Sommario - Parte Prima: La capacità di diritto comune dell’amministrazione pubblica - Premessa – 1. L’autorità e il consenso – 2. Le origini della privatizzazione del diritto amministrativo –- 3. La privatizzazione del diritto amministrativo – 4. Inquadramento delle problematiche – 5. La capacità giuridica di diritto comune dell’amministrazione pubblica – 6. Il riconoscimento positivo della capacità generale di diritto privato dell’amministrazione pubblica – 7. I limiti alla capacità di diritto privato dell’amministrazione pubblica.

 

 

PARTE PRIMA: LA CAPACITA’ DI DIRITTO COMUNE DELL’AMMINISTRAZIONE PUBBLICA

Premessa

 

Il tema qui attenzionato dell’attività contrattuale dell’amministrazione pubblica sottende l’attuale dibattito scientifico e culturale sul rapporto fra diritto pubblico e diritto privato: l’utilizzo da parte del diritto amministrativo degli schemi tipici del diritto privato.

Pugliatti affermava che ogni crisi del diritto riconduce lo studioso alla distinzione tra diritto pubblico e diritto privato (S. Pugliatti, diritto pubblico e diritto privato, in Enc. Dir., XII, Milano, 1964, p. 697). Decenni dopo, Cassese definisce il diritto amministrativo come un “diritto meticcio”, frutto di un’”unione turbolenta” tra diritto privato e diritto amministrativo che “costringe a riflettere sulla solidità degli strumenti del giurista più elementari” (S. Cassese, Le droit tout puissant et unique de la societè. Paradossi del diritto amministrativo, in Riv. trim. dir. pubbl. 2009, p. 886).

Per vero che il diritto amministrativo sia tale appare tutt’altro singolare, ove si pensi che il diritto privato inteso quale insieme di capacità, di situazioni soggettive e di rapporti che ciascun soggetto dell’ordinamento positivo, persona fisica ovvero persona giuridica, sia pure con taluni limiti può utilizzare è diritto comune a tutti gli operatori giuridici e fra essi i soggetti preposti all’esercizio della funzione di amministrazione: le amministrazioni pubbliche complessivamente intese.

Eppure l’”unione” fra diritto privato e diritto amministrativo si è manifestata fin dal principio come un’”unione turbolenta”. Con la conseguenza che l’interprete è stato chiamato a ricercare e studiare possibili forme di una pacifica convivenza. E ancora è investito di tale ruolo nella consapevolezza del monito del Consiglio di Stato secondo cui “occorre … guardarsi dal rischio, invero latente nell’applicazione, talvolta non ben ponderata, dei principi generali quali elementi capaci di unificare, connettere e completare i diversi ambiti dell’ordinamento giuridico, di trasporre nel diritto amministrativo istituti e categorie civilistiche laddove non vi sia effettivamente una lacuna legis da colmare per il solo superficiale accostamento di fenomenologie giuridiche che, ad un’analisi attenta e rispettosa degli specifici profili disciplinatori, rispondono a principi e ad interessi ben diversi e in alcun modo assimilabili, nemmeno per via analogica, istituendo tra i due settori dell’ordinamento parallelismi, anche descrittivi, forieri di equivoci, di ibride soluzioni normative e di distorsioni interpretative” (Cons. St., sez. III, 2 settembre 2013, n. 4364).

Il compito riservato agli studiosi e alla giurisprudenza, come si avrà modo di illustrare nel proseguo, si è rivelato nel tempo arduo e insidioso.

 

 

1. L’autorità e il consenso

 

L’“l’unione” fra diritto amministrativo e diritto privato reca con sè la compresenza nelle diverse forme dell’alternatività, della concorrenza o ancora della sovrapposizione di schemi molto distanti fra di loro perché fondati su principi, categorie e poteri non differenti ma diametralmente opposti.

Tale distanza emerge con palmare evidenza proprio nell’alveo dell’attività contrattuale, laddove gli strumenti del diritto amministrativo sottendono il concetto di autorità, quelli del diritto privato il concetto di consenso.

Strumento tipico del diritto amministrativo è l’atto autoritativo detto provvedimento amministrativo, strumento per eccellenza del diritto civile è il negozio giuridico, in specie il contratto.

A lungo si è pensato che l’attività amministrativa assumesse solo la forma esteriore di atti amministrativi. Strumento di azione principe dell’amministrazione, l’atto amministrativo esprimeva “l’essenza stessa di una gestione esecutiva del potere” (L. Mannori e B. Sordi, Storia del diritto amministrativo, Roma-Bari, 2001, X).

La dottrina di matrice liberale concepiva l’amministrazione pubblica quale autorità che poneva in essere atti, definiti d’imperio ovvero manifestazioni di sovranità, espressione di una posizione di privilegio considerata naturale, idonei a incidere unilateralmente nella sfera giuridica dei cittadini (M.S. Giannini, voce Atto amministrativo, in Enc. dir., vol. IV, Milano, 1959, 157 ss.; F. Levi, voce Legittimità (dir. amm.), in Enc. dir., vol. XXIV, Milano, 1974, 131 ss.; E. Casetta, voce Provvedimento e atto amministrativo, in Dig. disc. pubbl., vol. XII, Torino, 1997, 244).

Secondo la nozione teorizzata da Otto Mayer, l’atto amministrativo era “la pronuncia autoritativa di pertinenza dell’amministrazione, determinativa nel caso singolo per l’amministrato di ciò che per lui dev’essere conforme a diritto” (O. Mayer, Deutsches Verwaltungsrecht, Leipzig, 1895-96, vol. I, 64-65, 93, nella traduzione di M.S. Giannini, voce Atto amministrativo, cit., 161)

Fin dal principio traspare il “duplice volto dell’atto amministrativo” (M. Nigro, Giustizia amministrativa, VI ed., (a cura) di E. Cardi e A. Nigro, Bologna, 2002, 29; D. Sorace, Promemoria per una voce “atto amministrativo”, in Scritti in onore di M.S. Giannini, vol. III, Milano, 1988, 748-749): massima manifestazione dell’autorità, quale sintesi della superiorità del potere pubblico che decide, ordina, trasforma unilateralmente situazioni giuridiche private e detiene poteri relativi alla gestione del rapporto instaurato con il privato, e nel contempo espressione di garanzia, quale tensione verso la cura concreta degli interessi della collettività e come possibilità di tutela giurisdizionale. Si è parlato a tale riguardo di “miscuglio d’autoritarismo e di liberalismo”, atteso che l’atto amministrativo è “insieme precipitato puro della volontà dell’amministrazione … e veicolo d’introduzione della legalità nello spiegamento dell’azione di questa, il luogo insomma in cui confluiscono tutti gli elementi componenti lo stato liberale e si annullavano tutte le contraddizioni del medesimo” (M. Nigro, Giustizia amministrativa, cit., 77).

In seguito agli studi di Ranelletti l’atto amministrativo è inteso quale diritto del caso concreto adottato al fine di soddisfare gli interessi generali. Nozione che evoca quella che sarà poi definita funzionalizzazione. L’amministrazione opera sempre in vista d’interessi della collettività di cui essa si presenta come “curatrice ovvero tutelatrice e curatrice insieme”. Il che dimostra che essa ha per fine diretto della propria attività l’interesse pubblico e, dunque, opera come autorità secondo le norme del diritto pubblico (O. Ranelletti, Concetto e natura delle autorizzazioni e concessioni amministrative, in Giur. it., 1894, IV, 7 ss.)

Fino agli Anni Trenta del secolo scorso l’atto amministrativo era studiato avendo riguardo alla teoria privatistica del negozio e dell’atto giuridico.

Nel tempo si sono susseguite numerose definizioni di atto amministrativo che rivelano l’intento della ricerca di una simmetria con il negozio giuridico di diritto privato. Da quella di Santi Romano “la pronuncia speciale di un’autorità nell’esercizio di una funzione amministrativa” (S. Romano, Principii di diritto amministrativo, Milano, 1901, 43), a quella di Zanobini “qualunque dichiarazione di volontà, di desiderio, di conoscenza, di giudizio, compiuta da un soggetto della pubblica amministrazione nell’esercizio di una potestà amministrativa” (G. Zanobini, Corso di diritto amministrativo, vol. I, VIII ed., Milano, 1958, 245) e, ancora, a quella di Ranelletti e Amorth “una dichiarazione concreta di volontà, di giudizio, di scienza, ecc., di organo amministrativo nell’esplicitamento della attività di amministrazione” (O. Ranelletti e A. Amorth, voce Atti amministrativi, in Nuovo Dig. it., vol. I, Torino, 1937, 1091 ss; A. Amorth, Scritti giuridici, vol. I, Milano, 1999, 157).

Su tale scia si collocano l’affermazione di Cammeo secondo cui “anche gli atti giuridici di diritto privato sono da annoverare tra gli atti amministrativi” (F. Cammeo, Corso di diritto amministrativo, Milano, (1911-1914), ristampa con nota a cura di G. Mele, Padova, 1960, 552) nonchè le distinzioni fra atti d’imperio e atti di gestione e fra atti d’imperio e atti paritetici (dovuta quest’ultima a G. Fagiolari, L’Atto amministrativo nella giustizia amministrativa, in Scritti giuridici in onore di S. Romano, vol. II, Padova, 1940, 296).

