriennio un’indennità di importo complessivo pari all’ultimo assegno mensile corrisposto moltiplicato per dodici”.

Essendo i professori universitari destinatari dell’assegno personale di cui al primo comma dell’art. 3 l. n. 312 del 1971, quest’ultima indennità era riconosciuta agli avvocati eletti consiglieri del C.S.M. dal Parlamento; essi, infatti, alla cessazione dell’incarico non potevano godere dell’assegno ad personam.

Il trattamento differenziato – evidentemente più favorevole per i professori che per un lungo periodo avrebbero potuto godere di ulteriori somme per essere stati consiglieri del C.S.M . – è ora superato, spettando ad entrambe le figure professionali che per dettato costituzionale possono essere eletti dal Parlamento componenti del C.S.M., la medesima indennità alla cessazione dalla carica.

Tale indennità, poi, garantisce agli uni e agli altri il giusto compenso stabilito dalla legge per il particolare sacrificio sostenuto per lo svolgimento dell’incarico di particolare rilevanza costituzionale, come precedentemente rammentato.

7.8. La misura è infine proporzionata: l’appellato, proprio in quanto privato di un surplus di retribuzione riferita ad un incarico ormai passato, non supporta alcun “onere individuale eccessivo”, di modo che si può ben dire raggiunto il giusto bilanciamento (fair balance) tra interesse generale e diritti fondamentali della persona.

7.9. In conclusione, al secondo quesito posto dalla Sezione rimettente può darsi risposta nel senso che le nuove disposizioni si applicano ai ratei da corrispondersi a partire dal 1°febbraio 2014, anche se il conferimento dell’incarico di componente c.d. laico del C.S.M. sia avvenuto antecedentemente alla data di entrata in vigore della l. n. 147 del 2003 e senza che ciò comporti lesione del legittimo affidamento maturato dal consigliere.

7.10. Vanno dichiarati manifestamente infondati i dubbi di costituzionalità sollevati dall’appellato.

8. Risolte nel senso di cui sopra i quesiti la controversia va rimessa alla Sezione remittente per l’esame dei motivi riproposti dall’appellato e per la decisione sulle spese.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), non definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, enuncia i principi di diritto di cui in motivazione e restituisce gli atti alla Sezione.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 maggio 2022 con l'intervento dei magistrati:

Franco Frattini, Presidente

Luigi Maruotti, Presidente

Carmine Volpe, Presidente

Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente

Luciano Barra Caracciolo, Presidente

Marco Lipari, Presidente

Ermanno de Francisco, Presidente

Hadrian Simonetti, Consigliere

Oberdan Forlenza, Consigliere

Giulio Veltri, Consigliere

Fabio Franconiero, Consigliere

Federico Di Matteo, Consigliere, Estensore

Alessandro Verrico, Consigliere


[1] La questione è stata deferita all’Adunanza plenaria dalla Settima Sezione del Consiglio di Stato con ordinanza 8 marzo 2022, n. 1672, recante i seguenti quesiti:

“a) se le disposizioni normative di cui all’art. 1, commi 457 e 458, della l. n. 147 del 2013, nonché quelle di cui all’articolo 8, comma 5, della legge n. 370 del 1999 (nel testo vigente) siano applicabili anche ai componenti cc.dd. laici del Consiglio superiore della Magistratura (con la conseguenza di rendere inapplicabili nei loro confronti l’istituto dell’assegno ad personam) ovvero se questi ultimi siano esclusi dalla applicazione delle norme ivi contenute, anche in ragione del particolare munus ad essi affidato (art. 104, comma 4, Cost.)”;

“b) (in caso di risposta affermativa al primo quesito) se le disposizioni normative de quibus siano applicabili ai ratei da corrispondersi a partire da 1° febbraio 2014, anche se il conferimento dell’incarico di componente c.d. laico del Consiglio superiore della Magistratura sia avvenuto antecedentemente alla data di entrata in vigore della l. n. 147/2013”.