Ulteriore commento a Cons. Stato, Ad. Plen., 30 agosto 2018, n. 12

Gli atti con i quali la Pubblica amministrazione determina e liquida il contributo di costruzione, previsto dall’art. 16, d.P.R. n. 380 del 2001, non hanno natura autoritativa, non essendo espressione di una potestà pubblicistica, ma costituiscono l’esercizio di una facoltà connessa alla pretesa creditoria riconosciuta dalla legge al Comune per il rilascio del permesso di costruire, stante la sua onerosità, nell’ambito di un rapporto obbligatorio a carattere paritetico e soggetta, in quanto tale, al termine di prescrizione decennale, sicché ad essi non possono applicarsi né la disciplina dell’autotutela dettata dall’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990 né, più in generale, le disposizioni previste dalla stessa legge per gli atti provvedimentali manifestazioni di imperio (1)

La Pubblica amministrazione, nel corso del rapporto concessorio, può sempre rideterminare, sia a favore che a sfavore del privato, l’importo del contributo di concessione, in principio erroneamente liquidato, richiedendone o rimborsandone a questi la differenza nell’ordinario termine di prescrizione decennale (art. 2946 c.c.) decorrente dal rilascio del titolo edilizio, senza incorrere in alcuna decadenza, mentre per parte sua il privato non è tenuto ad impugnare gli atti determinativi del contributo nel termine di decadenza, potendo ricorrere al giudice amministrativo, munito di giurisdizione esclusiva ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. f), c.p.a., nel medesimo termine di dieci anni, anche con un’azione di mero accertamento (2).

L’amministrazione comunale, nel rideterminare l’importo del contributo di concessione con atti non aventi natura autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato, ai sensi dell’art. 1, comma 1-bis, l. n. 241 del 1990, senza che sia applicabile la disciplina dell’errore riconoscibile di cui all’art. 1431 c.c., in quanto l’errore nella liquidazione del contributo, compiuto dalla pubblica amministrazione, non attiene ad elementi estranei o ignoti alla sfera del debitore ed è quindi per lui in linea di principio riconoscibile, in quanto o riguarda l’applicazione delle tabelle parametriche, che al privato sono o devono essere ben note, o è determinato da un mero errore di calcolo, ben percepibile dal privato, errore che dà luogo alla semplice rettifica (3).

La tutela dell’affidamento e il principio della buona fede, che in via generale devono essere osservati anche dalla pubblica amministrazione dell’attuazione del rapporto obbligatorio, possono trovare applicazione in caso di rideterminazione del contributo di costruzione nella quale, ordinariamentela predeterminazione e l’oggettività dei parametri da applicare al contributo di costruzione, di cui all’art. 16, d.P.R. n. 380 del 2001, rendono vincolato il conteggio da parte della pubblica amministrazione, consentendone a priori la conoscibilità e la verificabilità da parte dell’interessato con l’ordinaria diligenza, solo nella eccezionale ipotesi in cui tali conoscibilità e verificabilità non siano possibili con l’ordinaria diligenza richiesta al debitore, secondo buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.), nell’ottica di una leale collaborazione volta all’attuazione del rapporto obbligatorio e al soddisfacimento dell’interesse creditorio vantato dal Comune.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5 di A.P. del 2018, proposto dal Comune di Cinisi, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocato Antonino Ruffino, domiciliato presso la Segreteria dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro, n. 13.

contro

Santo Faro s.n.c., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocato Maria Beatrice Miceli, domiciliato presso la Segreteria dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro, n. 13;

sul ricorso numero di registro generale 6 di A.P. del 2018, proposto dal Comune di Cinisi, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocato Antonino Ruffino, domiciliato presso la Segreteria dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro, n. 13;

contro

Michele Palazzolo, rappresentato e difeso dall’Avvocato Maria Beatrice Miceli, domiciliato presso la Segreteria dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro, n. 13; 

per la riforma

quanto al ricorso n. 5 del 2018:

della sentenza n. 185 del 21 gennaio 2014 del Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sezione terza, resa tra le parti, concernente la rideterminazione degli oneri concessori in relazione a titoli edilizi rilasciati a Santo Faro s.n.c.

quanto al ricorso n. 6 del 2018:

della sentenza n. 188 del 21 gennaio 2014 del Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sede di Palermo, sezione terza, resa tra le parti, concernente la rideterminazione degli oneri concessori in relazione ai titoli edilizi rilasciati a Michele Palazzolo


 

letti gli appelli principali del Comune di Cinisi e i relativi allegati nei due giudizi riuniti;

letti i rispettivi atti di costituzione in giudizio Santo Faro s.n.c. (oggi Diesse s.r.l.) e di Michele Palazzolo, i quali hanno proposto appello incidentale rispettivamente contro le sentenze n. 185 e n. 188 del 21 gennaio 2014 del Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sede di Palermo;

visti tutti gli atti dei due giudizi riuniti;

relatore nell’udienza pubblica del giorno 11 luglio 2018 il Consigliere Massimiliano Noccelli e uditi per l’odierno appellante principale, il Comune di Cinisi, l’Avvocato Rosa Maria Zaccaria in delega di Antonino Ruffino e per gli odierni appellanti incidentali, Santo Faro s.n.c. e Michele Palazzolo, l’Avvocato Massimiliano Brugnoletti in delega dell’Avvocato Maria Beatrice Miceli;

ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

1. Le due vicende oggetto del presente giudizio originano dalle determinazioni con le quali il Comune di Cinisi (PA) ha ricalcolato e richiesto nel 2007, a distanza di quattro anni dal rilascio delle originarie concessioni edilizie e in misura circa quattro volte superiore a quella iniziale, il pagamento del contributo di costruzione, previsto dall’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001, agli odierni appellanti incidentali, Santo Faro s.n.c. (oggi Diesse s.r.l.) e Michele Palazzolo, titolare dell’omonima ditta, nella misura, rispettivamente, di € 181.590,54 e di € 167.223,47.