Soltanto con Giannini l’atto amministrativo ha conquistato l’emancipazione dal negozio giuridico di diritto privato.

L’atto amministrativo è così definito in relazione alla propria funzione e non più alla struttura di dichiarazione di volontà. E da tale impostazione ne è conseguita, in specie, una concezione della volontà non come fatto psichico reale ma in termini oggettivi, per poi diventare volontà procedimentale.

E sempre grazie a Giannini si perviene all’emersione della categoria di provvedimento amministrativo, “atto amministrativo per eccellenza”, entro la nozione lata di atto amministrativo, sebbene il termine “provvedimento” fosse già utilizzato in precedenza quale sinonimo di atto amministrativo (E. Casetta, voce Provvedimento, cit., 247).

Si è osservato a tale riguardo che il provvedimento amministrativo “nasce dalla costola dell’atto amministrativo, come sua species eminente” (F.G. Scoca, La teoria del provvedimento dalla sua formulazione alla legge sul procedimento, in S. Amorosino, (a cura di), Le trasformazioni del diritto amministrativo. Scritti degli allievi per gli ottanta anni di M.S. Giannini, Milano, 1995, 257).

Pochi Autori dopo Giannini si sono ancora cimentati nella definizione di provvedimento amministrativo. E, dunque, è questa la teorizzazione accolta ancora oggi dalla dottrina prevalente.

Secondo tale ricostruzione, è provvedimento amministrativo l’atto amministrativo autoritativo, che realizza in via diretta la cura di un interesse pubblico, è dotato di imperatività e assistito da autotutela, intesa l’imperatività come idoneità a produrre l’effetto di ridurre ovvero cancellare diritti soggettivi dell’amministrato e l’autotutela come idoneità dell’atto a essere eseguito dal suo stesso autore.

I provvedimenti “hanno tutti un tratto comune, che ne costituisce la fine sostanza: di essere l’affermazione del momento dell’autorità … ogni volta che l’amministrazione agisce con un provvedimento amministrativo, essa attua il momento dell’autorità, e sopprime o comprime la libertà di taluni amministrati; puntualizza, nel caso concreto, i rapporti autorità-libertà. Anche nei provvedimenti concessori ciò avviene, perché l’attribuzione ad un privato di un beneficio particolare comporta l’incisione nella libertà degli altri” (M.S. Giannini, voce Atto amministrativo, cit., 160, 164). Così, anche altri Autori affermano che il provvedimento “è una manifestazione concreta di un potere d’imperio”, mentre i meri atti “specificano e, per così dire, sviluppano il contenuto delle posizioni preesistenti” (F. Benvenuti, Appunti di diritto amministrativo, V ed., Padova, 1987, 91), e che sono provvedimenti amministrativi “solo gli atti di volontà dotati di autoritarietà e cioè della capacità di incidere sulle posizioni giuridiche dei soggetti” (P. Virga, Diritto amministrativo. Atti e ricorsi, VI ed., Milano, 2011, 5).

L’autorità o autoritatività, secondo la dottrina maggioritaria, “designa una nozione strettamente tecnico-giuridica, alla quale non sono consoni i sovraccarichi ideologici derivanti dal collegamento, ormai definitivamente spezzato, con la nozione di sovranità” (F.G. Scoca – E. Follieri, L’attività amministrativa e la sua disciplina, in Diritto amministrativo, (a cura di) F.G. Scoca, Giappichelli, Torino, 2017, 174). La funzione amministrativa ormai da tempo si è invero spogliata delle vesti delle funzioni sovrane per assumere il ruolo differente di attività di servizio, più coerente con l’idea di sovranità popolare.

L’autorità è dunque connotazione del potere, in specie, del potere precettivo dell’amministrazione, laddove per precettività deve assumersi la capacità nell’esercizio del potere di elaborare la regolazione degli interessi pubblici e di quelli privati coinvolti. Ed è propria altresì del provvedimento amministrativo con cui tale potere si esercita, in disparte la natura favorevole ovvero sfavorevole degli effetti (E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Giuffrè Editore, Milano, 2013, 596).

Tecnicamente intesa l’autorità è dunque “eteroregolazione”; il potere autoritativo è “potere di disciplinare interessi altrui anche senza il consenso (e il consenso determinante) dei titolari degli interessi da disciplinare” (F.G. Scoca – E. Follieri, L’attività amministrativa e la sua disciplina, cit., 174) e si manifesta di norma in atti precettivi unilaterali. Si può esprimere altresì in atti bilaterali o consensuali, come nell’ipotesi degli accordi previsti dalla legge sul procedimento amministrativo, pur conservando la propria autoritatività, perchè il consenso non è in tal caso requisito necessario ai fini della disciplina degli interessi privati.

Il potere amministrativo non si può invece ritenere autoritativo ove il consenso del privato condizioni l’adozione del regolamento di interessi come nei contratti a evidenza pubblica.

E’ pur vero che anche nel diritto amministrativo sono presenti atti consensuali. Tuttavia essi non sono riconducibili nel novero degli atti consensuali propri del diritto comune, perché promanano da un potere differente rispetto a quello privato. Invero, in tutti gli atti consensuali siano essi necessari ovvero meramente eventuali il potere esercitato dall’amministrazione pubblica non è mai un potere libero e dunque qualificabile in senso pieno come autonomia privata, ma è pur sempre potere amministrativo.

Il potere esercitato dall’amministrazione, autoritativo ovvero non autoritativo, è in ogni caso soggetto allo statuto tipico dell’azione amministrativa. Statuto giuridico che rinviene il proprio fondamento nella Costituzione e non si limita a imprimere il c.d. vincolo di scopo finalizzandolo alla cura dell’interesse pubblico, ma lo sottopone a una serie di regole formali e sostanziali. Le prime, si sostanziano nel principio del procedimento, le seconde, in particolare nei principi di imparzialità, di proporzionalità e di trasparenza. L’azione dell’amministrazione non è dunque solo funzionale all’interesse pubblico, ma si deve svolgere secondo le regole del procedimento e deve scegliere le soluzioni che senza compromettere l’interesse pubblico in concreto soddisfino nella misura maggiore possibile gli interessi privati coinvolti.

L’amministrazione agisce secondo valutazioni discrezionali anziché libere ed è sempre tenuta a osservare i principi effettivamente vigenti adeguandosi alle esigenze di perseguire l’interesse pubblico e a rispettare le situazioni soggettive del privato.

Non si frappongono ostacoli a che essa si manifesti in atti consensuali di diritto comune ovvero di diritto speciale. Tuttavia, l’attività consensuale non può essere ricondotta a una situazione soggettiva rispondente ai caratteri propri dell’autonomia contrattuale, atteso che l’amministrazione non può liberamente determinare il contenuto del contratto ai sensi dell’art. 1322, comma 2 c.c. ovvero dell’atto consensuale in generale. Viceversa deve essere riferita al potere amministrativo cioè a un potere precettivo funzionalizzato, vincolato nel fine, disciplinato nella forma e nella sostanza.

Non si può invero dimenticare che “l’atto amministrativo è potere derivato dalla legge”, un atto giuridico è al più “espressione di semplice autonomia pubblica” (R. Cavallo Perin, Atto autoritativo e diritto amministrativo, (a cura di) S. Perongini, Al di là del nesso autorità/libertà: tra legge e amministrazione, Atti di convegno. Salerno, 14-15 novembre 2014, Giappichelli, 2014, Torino).

Tali considerazioni inducono a evidenziare, per quanto d’interesse, come il potere che l’amministrazione esercita quale autorità s’inscriva dunque nella categoria più generale del potere giuridico ma presenti caratteri del tutto peculiari.

Anzitutto, non è conferito a tutti i soggetti dell’ordinamento. Titolari del potere cioè dell’attribuzione e competenza in senso ampio sono solo taluni soggetti individuati dalla norma, mentre il potere giuridico è conferito in via generale e astratta a ogni soggetto dell’ordinamento. Così il potere di concludere contratti è manifestazione dell’autonomia attribuita a tutti i soggetti, viceversa il potere amministrativo di espropriazione può essere esercitato soltanto dagli organi individuati come competenti dall’ordinamento.

Inoltre, il potere dell’amministrazione produce gli effetti previsti dall’ordinamento costituendo, modificando ovvero estinguendo le situazioni giuridiche soggettive senza che sia necessario il consenso del destinatario degli stessi. Il che, come rammentato consiste, proprio essere il potere espressione di autorità. Nei rapporti tra i soggetti dell’ordinamento, di regola, è invece necessario il consenso degli interessati al fine di trasformare le situazioni giuridiche soggettive.

Infine, il potere dell’amministrazione si manifesta attraverso l’adozione di un atto tipico, il provvedimento amministrativo, regolato dalle norme giuridiche per quanto attiene ai presupposti, al procedimento, all’oggetto e agli effetti. Il potere giuridico invece si estrinseca in una pluralità di atti tipici ma anche atipici, secondo un’impostazione libera e correlata alla posizione di autonomia propria di ogni soggetto dell’ordinamento. Invero, le parti possono porre in essere negozi atipici stabilendo contenuti ed effetti giuridici non predeterminati dalle norme purchè “diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico” (art. 1322 c.c.).

Il potere dell’amministrazione si confronta di regola con la situazione giuridica soggettiva di interesse legittimo che ha una struttura e tutela diversa rispetto a quella del diritto soggettivo.

Sia il negozio giuridico sia il provvedimento amministrativo sono espressione di volontà, ma le forme di manifestazione della medesima sono differenti proprio in considerazione dell’alterità dei principi e poteri a essi sottesi.

Il provvedimento amministrativo è il risultato della sola volontà dell’amministrazione, che impone unilateralmente le proprie scelte adottando atti connotati dai caratteri dell’imperatività ed esecutorietà.

La legge assegna il provvedimento a una figura soggettiva ai fini dell’imputazione formale dello stesso. Imputazione che di norma è fatta  ex lege a una persona giuridica, l’ente pubblico, differente dalla persona fisica da cui promana il provvedimento. Ne consegue che non vi è coincidenza tra l’imputazione psicologica e l’imputazione giuridica e dunque la volizione della persona fisica differisce dalla “volontà” dell’atto che è viceversa oggettiva e spersonalizzata.

Componente fondamentale del provvedimento è la volontà intesa quale volontà procedimentale.

Il provvedimento amministrativo consiste, più precisamente, in una manifestazione di volontà, adottata dall’amministrazione all’esito di un procedimento al cui interno si acquisiscono notizie e interessi pubblici e privati inerenti la situazione concreta, volta alla cura di un concreto interesse pubblico e diretta a produrre unilateralmente effetti giuridici nei rapporti esterni con i destinatari.

La teoria funzionale-procedimentale, oggi prevalente, spiega infatti il provvedimento in base al principio procedimentale: il provvedimento è lo strumento attraverso il quale l’amministrazione, in seguito all’esame della situazione e degli interessi coinvolti e in base a un potere conferitole da una norma di legge, persegue concretamente interessi pubblici così da produrre effetti giuridici a prescindere dalla validità dello stesso e senza bisogno di una collaborazione da parte del destinatario.

Il provvedimento è sempre caratterizzato dal perseguimento unilaterale di interessi pubblici e dalla produzione unilaterale di vicende giuridiche sul piano dell’ordinamento generale in ordine a situazioni giuridiche dei privati. Laddove per unilateralità si intende la determinazione unilaterale del contenuto dell’atto.

La possibilità per l’amministrazione pubblica di produrre una vicenda giuridica in una fattispecie concreta ha come presupposto il fatto che il legislatore abbia ritenuto prevalente l’interesse pubblico rispetto a quello privato, attribuendo il potere all’amministrazione il potere, descrivendo gli elementi in cui esso si articola destinati a trasfondersi nel provvedimento e individuando il tipo di effetto prodotto sulla situazione giuridica del destinatario dello stesso.

Di qui l’esigenza di una previa definizione della tipologia di vicenda giuridica prodotta dall’esercizio del potere. E in ciò consiste la tipicità del provvedimento amministrativo.  Manifestazione diretta del principio di legalità, è correlata anzitutto agli effetti di modificazione delle situazioni giuridiche soggettive di terzi.

L’amministrazione al fine di realizzare gli effetti tipici può fare ricorso soltanto agli schemi individuati dalla legge in ossequio al principio di nominatività che governa sia il provvedimento sia il potere esercitato dall’amministrazione.

La tradizionale caratteristica del contratto si può di contro rinvenire nell’accordo delle parti ovverossia nell’incontro delle reciproche manifestazioni di volontà di contrarre obbligazioni.

Il contratto e, più in generale, il negozio giuridico è fondato sulla volontà comune e condivisa ovverossia sul consenso liberamente manifestato dalle parti.

Il diritto privato presenta ipotesi d’incisione negoziale unilaterale: si pensi ai contratti collettivi non aventi efficacia erga omnes, agli atti dismissivi di diritti, al negozio unilaterale secondo lo schema di cui all’art. 1333 c.c. e alla gestione di affari altrui. Il diritto potestativo più in generale nel diritto civile costituisce la forma più invasiva di potere giuridico unilaterale che s’impone al destinatario, costringendolo a tollerare l’esercizio dello stesso. Tuttavia, diversamente da quanto avviene nel diritto amministrativo, si tratta di forme d’incisione condivise, perché ex ante è intercorsa la stipulazione di un contratto che prevede l’esercizio di siffatti poteri ancorchè dirompenti ovvero, pur in mancanza dell’accordo, gli effetti unilateralmente prodotti sono favorevoli e comunque rifiutabili dal destinatario.

Dal diritto amministrativo e dal diritto civile emerge una tensione continua fra consensualità e unilateralità. Tuttavia, il connotato dell’unilateralità è tipico del diritto amministrativo più che del diritto privato.

I problemi che hanno occupato gli interpreti allorchè si siano trovati a confrontarsi con il tema dell’attività contrattuale dell’amministrazione pubblica sottendono tutti, sia pure in forma diversa, la difficoltà estrema di rinvenire una qualche forma di armonia fra i modelli privatistici e quelli pubblicistici. Ed è così che ben si comprende il pensiero di chi ha rilevato che “in questo campo emerge prepotentemente la tematica della coesistenza dell’autorità e del consenso, nonostante tutto sia vissuto in un assetto di carattere pubblicistico, comprensivamente dell’attività consensuale” (G. Mastrandea, L’attività contrattuale di diritto privato delle Aziende sanitarie tra normativa e giurisprudenza: il caso delle forniture di beni e servizi “sotto soglia”, in www.giustizia-amministrativa.it ).

 

 

2. Le origini della privatizzazione del diritto amministrativo

 

Per vero, l’utilizzo del diritto privato da parte dell’amministrazione non è un fenomeno nuovo nel nostro ordinamento, ma ha radici molto risalenti nel tempo.

A ben riflettere si tratta più di un “ritorno alle origini” che non di un fenomeno innovativo, “quando si riteneva naturale che l’amministrazione procedesse per consenso nei confronti dei privati” (G. Berti, Dalla unilateralità alla consensualità nell’azione amministrativa, in L’accordo nell’azione amministrativa (Quaderni Regionali Formez), Roma, 1988, 25 ss.).

In principio non esisteva una disciplina speciale dell’azione amministrativa.

Al tempo della formazione dello Stato italiano e sino alla fine del secolo XIX, la dottrina e la giurisprudenza erano unanimi nel ritenere che mancando schemi diversi cui avere riguardo non si potesse che fare riferimento ai concetti messi a disposizione dalla speculazione privatistica e che, dunque, l’unica normativa applicabile agli atti dell’amministrazione fosse il diritto privato o diritto comune. Le concessioni, le convenzioni pubblicistiche, le autorizzazioni, gli atti di costituzione del rapporto di pubblico impiego, l’espropriazione per pubblica utilità e in generale tutti gli atti in seguito denominati ablatori che presupponevano il consenso dei soggetti privati ovvero incidevano sui propri interessi erano costruiti come atti consensuali.

L’assenza di una disciplina ad hoc per l’amministrazione rinveniva la propria ratio nella teorica, prima dello Stato assoluto, poi dello Stato di polizia. Risale a tale periodo la distinzione tra atti iure imperii e atti iure gestionis. Lo Stato sovrano era considerato legibus solutus: allorchè necessitassero atti sovrani, iure imperii, non esistevano regole giuridiche, ove si richiedessero atti consensuali, iure gestionis, si applicava il diritto privato.

L’attività di diritto privato dello Stato veniva giustificata, dapprima, in virtù dello sdoppiamento di personalità tra Stato, ente sovrano, e Fisco, ente idoneo a operare solo su base paritetica in quanto privo di sovranità; in un secondo tempo, in forza del riconoscimento in capo allo Stato di una doppia capacità, di diritto pubblico e di diritto privato.

In seguito all’avvento dello Stato di diritto e al contestuale affermarsi del principio di legalità, l’amministrazione veniva assoggettata alla legge ma una disciplina speciale continuava a non esistere.

Il ricorso a strumenti di diritto comune fu avallato anche dalla legge c.d. di unificazione amministrativa del 1865 che prevedeva la giurisdizione del giudice ordinario per le controversie aventi a oggetto i rapporti tra privati e amministrazione. Gli schemi utilizzati normalmente dal giudice erano infatti di matrice privatistica.

Tuttavia, fu proprio la dottrina privatistica a revocare in dubbio la costruzione degli atti ablatori quali accordi ovvero atti consensuali. Maturò la consapevolezza che tali atti fossero in realtà manifestazione del “potere imperante dell’autorità”.

Il tema è stato preso in considerazione nuovamente dalla legge n. 5592 del 1889, istitutiva della Quarta Sezione del Consiglio di Stato, nonchè dalla successiva giurisprudenza amministrativa, che iniziarono a ritenere che l’amministrazione nella cura dell’interesse pubblico fosse titolare di poteri unilaterali, dunque esercitabili senza necessità del consenso da parte dei destinatari.

L’attività amministrativa, inizialmente disciplinata dal diritto privato, diritto comune a tutti gli operatori giuridici, è stata via via sottoposta a regole particolari, elaborate in considerazione del ruolo rivestito dell’amministrazione all’interno dell’ordinamento e dell’esigenza di provvedere alla cura del pubblico interesse.