1.1. Le due vicende mostrano una comunanza di presupposti fattuali e di questioni giuridiche tali da averne determinato, come tra breve si dirà (v., infra, § 4), la riunione dei conseguenti giudizi ad opera del Consiglio di giustizia amministrativa della Regione Siciliana, giudice remittente.

1.2. L’odierno appellante principale, il Comune di Cinisi, con la concessione edilizia n. 2 del 22 ottobre 2002, ha autorizzato Santo Faro s.n.c. a realizzare un «capannone con annessi uffici e sala esposizione per la produzione e la vendita di piatti e bicchieri di HIPS (polistirolo antiurto) e PSCr (polistirolo cristallo) nella zona commerciale D2 in c.da San Giovanni» e, con la concessione n. 3 del 22 ottobre 2002, ha autorizzato a sua volta Michele Palazzolo a realizzare un «capannone con annessi uffici e sala esposizione per l’assemblaggio e la vendita di serramenti e arredi».

1.3. Per entrambi i capannoni sono state rilasciate peraltro nel 2003 due concessioni in variante, rispettivamente la n. 2 e la n. 3 del 28 aprile 2013, per la realizzazione di un piano cantinato sottostante ai due capannoni assentiti.

1.4. Nel 2007, in occasione e all’esito di una complessa vicenda amministrativa che aveva visto il Comune di Cinisi intraprendere un procedimento di riesame delle due concessioni inizialmente rilasciate e la successiva conferma di dette concessioni, il Comune stesso ha comunicato a Santo Faro s.n.c. e Michele Palazzolo l’avvio di un procedimento inteso a rideterminare il contributo di costruzione, con particolare riferimento agli oneri di urbanizzazione, inizialmente calcolati nella rispettiva misura di € 24.486,00 e di € 20.784,48.

1.5. Infine, con le note prot. n. 9004/07 e n. 9005/2007 del 7 maggio 2007, il Comune di Cinisi ha rideterminato gli oneri concessori nella misura complessiva, già ricordata (v., supra, § 1), di € 181.590,54 e di € 167.223,47.

2. Santo Faro s.n.c. e Michele Palazzolo hanno impugnato gli atti di rideterminazione degli oneri concessori, adottati dal Comune di Cinisi, avanti al Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sede di Palermo, e in seguito hanno proposto ricorso per motivi aggiunti anche contro la richiesta di pagamento rivolta dal Comune di Cinisi al fideiussore.

2.1. I ricorrenti hanno lamentato l’illegittimità di tali atti sotto svariati profili, a cominciare dalla loro adozione a notevole distanza di tempo dal rilascio dei titoli edilizi, avvenuto nel 2002.

2.2. Nel primo grado del giudizio si è costituito il Comune di Cinisi, che ha chiesto la reiezione dei ricorsi avversari in tutti i loro motivi.

2.3. Il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sede di Palermo, con la sentenza n. 185 e con la sentenza n. 188 del 21 gennaio 2014, ha respinto tutte le censure proposte da Santo Faro s.n.c. e da Michele Palazzolo, ma ha accolto il terzo motivo dell’originario ricorso, annullando l’atto di rideterminazione degli oneri concessori, per avere il Comune di Cinisi, a suo giudizio, applicato una tariffa ritenuta erronea (quella asseritamente prevista per i centri commerciali).

3. Avverso tale sentenza il Comune di Cinisi ha proposto appello principale avanti al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, lamentando l’erroneo accoglimento del terzo motivo di ricorso, e ne ha chiesto la riforma, con la conseguente integrale reiezione del ricorso e dei motivi aggiunti proposti in primo grado.

3.1. Il Comune di Cinisi ha contestato l’erroneità delle gravate sentenze e ha lamentato, più specificamente, che il giudice di primo grado non si sarebbe reso conto che, ai fini della determinazione degli oneri concessori relativi agli interventi edilizi, il regime giuridico si articola in due sole tariffe applicabili, una per gli immobili a destinazione abitativa, l’altra per quelli a destinazione commerciale, onde senz’altro corretta si sarebbe dovuta ritenere la tariffa applicata dal Comune per interventi realizzati, in entrambi i casi esaminati per chiare finalità produttive, in zona commerciale.

3.2. D’altronde, secondo la difesa del Comune appellante principale, già la originaria determinazione degli oneri concessori era stata fatta sulla base della tariffa prevista per gli insediamenti commerciali e direzionali, la rideterminazione in autotutela (oggetto dei ricorsi di primo grado) essendo intervenuta al solo fine di rettificare (non già la tariffa applicabile) quanto le sue concrete modalità applicative, avuto riguardo al parametro della superficie lorda e della superficie complessiva dell’insediamento.

3.3. Si sono costituiti in grado di appello, avanti al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, gli appellati Santo Faro s.n.c. e Michele Palazzolo che, a propria volta, hanno chiesto la reiezione dell’appello principale e hanno articolato appello incidentale avverso la sentenza nella parte in cui ha respinto le altre censure proposte in primo grado.

3.4. Essi, più in particolare, hanno dedotto:

a) la violazione del principio di affidamento, essendo l’atto di rideterminazione degli oneri concessori intervenuto a notevole distanza temporale dal rilascio del titolo edilizio e dalla originaria determinazione degli oneri in misura corrispondente a circa un quarto rispetto a quanto rideterminato dal Comune con le note avversate in primo grado;

b) il difetto di motivazione sui criteri di calcolo adottati dal Comune per la determinazione degli oneri, risultati di incerta o, comunque, di difficile comprensione;

c) l’erronea quantificazione dei predetti oneri, sulla base della pavimentazione lorda dei capannoni anziché su quella netta;

d) il diritto all’esenzione dal pagamento di ogni onere, atteso che gli interventi ricadrebbero nell’ambito del patto territoriale Golfo di Castellamare in relazione al quale il Comune di Cinisi sarebbe esonerato dalla realizzazione delle opere di urbanizzazione (onde non potrebbe, per simmetria, richiedere il pagamento di alcun onere);

e) l’erronea applicazione retroattiva dell’adeguamento contributivo che, per contro, ai sensi dell’art. 24 della L.R. n. 25 del 1997 si applicherebbe soltanto dall’anno successivo a quello di effettiva determinazione;

f) l’erronea applicazione di una maggiorazione a titolo di sanzione per l’omesso versamento della terza rata dei contributi per come originariamente determinati, benché il Comune fosse beneficiario di espressa polizza fideiussoria che avrebbe potuto/dovuto far valere tempestivamente alla scadenza dei singoli ratei.

4. Il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, con l’ordinanza n. 175 del 27 marzo 2018, ha riunito i due giudizi e, nel rilevare un contrasto di giurisprudenza in ordine alla rideterminazione degli oneri concessori, ha rimesso l’esame delle controversie e ha posto a questa Adunanza plenaria i seguenti quesiti:

a) se la rideterminazione degli oneri concessori, operata nel caso di specie dal Comune di Cinisi e contestata dagli odierni appellati, sia estrinsecazione di un potere autoritativo, da parte della pubblica amministrazione, nell’ambito dell’autotutela pubblicistica soggetta ai presupposti e ai requisiti dell’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990 o sia espressione, invece, di una sua legittima facoltà, nell’ambito del rapporto paritetico di natura creditizia, conseguente al rilascio del titolo edilizio a carattere oneroso, sottoposto nelle sue forme di esercizio al termine prescrizionale ordinario;

b) ove dovesse prevalere la prima opzione interpretativa, se la rideterminazione dei suddetti oneri sia da ascrivere all’ambito dei rapporti di diritto pubblico, quali che siano le ragioni che l’hanno ispirata, ovvero solo nei casi in cui la stessa dipenda dall’applicazione di parametri o coefficienti determinativi diversi (originari o sopravvenuti) da quelli in precedenza applicati, con l’esclusione, quindi, dei casi di errore materiale di calcolo delle somme dovute sulla base dei medesimi parametri normativi;

c) in alternativa, e a prescindere dall’inquadramento giuridico della fattispecie secondo le categorie richiamate, e quale che sia la categoria giuridica da riconnettere al provvedimento determinativo degli oneri concessori, se vi sia spazio, e in quali limiti, perché possa trovare applicazione nella fattispecie in esame il principio del legittimo affidamento del privato, da ricostruire vuoi sulla base della disciplina pubblicistica dell’autotutela, vuoi su quella privatistica della lealtà e della buona fede nell’esecuzione delle prestazioni contrattuali, ovvero sulla base dei principî desumibili dai limiti posti dall’ordinamento civile per l’annullamento del contratto per errore o per un’altra causa.

4.1. Le parti hanno depositato memorie, ai sensi dell’art. 73 c.p.a., in vista dell’udienza pubblica, fissata per la data dell’11 luglio 2018.

4.2. Infine, nella pubblica udienza dell’11 luglio 2018, questa Adunanza plenaria, sentiti i difensori delle parti, ha trattenuto la causa in decisione.

DIRITTO

1. L’Adunanza plenaria ritiene che ai tre quesiti posti dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana con l’ordinanza n. 175 del 17 marzo 2018 debbano darsi le risposte che seguono.

2. Con il primo quesito, come si è accennato nell’esposizione del fatto (v., supra, §4), il Consiglio chiede all’Adunanza se la rideterminazione degli oneri concessori sia estrinsecazione di un potere autoritativo, da parte della pubblica amministrazione, nell’ambito dell’autotutela pubblicistica soggetta ai presupposti e ai requisiti dell’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990 o sia espressione di una sua legittima facoltà, nell’ambito del rapporto paritetico di natura creditizia, conseguente al rilascio del titolo edilizio a carattere oneroso, sottoposto nelle sue forme di esercizio al termine prescrizionale ordinario.

2.1. A tale quesito si deve rispondere che la rideterminazione degli oneri concessori costituisce l’esercizio di una legittima facoltà nell’ambito di un rapporto paritetico tra la pubblica amministrazione e il privato.

2.2. Questa Adunanza non ignora, invero, come non sia tuttora sopito il dibattito in ordine alla natura giuridica e al corretto inquadramento del contributo di costruzione, previsto dal vigente art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001, dibattito legato, inscindibilmente, anche alla vexata quaestio dell’inerenza del c.d. ius aedificandi al diritto di proprietà (su cui v., per tutte, Corte cost., 30 gennaio 1980, n. 5, Cons. St., sez. V, 19 febbraio 1982, n. 122).

2.3. Non è questa ovviamente la sede per ripercorrere siffatta questione, ora comunque superata dalla ormai riconosciuta natura autorizzatoria del permesso di costruire, ma basti dire, ai fini che qui rilevano, che la peculiare natura del titolo edilizio – la concessione edilizia della l. n. 10 del 1977 e, ora, il permesso di costruire del d.P.R. n. 380 del 2001 – induce a ritenere che esso, al di là del suo carattere sostanzialmente autorizzatorio, sia comunque, direttamente o indirirettamente, attributivo, per il privato, di rilevanti benefici economici, a fronte dei quali è previsto in termini di controprestazione il pagamento di una somma di danaro, appunto il contributo di costruzione, non altrimenti qualificabile che come corrispettivo di diritto pubblico.