A tale evoluzione hanno contribuito il legislatore, la giurisprudenza e la dottrina così partecipando, sia pure in misura differente, della costruzione di un diritto speciale dell’amministrazione, il diritto amministrativo.

Sono state poste le premesse per la ricostruzione degli atti dell’amministrazione come manifestazione di poteri unilaterali. Le concessioni, le autorizzazioni, gli atti costitutivi del rapporto di pubblico impiego e tutti gli atti ablatori sono considerati atti unilaterali. In seguito, si afferma la figura dell’atto autoritativo caratterizzato da imperatività, esecutività ed esecutorietà.

Il formarsi della disciplina tipica del diritto amministrativo tra l’ultimo decennio del 1800 e i primi decenni del 1900, tuttavia, non reca con sé una distanza incolmabile tra azione amministrativa e disciplina privatistica.

Invero, come si è già avuto modo di rammentare, l’atto amministrativo è studiato per molto tempo quale negozio giuridico e la disciplina della perfezione e della validità è elaborata seguendo il modello offerto dalla discipline privatistiche. Inoltre, accanto agli atti unilaterali persistono atti consensuali, in specie contratti, disciplinati dalle leggi sulla contabilità di Stato che si sono susseguite nel tempo.

L’attività amministrativa viene peraltro a essere soggetta in parte al diritto pubblico e in parte al diritto privato. Accanto alla nozione di attività amministrativa tout court soggetta al diritto pubblico la dottrina elabora quella di attività amministrativa di diritto privato, così venendosi a creare un doppio statuto giuridico. 

 

 

3. La privatizzazione del diritto amministrativo

 

Invero, l’originaria lacuna di una disciplina tipica del diritto amministrativo nel tempo è stata colmata ma l’amministrazione ha perseverato storicamente nel fare ricorso agli strumenti privatistici.

Strumento per eccellenza del diritto comune è il contratto. Nell’ambito delle attività di diritto privato svolte dall’amministrazione la più rilevante risulta dunque essere proprio quella contrattualistica.

L’importanza che il contratto ha assunto nell’azione dei pubblici poteri altro probabilmente non è che un riflesso di quel fenomeno, descritto da Francesco Galgano, per il quale “il principale strumento dell’innovazione giuridica è il contratto” e il contratto ”prende il posto della legge in molti settori della vita sociale. Si spinge fino a sostituirsi ai pubblici poteri nella protezione di interessi generali” (Il diritto nella società post-industriale (Prolusione all’apertura dell’anno accademico 1991-1992 – Università di Bologna).

Le attività, le operazioni e gli atti giuridici in cui si realizza la funzione di amministrazione in un sistema come il nostro “a diritto amministrativo” di regola sono disciplinate da tale diritto. E così le organizzazioni attraverso le quali l’amministrazione si svolge, sono di norma pubbliche. Dotate o meno di personalità giuridica, sono rette da disciplina di diritto pubblico e non di diritto privato; differenziate del tutto perciò, quanto a normativa applicabile, da quelle contemplate nel codice, come afferma del resto l’art. 11 c.c..

Tuttavia, “sia sul versante dell’organizzazione sia su quello dell’attività”, è dato riscontrare una vasta presenza di norme e istituti privatistici: forme organizzative privatistiche, associazioni, fondazioni, società in luogo delle amministrazioni pubbliche come soggetti di diritto pubblico; contratti e altri atti negoziali anzichè provvedimenti amministrativi; situazioni dominicali, obbligazioni di pagamento e altri obblighi sottoposti alla disciplina del codice a fronte dei quali la tutela dei soggetti terzi segue le vie ordinarie. Quindi, una serie cospicua di istituti e rapporti in cui le amministrazioni operano quali soggetti di diritto comune, destinatari come gli altri delle norme dell’ordinamento generale. E si pone il problema, che presenta profili di dubbio ancora irrisolti, dei limiti e dell’estensione di tali capacità, di queste modalità di agire e di essere organizzati, dei pubblici poteri nella funzione di amministrazione anche con riguardo ai principi costituzionali, in specie l’art. 97, che paiono configurare uno statuto organizzativo e funzionale dell’amministrazione pubblica improntato a moduli pubblicistici (V. Cerulli Irelli, Diritto privato dell’amministrazione pubblica, Torino, Giappichelli, 2000).

Non può sfuggire che ormai da tempo è in atto una contrattualizzazione progressiva del diritto amministrativo che ha portato all’applicazione da parte dell’amministrazione dei moduli tipici del diritto privato.

Invero, già da molti anni si era affermato il principio, diventato poi diritto positivo, secondo cui che anche i soggetti di diritto pubblico, in quanto dotati di autonomia negoziale come ogni altro soggetto, possono fare ricorso al contratto e a tutti gli strumenti di diritto privato ritenuti idonei alla cura in concreto dell’interesse pubblico loro affidato.

Alle origini dello Stato “a diritto amministrativo” l’attività privata delle amministrazioni pubbliche era quella con cui esse “provvedevano a se stesse”. Tale attività, che non deve confondersi con l’attività di diritto privato che è attività amministrativa in senso proprio al pari di quella di diritto amministrativo in senso stretto, non era svolta per la cura di interessi pubblici e dunque era ricondotta sotto il governo del diritto comune.

Ridottosi il peso delle entrate patrimoniali a vantaggio di quelle tributarie, si ritenne già nell’’800 che anche l’attività privata delle amministrazioni pubbliche dovesse sottostare alla disciplina cui era assoggettata l’attività di diritto pubblico ricorrendo in entrambi i casi spendita di denaro pubblico. Anche questa attività fu attratta nell’area del diritto pubblico e oggi è quasi scomparsa, almeno nei termini in cui fu conosciuta alle origini dell’attività amministrativa. Il primo Autore ad aver attirato l'attenzione sull’attività privata dell’amministrazione pubblica è stato Amorth (A. Amorth, Osservazioni sui limiti dell’attività amministrativa di diritto privato, in Arch. Dir. Pubbl., 1938, 455).

La funzionalizzazione dell’attività privata era un’operazione tutt’altro che agevole; tuttavia, iniziò un processo di pubblicizzazione dei rapporti in origine privati: i servizi di trasporto gestiti dai pubblici poteri furono configurati quali concessioni e talune locazioni di immobili diventarono concessioni su beni pubblici.

A tal proposito Giannini ha osservato che quel che restava dell’attività di diritto privato era considerato prevalentemente come un’attività alternativa all’attività di diritto amministrativo in senso stretto nel senso che, ad esempio, se l’amministrazione avesse avuto necessità di un’area avrebbe potuto scegliere se acquistare ovvero espropriare (M.S. Giannini, Diritto amministrativo, vol. II, Milano, 1993, 344).

In seguito all’introduzione degli enti pubblici economici e delle imprese pubbliche, vaste aree di attività di amministrazioni pubbliche furono sottoposte al regime di diritto privato. E divenne gradualmente normale che le amministrazioni pubbliche svolgessero attività amministrativa di diritto pubblico ovvero attività amministrativa di diritto privato indifferentemente.

L’Autore ha osservato che, in tempi più vicini, sulla scia di quanto accadeva negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Francia e in Germania è stato introdotto anche in Italia un utilizzo sempre più frequente dello strumento negoziale, muovendo dall’assunto secondo cui strumenti fondati sul consenso siano preferibili a mezzi fondati sull’autorità. Il che si è concretizzato nell’estensione dell’accordo e del contratto ai rapporti non aventi contenuto patrimoniale ma concernenti attività; nella semplificazione dei procedimenti per la contrattazione pubblica, laddove quest’ultima ha visto ridursi lo spazio del procedimento amministrativo a vantaggio di quello contrattuale.

In tal modo si è affermata la convinzione che la funzione pubblica non esaurisce le forme possibili dell’azione amministrativa e si è radicata nel diritto positivo l’idea che l’amministrazione assume nell’ordinamento, oltre alla posizione di potestà anche quella propria delle associazioni private di autonomia negoziale. Con la conseguenza che essa svolge altresì attività espressione di potestà pubblica al pari dell’attività amministrativa in senso stretto nonostante l’utilizzo degli strumenti privatistici.

Il processo storico è approdato nella riforma introdotta dalla legge 19 febbraio 2005, n.15, la quale, nell’arricchire il novero dei principi generali ispiratori dell’attività amministrativa, stabilisce che l’amministrazione, quando adotta atti di natura non autoritativa, deve agire secondo le regole del diritto privato, finendo cosi per l’invertire il principio che aveva governato per due secoli l’attività amministrativa (art. 1, comma 1 bis, legge n. 241 del 1990).

Numerosi sono gli indici sintomatici attestanti quella che può appare una vera e propria “irruzione” di modelli privatistici nel diritto amministrativo, dando luogo a una tensione continua tra moduli privatistici e moduli pubblicistici.

La riforma del Titolo V della Costituzione che ha introdotto il principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118 secondo cui per la tutela degli interessi collettivi e superindividuali “si è affermato un nuovo criterio di riconoscimento della legittimazione ad agire, coincidente con il principio di sussidiarietà orizzontale, ormai costituzionalizzato dall’art. 118 IV co. Cost., che implica la piena valorizzazione dell’apporto diretto dei singoli e delle loro formazioni sociali (costituzionalmente rilevanti ex art. 2 Cost.) in modo che l’intervento pubblico assuma carattere sussidiario rispetto alla loro iniziativa, e che, in sede processuale, occorre quindi garantire a quegli stessi soggetti la più ampia possibilità di sindacare in sede giurisdizionale la funzione amministrativa dopo il suo esercizio da parte di pubblici poteri”.