2.4. La stessa ordinanza n. 175 del 27 marzo 2018 ha ricordato, in modo completo e approfondito, quale sia la consolidata giurisprudenza amministrativa in questa materia, seppure con alcune significative divergenze, di cui si dirà oltre, in ordine alla disciplina civilistica da applicare alla rideterminazione del contributo di costruzione, previsto dall’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001.

3. Occorre qui richiamare in premessa, salvo poi soffermarsi su di essi con maggiore attenzione nel prosieguo della trattazione, i principî affermati di recente da questa Adunanza plenaria nella sentenza n. 24 del 7 dicembre 2016 riguardo alla natura del contributo di costruzione dovuto dal soggetto che intraprenda un’iniziativa edificatoria.

3.1. Detto contributo, previsto dall’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001 e articolato nelle due voci inerenti agli oneri di urbanizzazione e al costo di costruzione (prescindendo qui dalla singola funzione, e natura, di dette voci), rappresenta, secondo la qualificazione datane da questa stessa Adunanza plenaria, una compartecipazione del privato alla spesa pubblica occorrente alla realizzazione delle opere di urbanizzazione.

3.2. In altri termini, fin dalla legge che ha introdotto nell’ordinamento il principio della onerosità del titolo a costruire (art. 1 della l. n. 10 del 1977), la ragione della compartecipazione alla spesa pubblica del privato è da ricollegare sul piano eziologico al surplus di opere di urbanizzazione che l’amministrazione comunale è tenuta ad affrontare in relazione al nuovo intervento edificatorio del richiedente il titolo edilizio.

3.3. Il contributo per il rilascio del permesso di costruire ha natura di prestazione patrimoniale imposta, di carattere non tributario, ed ha carattere generale, prescindendo totalmente delle singole opere di urbanizzazione che devono in concreto eseguirsi, venendo altresì determinato indipendentemente sia dall’utilità che il concessionario ritrae dal titolo edificatorio sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare dette opere.

3.4. In sostanza, le opere di urbanizzazione – per la cui remunerazione il contributo viene imposto – hanno spesso portata più ampia rispetto a quelle strettamente necessarie ad urbanizzare il nuovo insediamento edilizio posto in essere da chi abbia ottenuto il titolo edilizio ed hanno quindi sovente natura indivisibile, nel senso che non sono frazionabili in porzioni funzionali al soddisfacimento delle esigenze dei singoli nuovi insediati.

3.5. In ragione di tanto, per l’esecuzione di dette opere, da realizzare in conseguenza del fatto edificatorio in sé considerato, l’amministrazione comunale attinge normalmente alla fiscalità generale, senza necessariamente attendere il pagamento del contributo da parte dell’obbligato, e quindi a prescindere dal suo puntuale adempimento.

3.6. Per tale motivo, quand’anche risultino trasfuse in una apposita convenzione urbanistica, le prestazioni da adempiere da parte dell’amministrazione comunale e del privato intestatario del titolo edilizio non sono tra loro in posizione sinallagmatica.

3.7. L’amministrazione comunale, infatti, è tenuta ad eseguire le opere di urbanizzazione e a dotare degli indispensabili standard il comparto ove viene allocato il nuovo insediamento edilizio a prescindere dal puntuale pagamento del contributo di costruzione da parte del soggetto che abbia ottenuto il titolo edilizio; per parte sua, questi è tenuto al pagamento del contributo senza poter pretendere la previa realizzazione delle opere di urbanizzazione.

3.8. Da ciò discende che il soggetto obbligato sia tenuto a corrispondere il contributo di costruzione nel rispetto dei termini convenuti e che l’amministrazione comunale deve eseguire le opere di urbanizzazione in coerenza, anche sul piano temporale, allo sviluppo edilizio del territorio.

3.9. Tali, in sintesi, sono i principî che l’Adunanza plenaria ha affermato in subiecta materia sulla scorta, peraltro, di un consolidato indirizzo ermeneutico del giudice amministrativo.

4. Occorre adesso esaminare, proprio alla luce di questi fondamentali principî, il primo quesito posto dall’ordinanza di rimessione.

4.1. Questa ricorda che secondo una prima tesi, seguita dallo stesso Consiglio di giustizia amministrativa (nelle sentenze nn. 64, 188, 244, 373, 422 e 790 del 2007), la determinazione del contributo darebbe luogo ad un rapporto paritetico che, seppur azionabile da ambo le parti nel rispetto del termine prescrizionale ordinario di dieci anni, si cristallizzerebbe nel quantum al momento del rilascio del titolo edilizio, nel senso che lo stesso non sarebbe suscettibile di modifiche successive (se non nei casi di manifesto errore di calcolo), in quanto, in applicazione dei principi desumibili dalla disciplina dei contratti, non darebbe mai luogo ad un errore riconoscibile (donde l’intangibilità pressoché assoluta della originaria determinazione amministrativa).

4.2. In base a tale approccio ermeneutico, come pure ben rammenta l’ordinanza di rimessione, non vi sarebbe ragione per l’applicazione dell’istituto dell’autotutela amministrativa per la eventuale rideterminazione del contributo, proprio perché il rapporto inter partes è di natura paritetica, né vi sarebbe spazio per una modifica successiva per errore perché questo, in quanto maturato nella sfera riservata della pubblica amministrazione, sarebbe per definizione non riconoscibile e quindi irrilevante, con la conseguenza che si dovrebbe sempre salvaguardare la tutela dell’affidamento della parte privata.

4.3. Un’altra tesi, fatta propria in alcune sentenze della sez. IV di questo Consiglio di Stato (cfr., in particolare, Cons. St., sez. IV, 27 settembre 2017 n. 4515, Cons. St., sez. IV, 12 giugno 2017 n. 2821), benché muova da una analoga impostazione sulla natura paritetica del rapporto, giunge tuttavia a conclusioni opposte.

4.4. Si è osservato, infatti, che proprio perché si tratta di un rapporto di debito-credito di natura paritetica, soggetto a prescrizione decennale, la rettifica sarebbe sempre possibile sia in bonam che in malam partem, entro il limite della prescrizione del diritto reciproco delle parti alla correzione delle esatte somme dovute, perché per un verso il procedimento sarebbe svincolato dal rispetto delle condizioni legali di esercizio dell’autotutela amministrativa (in particolare, di quelle previste all’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990) e, per altro verso, la rideterminazione del contributo dovuto secondo rigidi parametri regolamentari o tabellari non soltanto sarebbe possibile, ma costituirebbe atto dovuto, residuando altrimenti un indebito oggettivo, inammissibile nei rapporti di diritto amministrativo.

4.5. Più in particolare, osserva ancora l’ordinanza di rimessione, nella sentenza n. 2821 del 2017 di questo Consiglio di Stato si afferma che, in sostanza, l’applicazione di una tariffa diversa da quella corretta altro non è che un errore di calcolo della tariffa, sicché vi sarebbe sempre spazio per la rettifica, purché si tratti della tariffa vigente all’epoca del rilascio del titolo edilizio (con esclusione quindi di ogni forma di applicazione di regimi tariffari in via retroattiva).

4.6. Entrambe le tesi, osserva il Consiglio di giustizia amministrativa, muoverebbero dal rilievo, ampiamente diffuso nella giurisprudenza amministrativa, secondo cui le controversie in tema di determinazione della misura dei contributi edilizi concernono l’accertamento di diritti soggettivi che traggono origine direttamente da fonti normative, sicché sarebbero proponibili, a prescindere dall’impugnazione di provvedimenti dell’amministrazione, nel termine di prescrizione (Cons. St., sez. IV, 20 novembre 2012 n. 6033; Cons. St., sez. V, 4 maggio 1992, n. 360) e ribadiscono che si tratta di rapporto creditorio paritetico, ma pervengono, come detto, a conclusioni assai diversificate sul piano della tutela da apprestare alla parte privata che, come nel caso di specie, abbia subito una rideterminazione in peius.

5. L’ordinanza di rimessione individua, tuttavia, una posizione diversa e innovativa rispetto ai riferiti orientamenti giurisprudenziali, quantomeno in ordine alla impostazione teorica delle questioni, in un’altra sentenza della quarta sezione del Consiglio di Stato (cfr. Cons. St., sez. IV, 21 dicembre 2016, n. 5402).

5.1. Nella vicenda esaminata da detta pronuncia il rapporto nascente dalla determinazione del contributo (nel caso esaminato, di costruzione) è attratto nell’orbita del regime di diritto pubblico, in quanto qualificato prestazione patrimoniale imposta di carattere non tributario, con la conseguente applicabilità, in astratto, delle regole dell’autotutela amministrativa.

5.2. E tuttavia, sul piano della tutela dell’affidamento della parte privata rispetto ad una delibera di giunta comunale di rideterminazione del contributo di costruzione (sia pur di adeguamento alla soglia minima del 5% fissata dalla legge nazionale all’art. 16, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001), si afferma che le garanzie partecipative (in particolare quelle di cui all’art. 10-bis della l. n. 241 del 1990) devono essere pur sempre coordinate con le previsioni dell’art. 21-octies della l. cit. e con le esigenze di finalizzazione del procedimento con l’applicazione della tariffa dovuta.

5.3. Si richiama al proposito la giurisprudenza del Consiglio di Stato sul recupero di somme indebitamente corrisposte dalla amministrazione (Cons. St., sez. V, 30 dicembre 2015, n. 5863), fattispecie che viene assimilata a quella di causa, relativa a somme dovute dal privato e non riscosse dall’ente comunale.

5.4. Al di là del contenuto negativo delle statuizioni sui singoli capi di domanda, osserva ancora l’ordinanza di rimessione, la decisione si segnalerebbe per il «cambio di passo» rispetto ai precedenti arresti della medesima sezione in ordine all’inquadramento generale nei sensi anzidetti dell’istituto del contributo previsto dall’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001.

5.5. In tale contesto, aggiunge ancora l’ordinanza di rimessione, non potrebbe non farsi menzione di quanto affermato dalla Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza n. 24 del 2016, di cui si è già detto in premessa.

5.6. In tale decisione, resa sulla diversa questione della applicabilità delle sanzioni per ritardo nel pagamento dei contributi, pur in presenza di una polizza fideiussoria a garanzia del debito del contributo ammesso a dilazione, si è tra l’altro affermato – per quel che qui rileva – che il contributo dovuto dal privato in occasione del ritiro di un permesso di costruire, quale prestazione patrimoniale imposta funzionale a remunerare l’esecuzione di opere pubbliche, si colloca pacificamente nell’alveo dei rapporti di diritto pubblico.

5.7. Si è in particolare affermato che il contributo di costruzione dovuto dal soggetto che intraprenda un’iniziativa edificatoria rappresenta una compartecipazione del privato alla spesa pubblica occorrente alla realizzazione delle opere di urbanizzazione e ha natura di prestazione patrimoniale imposta, di carattere non tributario.

5.8. Per tale motivo, dunque, le prestazioni da adempiere da parte dell’amministrazione comunale e del privato intestatario del titolo edilizio non sono tra loro in posizione sinallagmatica, con la conseguenza che il soggetto obbligato è tenuto a corrispondere il contributo di costruzione nel rispetto dei termini stabiliti.