Tuttavia, il processo più dirompente, per chi voglia ricercare le cause del fenomeno di privatizzazione dei rapporti di diritto amministrativo, si è avuto in seguito alla modifica strutturale della soggettività pubblica.

Con l’affermarsi nell’ordinamento interno dei principi di matrice europea della neutralità delle formule organizzatorie di cui la figura dell’organismo di diritto pubblico è manifestazione e della c.d. “pubblicità reale”, si assiste sempre più frequentemente al fenomeno per cui società, che hanno forma privata e agiscono con lo strumento del contratto, curano l’interesse pubblico utilizzando il procedimento di evidenza pubblica e soggiacendo alla giurisdizione del giudice amministrativo (G.P. Cirillo, I contratti e gli accordi delle amministrazioni pubbliche, in www.giustizia-amministrativa.it).

Il fenomeno delle società formalmente privatistiche e sostanzialmente pubblicistiche ben illustra la ratio che ha sempre spinto lo Stato verso l’utilizzo di strumenti privatistici. E sottende infatti il tentativo di sfuggire al modello organizzativo delle amministrazioni pubbliche. Più precisamente, la considerazione che lo Stato quando svolge attività economiche necessita di strutture più snelle, efficienti e produttive che seguono logiche di mercato, dunque, regole meno formali e burocratiche di quelle che operano per gli enti pubblici. La volontà di creare uno strumento più duttile e semplice, quale è quello privatistico perché non soggiace alle regole e ai limiti pubblicistici, ha portato all’approvazione del Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica avvenuta con il d.lgs. 19 agosto 2016 n. 175, che prevede la privatizzazione di tutte le società pubbliche, salva la distinzione, ai fini della sottoposizione alla giurisdizione contabile, tra società in house  e società pubbliche normali.

 

 

4. Inquadramento delle problematiche

 

In premessa abbiamo rammentato la definizione di diritto amministrativo, elaborata da Cassese, nei termini di “diritto meticcio”, frutto di un’”unione turbolenta” tra diritto privato e diritto amministrativo, che “costringe a riflettere sulla solidità degli strumenti del giurista più elementari”.

S’impone a questo punto proprio una riflessione su taluno degli “strumenti” suddetti.

Invero, l’utilizzo del negozio giuridico e degli schemi tipici diritto privato da parte dell’amministrazione pubblica ha dato origine a questioni ermeneutiche che a lungo hanno occupato la dottrina e la giurisprudenza in vivaci dibattiti e confronti.

Talune nel tempo hanno trovato soluzione, talaltre presentano profili di dubbio ancora irrisolti.

E’ bene fin da ora tenere in considerazione che tradizionalmente il problema sotteso all’attività contrattuale dell’amministrazione pubblica o meglio all’amministrazione per contratti è rappresentato dall’esigenza di garantire anche nell’ambito dei rapporti consensuali, tra soggetti posti su un piano di tendenziale parità, quel vincolo di fine che è immanente a tutta l’azione amministrativa. E garantire altresì che tale attività si svolga nella conformità ai principi costituzionali di legalità, imparzialità, di buon andamento e di concorrenza.

 

 

5. La capacità giuridica di diritto comune dell’amministrazione pubblica

 

Una trattazione in materia di negozio giuridico e più in generale di attività contrattuale non può che muovere da quel che ne rappresenta l’antecedente logico prima ancora che giuridico.

Una prima questione problematica attiene dunque alla capacità di diritto privato dell’amministrazione.

E’ affermazione ormai costante in dottrina e in giurisprudenza che lo Stato e gli enti pubblici godono della capacità giuridica generale, c.d. capacità di diritto comune.

Per vero, il riconoscimento in capo all’amministrazione pubblica di una capacità di diritto privato generale è avvenuto attraverso un cammino lungo e tortuoso.

L’ordinamento giuridico riconosce, con le proprie norme e ai propri soggetti, persone fisiche e persone giuridiche, la capacità giuridica ovverossia l’idoneità a essere titolari di situazioni giuridiche soggettive.

L’art. 1, comma 1 c.c. con riguardo alle persone fisiche stabilisce che “La capacità giuridica si acquista al momento della nascita” e l’art. 11 c.c. con riferimento alle persone giuridiche pubbliche prevede che “Le Province, i Comuni nonché gli enti pubblici riconosciuti come persone giuridiche godono dei diritti secondo le leggi e gli usi osservati come diritto pubblico”.

Ogni soggetto del diritto costituisce sul piano dell’ordinamento un centro di riferimento d’una serie di situazioni e rapporti giuridici.

Le situazioni giuridiche soggettive possono essere definite come “la concreta situazione in cui è collocato – o meglio, di cui è titolare – un soggetto dell’ordinamento con riferimento al bene che costituisce oggetto dell’interesse”. E più precisamente come “i concreti modi di essere giuridici di un soggetto in ordine a interessi protetti dall’ordinamento”. Laddove l’interesse è inteso quale aspirazione del soggetto verso i beni considerati idonei a soddisfare i propri bisogni. (E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Giuffrè Editore, Milano, 2013, 367 ).

L’insieme delle situazioni giuridiche soggettive e dei rapporti imputabili ai soggetti definisce la soggettività e forma la propria sfera giuridica, riconducibile a unità mediante il riferimento al proprio titolare.

La riferibilità effettiva di situazioni giuridiche a un soggetto presuppone in ogni caso l’idoneità di questo a esserne titolare. Soltanto in presenza della capacità giuridica l’ordinamento conferisce le situazioni giuridiche.

Il riconoscimento delle situazioni giuridiche, ma ancor prima della qualità di soggetto, viene dunque effettuato dalle norme dell’ordinamento.

La capacità giuridica può essere generale ovvero speciale. In quest’ultima ipotesi, l’ordinamento richiede la presenza di condizioni addizionali ovvero l’assenza di determinate condizioni impeditive affinché il soggetto possa godere di determinati diritti, assumere determinati obblighi ovvero compiere determinati atti.

Le persone fisiche godono di una capacità giuridica di diritto privato generale e, dunque, sono titolari di situazioni giuridiche “astrattamente illimitate”.

La capacità giuridica delle persone fisiche è espressione del principio di libertà ed eguaglianza, tanto che l’art. 22 Cost. stabilisce che nessuno può essere privato per motivi politici della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome. Il che non toglie comunque che in certi casi la stessa sia limitata a soggettività giuridiche circoscritte, rinvenendosi in tal caso un’incapacità giuridica speciale.

Il riconoscimento della personalità giuridica, in disparte la qualificazione di pubblica ovvero privata, importa l’attribuzione di una soggettività cui l’ordinamento giuridico attribuisce capacità di diritti e d’interessi per la cura di scopi determinati e leciti.

E’ l’ordinamento a conferire a “un ente la posizione giuridica di persona giuridica pubblica ovvero privata” (G. Miele, Attualità e aspetti della distinzione fra persone giuridiche pubbliche e private, in Atti IV Convegno sc. amm., Milano, 1959, 170). Il legislatore ordinario può riconoscere la personalità giuridica entro la cornice della libertà di associazione per fini non vietati dalla legge penale ai sensi dell’art. 18 Cost..

Il problema della soggettività delle persone giuridiche può essere prospettato da un duplice punto di vista. Da un lato, la personificazione di enti incorporali costituisce una finzione, atteso che solo la persona fisica siccome dotata di volontà e ragione potrebbe essere soggetto di diritto. Dall’altro, la persona giuridica può essere considerata come “viva e reale” secondo modalità in parte differenti da quelle tipiche della persona fisica.

L’ordinamento giuridico accoglie il secondo punto di vista ed è fondato sull’esistenza di una realtà costituita dall’identificazione di fini e di interessi da perseguire attraverso l’utilizzo di strumenti previsti contestualmente. L’astrazione diventa realtà allorquando lo Stato riconosce la personalità da cui si fanno conseguire gli effetti giuridici consequenziali alla natura degli interessi protetti. Di qui la rilevanza dell’atto con cui lo Stato riconosce la personalità giuridica (S. Buscema e A. Buscema, I contratti della Pubblica Amministrazione, in Santaniello G. (diretto da), Trattato di diritto amministrativo, Padova, 2008, I contratti della pubblica amministrazione, Cedam, Milano, 2008, 3 ss.).

L’attributo del pubblico ovvero del privato che è accostato alla personalità indica mere posizioni organizzative all’interno dell’ordinamento giuridico.

La principale conseguenza del riconoscimento è rappresentata dalla capacità giuridica della stessa a mezzo della persona fisica che agisce in sua rappresentanza.

L’amministrazione è una persona giuridica pubblica. Una volta avvenuta la nascita, ciascun ente gravante sullo Stato-persona consegue la personalità giuridica ovverossia una soggettività cui l’ordinamento giuridico riconosce il godimento dei diritti “secondo le leggi e gli usi osservati come diritto pubblico” (art. 11 c.c.).