5.9. Il suo mancato pagamento legittima quindi l’Amministrazione ad esercitare il suo potere-dovere in ordine all’applicazione di sanzioni pecuniarie crescenti in rapporto all’entità del ritardo, ai sensi dell’art. 42 del d.P.R. n. 380 del 2001, e, in caso di persistenza dell’inadempimento, alla riscossione del contributo e delle sanzioni secondo le norme vigenti in materia di riscossione coattiva delle entrate, ai sensi dell’art. 43 dello stesso d.P.R. n. 380 del 2001.

6. Le conclusioni raggiunte dall’Adunanza plenaria, secondo l’ordinanza di rimessione, meriterebbero condivisione, quantomeno se restano ferme le conclusioni sulla natura di prestazione patrimoniale imposta del contributo di cui si controverte e sul suo carattere non sinallagmatico rispetto agli interventi di urbanizzazione che mettono capo all’ente pubblico, secondo un livello di programmazione temporale e qualitativo sul quale il privato non avrebbe titolo per interferire.

6.1. L’ascrizione all’alveo dei rapporti di diritto pubblico del contributo in questione imporrebbe quindi, in via consequenziale, l’applicazione del regime proprio dell’autotutela amministrativa all’attività di rideterminazione delle somme dovute a tal titolo dalla parte privata, quantomeno nei casi in cui non si tratti di por mano ad un semplice errore materiale di calcolo desumibile dagli atti del procedimento ovvero non si tratti di rideterminazione imposta dall’adozione di un nuovo provvedimento abilitativo edilizio, anche semplicemente per effetto della intervenuta decadenza temporale del primo (ma qui si resterebbe in ogni caso fuori dall’ambito dell’autotutela).

6.2. L’ordinanza di rimessione esprime una preferenza rispetto alle suindicate opzioni ermeneutiche e osserva che la soluzione da ultimo proposta, oltre a recuperare coerenza sul piano dogmatico con il sistema giuridico di riferimento, si rivelerebbe più appropriata anche in ordine al miglior grado di contemperamento delle esigenze pubblicistiche sottese alla corretta determinazione del contributo dovuto (e alla salvaguardia degli interessi erariali), anche in sede di emenda di precedenti errori di quantificazione, e le esigenze di tutela della parte privata riguardo all’affidamento riposto nella originaria determinazione dell’ente.

6.3. A tale ultimo proposito, infatti, soccorrerebbero gli istituti posti a presidio delle garanzie partecipative previsti per l’attività amministrativa di secondo grado, oltre che naturalmente il rispetto delle stesse condizioni legali di legittimo esercizio dell’autotutela, avuto riguardo ai tempi, alle forme ed ai contenuti motivazionali dell’atto espressivo del c.d. ius poenitendi (cfr., in particolare, artt. 21-quinquies, 21-octies e 21-nonies della l. n. 241 del 1990).

7. L’Adunanza plenaria osserva che al quesito inerente alla natura, privatistica o pubblicistica, degli atti con i quali l’amministrazione comunale determina o ridetermina il contributo di costruzione, di cui all’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001, debba rispondersi con la riaffermazione della loro natura privatistica, sin qui ribadita dalla giurisprudenza di questo Consiglio.

7.1. E in particolare, per quanto attiene alla specifica vicenda di cui è causa, va qui ribadito, in conformità all’orientamento sin qui ricordato, che il contributo per gli oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del concessionario a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione e in proporzione dell’insieme dei benefici che la nuova costruzione acquista, senza alcun vincolo di scopo in relazione alla zona interessata alla trasformazione urbanistica e indipendentemente dalla concreta utilità che il concessionario può conseguire dal titolo edificatorio e dall’ammontare delle spese effettivamente occorrenti per la realizzazione delle opere (Cons. St., sez. IV, 5 maggio 2017, n. 2055).

7.2. L’obbligazione di corrispondere il contributo nasce, come è noto, nel momento in cui viene rilasciato il titolo ed è a tale momento che occorre aver riguardo per la determinazione dell’entità del contributo (Cons. St., sez. IV, 30 novembre 2015, n. 5412, ma v. anche Cons. St., sez. V, 13 giugno 2003, n. 3332).

7.3. L’atto di imposizione e di liquidazione del contributo, quale corrispettivo di diritto pubblico richiesto per la compartecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione, non ha natura autoritativa né costituisce esplicazione di una potestà pubblicistica, ma si risolve in un mero atto ricognitivo e contabile, in applicazione di rigidi e prestabiliti parametri regolamentari e tabellari.

7.4. Va ricordato, infatti, che gli oneri di urbanizzazione, ai sensi dell’art. 16, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, sono corrisposti sulla base delle tabelle parametriche, predisposte dalle Regioni, tabelle che devono essere recepite dal Comune in una propria deliberazione, atto amministrativo generale impugnabile solo con il concreto provvedimento applicativo.

7.5. La determinazione degli oneri di urbanizzazione si correla ad una precisa disciplina regolamentare, con la conseguenza che, per costante orientamento giurisprudenziale, i provvedimenti applicativi della stessa non richiedono alcuna puntuale motivazione allorché le scelte operate dalla pubblica amministrazione si conformino ai criterî stessi di cui alle tabelle parametriche (Cons. St., sez. V, 9 febbraio 2001, n. 584).

7.6. Per l’altrettanto consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato, la natura paritetica dell’atto di determinazione consente che la pubblica amministrazione possa apportarvi modifiche, sia in favore del privato che in senso contrario, purché ciò avvenga nei limiti della prescrizione decennale del relativo diritto di credito (v., inter multas, Cons. St., sez. IV, 28 novembre 2012, n. 6033, Cons. St., sez. IV, 17 settembre 2010, n. 6950).

7.7. Si tratta, infatti, di una determinazione che obbedisce a prescrizioni desumibili da tabelle, in ordine alla quale l’amministrazione comunale si limita ad applicare dei parametri, aventi per la stessa natura cogente, laddove è esclusa qualsivoglia discrezionalità applicativa (Cons. St., sez. IV, 28 novembre 2012, n. 6033).

7.8. La giurisprudenza è consolidata, per parte sua, nell’affermare, che la controversia in ordine alla spettanza e alla liquidazione del contributo per gli oneri di urbanizzazione, riservata alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo a norma dell’art. 16 della l. n. 10 del 1977 e, oggi, dell’art. 133, comma 1, lett. f), c.p.a., ha ad oggetto l’accertamento di un rapporto di credito a prescindere dall’esistenza di atti della pubblica amministrazione e non è soggetta alle regole delle azioni impugnatorie-annullatorie degli atti amministrativi e ai rispettivi termini di decadenza.

7.9. La natura non autoritativa dei relativi atti e l’assenza di discrezionalità, nell’ambito di un rapporto paritetico tra la pubblica amministrazione e il privato, rendono perciò concettualmente inconfigurabile l’esercizio dell’autotutela pubblicistica, quale potere di secondo grado che viene incidere, secondo determinati presupposti e limiti, su un primigenio episodio di esercizio del potere autoritativo, che qui non sussiste ab origine (cfr., sul punto, Cons. St., sez. IV, 12 giugno 2017, n. 2821; Cons. St., sez. IV, 27 settembre 2017, n. 4515).

8. E del resto, anche in riferimento alla contigua fattispecie del recupero delle somme indebitamente percepite dal pubblico dipendente, la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha ritenuto non accettabile il richiamo alla teoria, secondo la quale il recupero di una somma da parte della pubblica amministrazione presupporrebbe l’annullamento, in sede di autotutela, del provvedimento recante la determinazione dell’emolumento in misura maggiore di quella dovuta.

8.1. Invero, ove pure si prescinda dalla considerazione che tale teoria si concreta, sovente, in una fictio iuris, mancando del tutto un provvedimento siffatto, «quest’ultimo, anche ove esistente, si risolve nella rideterminazione della somma effettivamente spettante per legge (o per contratto), in luogo di quella erroneamente corrisposta, onde, una volta affermata la doverosità della sua adozione, esso non può che partecipare della stessa natura paritetica dell’atto che va a rimuovere, concretandosi in null’altro che in un diverso accertamento dell’entità del debito retributivo della p.a. e del correlato credito del dipendente» (Cons. St., sez. VI, 20 aprile 2004, n. 2203).

9. L’Adunanza plenaria ritiene che, peraltro, al nuovo indirizzo interpretativo, che sembrerebbe delinearsi nella sentenza n. 5402 del 21 dicembre 2016 della IV sezione di questo Consiglio di Stato e nella stessa pronuncia n. 24 del 2016 di questa Adunanza, non possa attribuirsi il significato sistematico, con tutte le conseguenti ricadute applicative in termini di disciplina applicabile, che l’ordinanza di rimessione loro annette.

9.1. Nella sentenza n. 5402 del 21 dicembre 2016 della IV sezione di questo Consiglio di Stato si fa riferimento, è vero, all’istituto dell’autotutela pubblicistica per giustificare ad abundantiam la correttezza della rideterminazione del contributo relativo al costo di costruzione da parte del Comune, ma si ribadisce, ancora una volta, il noto principio (cfr., per tutti, Cons. St., sez. IV, 6 giugno 2016 n. 2394) «secondo cui l’azione volta alla declaratoria di insussistenza o di diversa entità del debito contributivo correlato al rilascio del permesso di costruire può essere intentata senza onere d’impugnazione o di esistenza dell’atto con il quale è richiesto il pagamento (essendo un giudizio d’accertamento di un rapporto obbligatorio pecuniario paritetico e bilaterale) ed è proponibile nel termine prescrizionale avanti a questo Giudice in sede di cognizione esclusiva ex art. 133, co. 1, lett. f), c.p.a.».

9.2. Parimenti, nella sentenza n. 24 del 7 dicembre 2016 di questa Adunanza, si afferma, nel § 5.3, che il contributo di costruzione, quale prestazione patrimoniale imposta funzionale a remunerare l’esecuzione di opere pubbliche, si colloca pacificamente «nell’alveo dei rapporti di diritto pubblico», come sarebbe dimostrato dal fatto che il suo mancato pagamento legittima l’amministrazione all’applicazione di sanzioni pecuniarie crescenti in rapporto all’entità del ritardo (art. 42 d.P.R. n. 380 del 2001) e, in caso di persistenza dell’inadempimento, alla riscossione del contributo e delle sanzioni secondo le norme vigenti in materia di riscossione coattiva delle entrate (art. 43 d.P.R. del d.P.R. n. 380 del 2001).

9.3. Da queste considerazioni, tuttavia, non è possibile trarre alcuna conclusione sul piano sistematico in ordine alla natura pubblicistica del rapporto tra l’amministrazione e il soggetto obbligato.

9.4. Il contributo di costruzione è e rimane, infatti, un corrispettivo di diritto pubblico, proprio per il fondamentale principio dell’onerosità del titolo edilizio introdotto dall’art. 1 della l. n. 10 del 1977 – lo ricorda la stessa Adunanza plenaria nel § 5.2 della sentenza n. 24 del 2016 – e poi recepito dall’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2011, e come tale, benché esso non sia legato da un rigido vincolo di sinallagmaticità rispetto del rilascio del permesso di costruire, rientra anche, e coerentemente, nel novero delle prestazioni patrimoniali imposte di cui all’art. 23 Cost.