L’amministrazione, come anche le persone giuridiche private, non può essere “naturalmente” titolare di talune situazioni giuridiche. Sono precluse quelle relative alla natura dell’individuo, come le situazioni familiari. Inoltre, varie norme e principi generali escludono la possibilità di compiere alcune attività di diritto comune ovvero di contrattare con soggetti diversi da quelli indicati dalla legge. Ad esempio, le amministrazioni non possono stipulare contratti aleatori al di fuori dei giochi gestiti in regime di privativa e dei contratti di assicurazione.

Tali considerazioni unitamente a quella secondo cui la capacità giuridica può concernere solo talune situazioni giuridiche hanno spinto la dottrina e la giurisprudenza a riflettere sul fatto che le amministrazioni quali persone giuridiche pubbliche, come quelle private, hanno una capacità giuridica, in ordine ai poteri di diritto comune, meno estesa di quella riconosciuta dall’ordinamento alle persone fisiche.

Si è così cominciato a dubitare del carattere generale della capacità degli enti pubblici con riguardo alle situazioni di diritto privato.

La riflessione in merito muove dal raffronto tra attività amministrativa provvedimentale e attività privatistica, nonchè dal rapporto con il principio di legalità, che conforma l’intero ordinamento amministrativo.

La dottrina e la giurisprudenza hanno iniziato a interrogarsi se anche l’attività di diritto privato posta in essere dall’amministrazione soggiaccia al principio di legalità. In particolare, si è discusso se le amministrazioni possano porre in essere soltanto gli atti di diritto comune la cui adozione sia stata espressamente consentita e autorizzata dall’ordinamento giuridico ovvero se non sia necessaria un’attribuzione ex lege del relativo potere derivando lo stesso dalla qualità di soggetto giuridico.

Di qui le origini del dibattito sulla capacità generale ovvero speciale dell’amministrazione pubblica.

La questione investe la più ampia tematica della legittimazione ad agire degli enti pubblici.

Il problema, da un punto di vista soggettivo, non si è profilato per tutti gli enti pubblici.

Invero, nessun dubbio è sorto in merito agli enti imprenditoriali, i c.d. enti pubblici economici, la cui funzione esclusiva o comunque preponderante consiste nella gestione d’imprese. Nei rapporti con i terzi essi agiscono istituzionalmente secondo le regole del diritto civile e, dunque, utilizzano quasi esclusivamente lo strumento contrattuale.

Aspetti di criticità sono invece emersi per gli enti c.d. funzionali, primi fra tutti lo Stato e gli enti pubblici territoriali, in considerazione dei fini pubblici che essi sono chiamati a realizzare.

Gli studiosi e la giurisprudenza sono sempre stati molto dubbiosi in ordine alla circostanza che tali enti siano dotati, al pari dei soggetti privati, di autonoma capacità di diritto privato.

Il tentativo di risolvere tali criticità ha visto registrarsi un’evoluzione nello studio del tema che, dapprima, si è concentrato sull’esistenza della capacità di diritto privato dell’amministrazione, poi, sull’ampiezza della medesima.

In un primo tempo, in considerazione della natura pubblica dell’ente si era affermata l’opinione contraria al riconoscimento di una capacità autonoma di diritto privato in capo al soggetto pubblico; in seguito, è prevalsa la posizione favorevole.

Tuttavia, neppure sull’ampiezza della riconosciuta capacità di diritto privato dell’amministrazione vi era uniformità di vedute: si è così sviluppato un lungo e annoso confronto dottrinale e giurisprudenziale in cui sono emerse due contrapposte posizioni: la tesi della capacità generale e la tesi della capacità speciale o del c.d principio positivo.

Secondo la prima tesi, l’amministrazione è titolare di una piena capacità di diritto privato e, dunque, può provvedere alla cura degli interessi pubblici a essa affidati dalla legge avvalendosi di strumenti sia di diritto pubblico sia di diritto privato, in considerazione dell’irrilevanza della natura pubblica ovvero privata dell’ente. In tale prospettiva, l’attività di diritto privato è considerata anch’essa attività amministrativa, sia pure svolta in forma privatistica.

 La seconda tesi ritiene, invece, che l’amministrazione sia titolare di una capacità speciale: può adottare solo gli atti di diritto privato consentiti dall’ordinamento giuridico attraverso espressa autorizzazione. A sostegno dell’assunto si ritine che l’art. 11 disp. prel. al cod. civ. sottenderebbe un principio di subordinazione dell’autonomia contrattuale alle leggi e agli usi osservati come diritto pubblico. L’applicazione del principio positivo, infatti, consente l’attività negoziale soltanto nei limiti consentiti dall’ordinamento giuridico (S. Buscema e A. Buscema, I contratti della Pubblica Amministrazione, cit. 17 ss.).

Tale impostazione è ormai recessiva sia in dottrina sia in giurisprudenza.

L’esistenza in capo a ciascun ente pubblico di una generale capacità di diritto privato è da ritenersi un dato ormai acquisito in dottrina e anche in giurisprudenza (ex multis: M. Immordino, I contratti della pubblica amministrazione, in Diritto amministrativo, (a cura di), cit., 414; F. Ferrara; V. Cerulli Irelli, Diritto privato dell’amministrazione pubblica 18; Cass., S.U. 16 aprile 1952, n. 983; Cons. St., sez. VI, 12 marzo 1990, n. 374; Cons. St., sez. VI, 4 dicembre 2001 n. 6073).

La dottrina ha osservato che gli enti pubblici, in quanto persone giuridiche, hanno soggettività giuridica al pari degli enti di diritto privato. In virtù del disposto dell’art. 11 c.c., in assenza di disposizioni normative preclusive dell’adozione di determinati atti avente natura privatistica, le amministrazioni non subiscono limitazioni nella propria capacità di diritto privato (M.S. Giannini; A. Falzea).

Le espressioni utilizzate dal legislatore nell’art. 11 c.c. avrebbero potuto essere foriere di diverse interpretazioni. E neppure la Relazione di accompagnamento al codice civile ne aveva chiarito il significato. Nella Relazione l’aspetto di maggiore rilievo è costituito dal fatto che si è riconosciuto che le disposizioni del primo libro del codice “per quanto dettate per le persone giuridiche private, saranno di grande utilità, anche per forza espansiva di cui esse sono suscettibili, in via di interpretazione analogica nei riguardi della disciplina delle persone giuridiche pubbliche, tenuto conto che la distinzione tra le due categorie di enti, se facilmente delineabile in linea teorica, nella pratica appare spesso incerta” (Relazione al codice civile, punto 41).

Malgrado ciò, è prevalsa l’opinione secondo cui la capacità generale di diritto privato è comune alle persone giuridiche private e a quelle pubbliche, e con riferimento a queste ultime importa la possibilità di utilizzare i diversi strumenti del diritto comune per il perseguimento dei fini di interesse pubblico. Come ben evidenziato da Galgano, “la disciplina degli enti pubblici è … solo una disciplina di specie, dalla quale non sono ricavabili principi comuni all’intera categoria. La disciplina di genere non potrà, pertanto, essere ricercata altrove che nel codice civile”.

In particolare, significativa sotto tale profilo è l’affermazione di Cerulli Irelli secondo cui “gli enti pubblici in base all’art. 11 c.c. “sono soggetti allo statuto normativo singolare loro proprio, e applicano il diritto comune salva la compatibilità di singole norme e istituti con lo statuto speciale stesso” (V. Cerulli Irelli, Diritto privato dell’amministrazione pubblica, Giappichelli, Torino, 2000.

La giurisprudenza amministrativa, dopo non poche oscillazioni, ha riconosciuto una capacità generale di diritto privato anche alle persone giuridiche pubbliche (ex multis, Cons. St., sez. VI, 12 marzo 1990, n. 374; sez. V, 14 dicembre 1988, n. 818; sez. VI, n. 1291 del 1988 e n. 721 del 1989).

A tale conclusione il Consiglio di Stato è pervenuto muovendo dalla critica nei confronti della teoria della c.d. capacità speciale delle persone giuridiche pubbliche, conseguente alla tesi che ravvisa nel fine pubblicistico l’essenza della persona giuridica pubblica, perché essa reca con sè che ciascun ente pubblico vedrebbe determinati dall’ordinamento, al momento della propria nascita, un complesso di fini e in essi troverebbe la ragione della propria esistenza; “la determinazione di tali scopi varrebbe a condizionare la capacità dell’ente, vincolando l'attività dello stesso all'aderenza allo scopo.

Al contrario è stato notato, in tempi più recenti, che “poiché la capacità dell'ente pubblico si ricollega alla qualità di soggetto giuridico, cioè alla potenziale destinatarietà degli effetti giuridici di un ordinamento, da ciò non può che derivare una pienezza di capacità, con la conseguente possibilità da parte dell'ente di far ricorso, in via tendenziale, a tutti i mezzi possibili per raggiungere i propri scopi. Ne deriva, pertanto, un capovolgimento della prima impostazione teorica, con la conseguente “negazione, in via generale, di limitazioni alla capacità delle persone giuridiche pubbliche e la necessità che tali limiti, lungi dal derivare da argomentazioni presuntive, traggano esclusivo fondamento nel diritto positivo.

La giurisprudenza si è espressa sul tema al fine di esaminare in specie la questione della possibilità per gli enti locali di fare ricorso al modulo organizzativo societario ai fini della gestione dei servizi pubblici loro affidati. Il Consiglio di Stato ha affermato che le conclusioni testè enunciate devono essere ribadite a maggior ragione nell’ipotesi di un ente pubblico territoriale, là dove, atteso che si tratta di ente che può prefiggersi tutti gli scopi idonei a soddisfare gli interessi della collettività, non può certamente porsi un problema di “incapacità speciale” cioè di un’inidoneità in astratto al compimento di determinati atti, ma al più di un’inettitudine concreta dell’attività a soddisfare in maniera diretta le esigenze della collettività (Cons. Stato, sez. V, 14 dicembre 1988, n. 818; sez. VI, n. 1291 del 1988 e n. 721 del 1989). E, dunque, non può dubitarsi della possibilità in via generale per gli enti locali territoriali di assumere partecipazioni azionarie e di costituire società per azioni.

La capacità giuridica di diritto privato dell’amministrazione è, dunque, connotata da un’ampia portata: l’amministrazione può porre in essere tutti gli atti giuridici di diritto privato necessari al perseguimento dei propri scopi.

Non è quindi applicabile nel nostro ordinamento il principio nec ultra vires, che sopravvive invece nel diritto inglese, implicante il divieto di atti ultra vires, compiuti per esempio dalle local authorities companies, giudicati invalidi se posti in essere al di fuori di un’attribuzione normativa di potere specifica (V. Cerulli Irelli, Note critiche in tema di attività amministrativa secondo moduli negoziali, in Dir. amm., 2003, 2, 218 e nota 1).

 

 

6. Il riconoscimento positivo della capacità generale di diritto privato dell’amministrazione pubblica

 

Il riconoscimento della capacità generale di diritto privato e del conseguente assoggettamento dell’amministrazione alle norme di diritto privato induce inevitabilmente a ritenere applicabili alla stessa tutte le norme del codice civile e le regole del diritto comune, salve le disposizioni espressamente derogatorie.

Secondo l’impostazione tradizionale, l’attività contrattuale dell’amministrazione era ritenuta caratterizzata da profili di specialità tali da esonerarla dall’applicazione di talune norme del codice civile in quanto ritenute incompatibili con il fine pubblico.

La generale soggezione dell’amministrazione al diritto comune rappresenta ormai un principio acquisito al nostro ordinamento. Principio che elaborato e, per lungo tempo, sostenuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza, ha trovato in ultimo anche l’avallo del legislatore.

Diversi sono i riferimenti normativi dai quali è dato evincerlo.

Rilievo fondamentale assume al riguardo l’art. 1, comma 1 bis, l. n. 214 del 1990, come modificato dalla legge n. 15 del 2005, secondo cui “la Pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme del diritto privato, salvo che la legge disponga diversamente”.  

Tale norma è considerata, per lo più, come il riconoscimento positivo della capacità generale di diritto privato dell’amministrazione. Per vero, diverse sono le interpretazioni che sono state proposte.

Secondo una prima lettura, “l’attività non autoritativa di cui all’art. 1, comma 1 bis deve ritenersi coincidente con l’attività di diritto privato dell’amministrazione, con la conseguenza che la disposizione si limiterebbe a recepire un’interpretazione già invalsa in dottrina e in giurisprudenza e sarebbe priva portata innovativa.

Secondo un’altra lettura, la norma non concernerebbe l’attività privatistica in senso stretto dell’amministrazione ma riguarderebbe l’attività c.d. amministrativa di diritto privato. Sullo sfondo l’assunto secondo cui l’azione amministrativa può essere svolta sia attraverso un’attività autoritativa applicando moduli autoritativi, quali i provvedimenti, sia attraverso un’attività non autoritativa ricorrendo prevalentemente a moduli convenzionali, quali i contratti, che assurgono dunque a strumenti di azione amministrativa. 

Ulteriore conferma del riconoscimento della capacità generale dell’amministrazione si rinviene, in tema di recesso, nell’art. 21 sexies della legge n. 241 del 1990, introdotto dalla legge n. 15 del 2005, che stabilisce che “il recesso unilaterale dai contratti della Pubblica amministrazione è ammesso nei casi previsti dalla legge o dal contratto”.

In ossequio al principio civilistico pacta sunt servanda ai sensi degli artt. 1372 e 1373 c.c., tale norma prevede che il riconoscimento del diritto di recesso in favore del contraente pubblico è escluso in assenza di espressa previsione pattizia ovvero legale. La pubblica amministrazione non ha il potere di sciogliersi liberamente dai negozi giuridici aventi natura contrattuale di cui è parte, ma ha una mera facoltà, riconosciuta, peraltro, solo nei casi tassativamente previsti dalle singole norme di legge ovvero espressamente enumerati nei contratti stipulati.

Tale disposizione è stata ritenuta superflua da taluni, atteso che anche in sua assenza non si potrebbe dubitare della spettanza del potere dell’amministrazione di recedere unilateralmente dai contratti solo nei casi in cui esso sia previsto da disposizioni di rango legislativo ovvero dallo stesso contratto (G. Alpa, Divagazioni sull’attività negoziale della p.a. nella nuova disciplina del procedimento amministrativo, in I contratti, 2006, 2, 177; P. Virga, Le modifiche ed integrazioni alla legge n. 241 del 1990 recentemente approvate. Osservazioni derivanti da una prima lettura, in www.lexitalia.it).

Tuttavia, la norma sia pure nella modesta portata innovativa, evidenzia la distinzione esistente tra revoca del provvedimento e recesso dal contratto.

Si tratta d’istituti destinati a operare su piani differenti, intervenendo la prima sull’atto amministrativo e il secondo sul negozio. A sostegno di tale assunto si adduce anche la collocazione topografica delle norme in due articoli distinti, seppure contigui.

Più significativa è la differenza esistente tra il recesso dai contratti di diritto comune e il recesso dagli accordi previsti dall’art. 11, l. n. 241 del 1990. Infatti, mentre lo scioglimento unilaterale dal contratto è limitato a ipotesi tassative dovendo trovare nella legge ovvero nel contratto una clausola che ne legittimi l’esercizio, il recesso dagli accordi di cui all’art. 11 non è subordinato a una previsione normativa potendo l’amministrazione esercitarlo allorchè ravvisi “sopravvenuti motivi di pubblico interesse”. D’altra parte, l’orientamento prevalente sottolinea che al di là del nomen juris non vi sono tratti in comune fra il recesso della pubblica amministrazione dagli accordi e il recesso dai contratti: il primo, infatti, espressamente condizionato alla sopravvenienza di motivi di pubblico interesse presenta il carattere della doverosità, analogamente a quanto previsto dall’art. 21 quinquies, mentre il recesso previsto dall’art. 21 sexies è riconducibile più autenticamente al paradigma civilistico.

Il discrimen risiede nel tipo di potere esercitato dall’amministrazione: autoritativo sia pure in forma consensuale nel contenuto dell’atto, nel caso di accordi, negoziale, quando l’amministrazione agisce come un privato nella conclusione di contratti di diritto privato.

Il potere di recesso di cui all’art. 11 seppure controbilanciato dall’obbligo d’indennizzo a favore del privato per gli eventuali pregiudizi verificatesi in suo danno è quindi espressione di un potere autoritativo della pubblica amministrazione che incide unilateralmente su un atto parimenti esercizio di un potere autoritativo per quanto esplicato in forma consensuale.

Quanto osservato induce ad accostare il recesso previsto dall’art. 11 più alla revoca di cui all’art. 21 quinquies, legge n. 241 del 1990 con cui condivide i presupposti, le conseguenze e il tipo di tutela, essendo prevista da entrambe le norme la devoluzione delle relative controversie alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Diversamente per il recesso dai contratti di diritto comune che soggiace alla medesima disciplina quale che sia il contraente che lo esercita e che, intervenendo su un contratto già concluso, si colloca nella fase di esecuzione dello stesso, con rilevanti conseguenze in tema di giurisdizione. Trattandosi, invero, di atto destinato a incidere solo sul negozio già concluso e consistendo nell’esercizio di un diritto potestativo di natura negoziale, la giurisdizione si radica in capo al giudice ordinario (Cons. St., sez. V, 22 maggio 2015, n. 2562).

Una delle questioni su cui la dottrina e la giurisprudenza si sono interrogate più diffusamente in tema di recesso attiene al dubbio se lo stesso sia manifestazione di una potestà autoritativa, con conseguente qualificazione in termini di interesse legittimo della posizione soggettiva dell’appaltatore, ovvero se presupponga l’esercizio di un diritto potestativo privatistico di interrompere l’esecuzione del contratto.

La tesi prevalente, che sia pure accolta nell’ambito del quadro normativo previgente risulta applicabile anche a quello attuale, configura il recesso nell’ambito dei contratti pubblici quale fattispecie speculare rispetto a quella di cui all’art. 1671 c.c..

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato aveva, infatti, statuito con la pronuncia 20 giugno 2014, n. 14 che “nel procedimento di affidamento di lavori pubblici, una volta stipulato il contratto di appalto, le pubbliche amministrazioni, qualora rinvengano sopravvenute ragioni di inopportunità della prosecuzione del rapporto negoziale, non possono utilizzare lo strumento pubblicistico della revoca dell’aggiudicazione ma devono esercitare il diritto potestativo di recesso regolato dall’art. 134 del D.lgs. n. 163 del 2006”. D’altronde, tale principio ad avviso del Consiglio di Stato sarebbe coordinato con la previsione della revoca di cui al comma 1-bis dell’art. 21-quinquies della legge n. 241 del 1990, perché dall’ambito di applicazione della norma risulta esclusa la possibilità di revoca incidente sul rapporto negoziale fondato sul contratto di appalto di lavori pubblici, in forza della speciale e assorbente previsione dell’art. 134 del Codice (così, come, per la medesima logica, ne è esclusa la revoca di cui all’art. 158 del Codice), restando per converso e di conseguenza consentita la revoca di atti amministrativi incidenti sui rapporti negoziali originati dagli ulteriori e diversi contratti stipulati dall’amministrazione, di appalto di servizi e forniture, relativi alle concessioni contratto (sia per le convenzioni accessive alle concessioni amministrative che per le concessioni di servizi e di lavori pubblici), nonché in riferimento ai contratti attivi”.

Ulteriore conferma positiva del principio dell’applicazione generale del diritto comune si rinviene nell’art. 30, comma 8 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, secondo cui “per quanto non espressamente previsto nel presente codice e negli atti attuativi, alle procedure di affidamento e alle altre attività amministrative in materia di contratti pubblici si applicano le disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, alla stipula del contratto e alla fase di esecuzione si applicano le disposizioni del codice civile”, che rappresenta la tappa conclusiva dell’evoluzione dell’ordinamento verso un’applicazione sempre più estesa del diritto privato all’attività negoziale dell’amministrazione.

 

7. I limiti alla capacità di diritto privato dell’amministrazione pubblica

 

L’ordinamento riconosce allo Stato e agli enti pubblici una capacità giuridica generale di diritto privato in quanto persone giuridiche e quindi soggetti di diritto.

Le più moderne vedute di teoria generale fanno, invero, coincidere la soggettività con la capacità giuridica spettante come tale a tutti, persone fisiche o giuridiche, ai sensi dell'art. 2 Cost.. con la conseguenza che deve escludersi che si possa prospettare una distinzione tra enti immateriali pubblici e privati.

In linea puramente astratta “gli enti pubblici possono valersi, nel perseguimento dei loro fini, di tutti i contratti conosciuti dal diritto privato e possono anche ricorrere a figure che da questi si allontanano, ossia in contratti misti e ai così detti contratti innominati. Questa libertà incontra tuttavia dei limiti nella natura stessa degli enti e nel dovere che essi hanno di agire esclusivamente per il conseguimento dei propri fini” (G. Zanobini, Corso di diritto amministrativo, cit.).

La capacità giuridica di diritto privato della pubblica amministrazione così come la capacità dei soggetti privati incontra, dunque, alcune limitazioni legali ovvero statutarie alla possibilità di porre in essere determinati negozii (M.S. Giannini, Diritto amministrativo, vol. II, cit.; V. Cerulli Irelli, Corso di diritto amministrativo, Torino 1994; S.A. Romano, L’attività privata degli enti pubblici, Milano 1979)

La dottrina ha individuato tue tipologie di limiti: i limiti naturali, derivanti dall’incompatibilità assoluta con la natura giuridica e pubblicistica degli enti, e i limiti giuridici, conseguenti alla posizione degli enti pubblici nell’ordinamento.

Sono ricondotti nell’alveo della categoria delle limitazioni naturali i negozi che presuppongono necessariamente la persona fisica e quelli incompatibili con la natura pubblicistica degli enti, quali gli atti di liberalità (S. Buscema e A. Buscema, I contratti della Pubblica Amministrazione, cit. 45 ss.).

I primi, presupponendo la presenza di persone fisiche, non possono essere posti in essere da e per persone giuridiche, sia private che pubbliche. Si tratta di un limite così evidente da non richiedere approfondimento ulteriore. E’ una limitazione che non presenta profili di specialità nel diritto amministrativo, considerato che se le persone fisiche hanno di solito la massima libertà di stipulare qualsiasi negozio giuridico, anche le persone giuridiche di diritto privato incontrano limiti (R. Di Cammarata, I contratti della P.A., vol. I, Bologna, 1959, 51). Limiti che conseguono alla qualità di enti ideali privi di un “substrato fisico” (F. Ferraro, Le persone giuridiche, Torino, 1938, 288; G. Branca, Istituzioni di diritto privato, Bologna, 1956, 46). Non sono applicabili agli enti pubblici in quanto persone giuridiche, a titolo esemplificativo, i contratti di famiglia, i contratti di assicurazione sulla vita ovvero di costituzione di rendita vitalizia, i contratti di costituzione di diritti reali, i contratti d’impiego e di lavoro in genere (C. Cammeo, I contratti della pubblica amministrazione, Firenze, 1954, 123).

Le limitazioni attinenti alla natura pubblicistica degli enti necessitano, invece, di alcune riflessioni. La natura pubblicistica di un soggetto, infatti, talora può non emergere in modo certo, così permanendo dubbi in ordine alla natura soggettiva. Le perplessità di tal genere devono essere affrontate in considerazione della linea di confine tra pubblico e privato.

La ratio di tale limite è ravvisabile nei vincoli di destinazione dei mezzi e di comportamento che la natura pubblica ex sè importa per gli amministratori e per i terzi che entrano in rapporto con l’amministrazione. E tali vincoli originano dal principio d’indisponibilità degli elementi patrimoniali destinati alla cura dei fini pubblici affidati dalla legge a ciascuna amministrazione.

Costituiscono “esempi macroscopici”, secondo la dottrina, di negozi incompatibili con la natura pubblicistica gli atti di liberalità, atteso che essi comportano la violazione dei principi testè richiamati. La giurisprudenza sostiene, al contrario, che sarebbero configurabili negozi di liberalità di diritto privato della pubblica amministrazione (Cass. civ. 18 dicembre 1996 n. 11311).

Alle limitazioni naturali si affiancano le limitazioni che l’ordinamento giuridico impone al fine di un soddisfacimento “armonico” dei bisogni della collettività per mezzo dell’attività contrattuale.

I limiti giuridici sono costituiti dagli specifici fini pubblici perseguiti con il contratto (G. Zanobini, Corso di diritto amministrativo, cit.).

La ratio di tali limiti sembra potersi rinvenire, in un ordinamento improntato al principio di legalità, nella necessità che gli enti pubblici svolgano le proprie attività, secondo regole precostituite e nell’interesse esclusivo della collettività cui appartiene la titolarità di tutti i mezzi pubblici.

Le limitazioni giuridiche si possono individuare nella necessità di una normativa sostanziale positiva idonea a giustificare una determinata attività negoziale, nel perseguimento dei fini istituzionali dell’ente, nella sussistenza di stanziamenti adeguati in bilancio, nei limiti interni e conseguenti deroghe alle norme di diritto privato. E rappresenterebbero un necessario corollario del cd. principio positivo che consente l’attività espressamente autorizzata dal sistema normativo.

In particolare, limite fondamentale per l’attività negoziale degli enti pubblici è il limite dei fini istituzionali a ciascuno di essi assegnati dall’ordinamento giuridico.

Tale limitazione sostanzialmente coincide con la competenza propria dell’ente ad assolvere una funzione determinata e consegue anch’essa dal principio positivo. Tuttavia, non è sempre agevole il riscontro, in concreto, del superamento dei limiti, specie per la varietà dei modelli organizzatori e dell’intensità dei sistemi di controllo.

Per quanto attiene al legame esistente tra persona giuridica pubblica e fine istituzionale a essa affidato si è rilevato che “a differenza dell’individuo che può disporre nei limiti del lecito del suo, come meglio gli aggrada, via via che ha necessità di soddisfare un bisogno, l’ente giuridico non può di momento in momento determinare la sua sfera di interessi, giacchè essa deve rimanere invariata ed identica a quella per cui è costituito” (C. Cammeo, I contratti della pubblica amministrazione, cit.). Invero, non è ammissibile che un ente persegua uno scopo differente rispetto a quello con riguardo al quale ne ha ricevuto il riconoscimento da parte dell’ordinamento giuridico.

In virtù del riconoscimento della capacità giuridica generale di diritto privato l’amministrazione, nei limiti testè indicati, può essere titolare di situazioni giuridiche attive o passive allo stesso modo di qualunque soggetto privato che stipuli negozi di diritto comune, seppur tale attività sia e debba essere strumentale ovvero complementare allo scopo dell’ente sia pure genericamente inteso e purchè essa sia compatibile con la propria natura (V. Poli, Principi generali e regime giuridico dai contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni,  in www.giustizia-amministrativa.it ).

 

Salvo espresse eccezioni di diritto positivo, le pubbliche amministrazioni hanno, dunque, piena capacità di diritto privato nei limiti delle proprie finalità istituzionali, come risulta anche dall'art. 11 della legge n. 241 del 1990, che, ammettendo la possibilità di concludere accordi integrativi o sostitutivi di provvedimenti e sottoponendo tali accordi al regime dei contratti, ha configurato una tendenziale equivalenza tra l’attività amministrativa di diritto pubblico e quella di diritto privato.