9.5. La costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha sempre ribadito che il contributo per gli oneri di urbanizzazione, per quanto non abbia natura tributaria, costituisce, comunque, un corrispettivo di diritto pubblico posto a carico del costruttore, connesso al rilascio della concessione edilizia, a titolo di partecipazione del concessionario ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae, e che «per la determinazione di esso deve essere fatto necessario ed esclusivo riferimento alle norme di legge che regolano i relativi criteri di conteggio, norme che vanno rigorosamente rispettate anche in osservanza del principio di cui all’art. 23 della Costituzione , secondo il quale nessuna prestazione patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge» (Cons. St., sez. V, 21 aprile 2006, n. 2228).

10. L’affermazione secondo cui il contributo di costruzione costituisce una prestazione patrimoniale imposta e rientra a tale titolo nell’ambito dei rapporti di diritto pubblico in quanto necessariamente legata al rilascio del titolo edilizio, tuttavia, non comporta ex se che i relativi atti di determinazione abbiano necessariamente carattere autoritativo, si colorino, per così dire, di imperatività e siano espressione di potestà pubblicistica.

10.1. Il privato che intende ottenere il permesso di costruire ha avanti a sé la scelta di corrispondere il contributo di costruzione o di rinunciare al rilascio del titolo.

10.2. Effettuata questa scelta, che comporta la necessaria corresponsione del corrispettivo di diritto pubblico, il pagamento di questo, esclusa pacificamente la sua natura tributaria, non può che costituire l’oggetto di un ordinario rapporto obbligatorio, disciplinato dalle norme di diritto privato, come prescrive l’art. 1, comma 1-bis, della l. n. 241 del 1990, salvo che la legge disponga diversamente.

10.3. È vero che il credito dell’amministrazione, per la sua particolare finalità, è assistito da particolari sanzioni e da speciali procedure coattive di riscossione, come ha pure ricordato questa stessa Adunanza plenaria nella sentenza n. 24 del 2016 richiamando le disposizioni di cui agli artt. 42 e 43 del d.P.R. n. 380 del 2001, ma ciò non contrasta con la fondamentale natura del rapporto obbligatorio paritetico inerente al pagamento del contributo e accessorio al rilascio del permesso di costruire.

10.4. Anche la disciplina degli atti non autoritativi della pubblica amministrazione può conoscere, infatti, previsioni derogatorie rispetto alla ordinaria disciplina privatistica, come prevede chiaramente l’art. 1, comma 1-bis, della l. n. 241 del 1990, senza che ciò comporti lo snaturamento del rapporto paritetico che ne è alla base, la loro integrale attrazione alla sfera pubblicistica o, nel caso di specie, l’assimilazione ad una fattispecie paraimpositiva di stampo tributario.

11. Deve quindi escludersi che a tali rapporti di natura meramente obbligatoria e agli atti iure gestionis, di carattere contabile e aventi finalità liquidatoria, adottati dal Comune, si applichi la disciplina dell’autotutela di cui all’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990 o, più in generale, la disciplina dettata dalla stessa l. n. 241 del 1990 per gli atti provvedimentali espressivi di potestà pubblicistica.

11.1. Il carattere paritetico del rapporto, va solo qui aggiunto, non esclude la doverosità della rideterminazione quante volte la pubblica amministrazione si accorga che l’iniziale determinazione degli oneri di urbanizzazione sia dipesa da un’inesatta applicazione delle tabelle o anche da un semplice errore di calcolo.

11.1. Il Comune è pur sempre, infatti, titolare del potere-dovere di richiedere il contributo di costruzione secondo i parametri e nei limiti fissati dalla legge e dalle disposizioni regolamentari integrative fissate dalle Regioni, facendone una applicazione vincolata alla predeterminazione di coefficienti, che il privato deve conoscere e ben può verificare.

12. Discende da quanto detto che gli atti con i quali la pubblica amministrazione determina e liquida il contributo di costruzione, previsto dall’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001, non hanno natura autoritativa, non essendo espressione di una potestà pubblicistica, ma costituiscono l’esercizio di una facoltà connessa alla pretesa creditoria riconosciuta dalla legge al Comune per il rilascio del permesso di costruire, stante la sua onerosità, nell’ambito di un rapporto obbligatorio a carattere paritetico e soggetta, in quanto tale, al termine di prescrizione decennale, sicché ad essi non possono applicarsi la disciplina dell’autotutela dettata dall’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990 né, più in generale, le disposizioni previste dalla stessa legge per gli atti provvedimentali manifestazioni di imperio.

12.1. Si è cioè al cospetto di un rapporto obbligatorio, di contenuto essenzialmente pecuniario (salva l’ipotesi di opere a scomputo di cui all’art. 16, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001), al quale si applicano le disposizioni di diritto privato, salve le specifiche disposizioni previste dalla legge (come, ad esempio, i già citati artt. 42 e 43 del d.P.R. n. 380 del 2001) per la peculiare finalità del credito vantato dall’amministrazione comunale in ordine al pagamento del contributo (oneri di urbanizzazione e costo di costruzione).

13. Quanto al secondo quesito, posto dall’ordinanza di rimessione n. 175 del 27 marzo 2018, la qui riaffermata natura non autoritativa degli atti con i quali l’autorità comunale provvede alla determinazione degli oneri, atti non riconducibili – come detto – all’espressione di una potestà pubblicistica, comporta che nell’ordinario termine decennale di prescrizione, decorrente dal rilascio del titolo edilizio, essa sia sempre possibile, e anzi doverosa, da parte della pubblica amministrazione, nell’esercizio delle facoltà connesse alla propria posizione creditoria, la rideterminazione del contributo, quante volte la pubblica amministrazione si accorga che l’originaria liquidazione di questo sia dipesa dall’applicazione inesatta o incoerente di parametri e coefficienti determinativi, vigenti al momento in cui il titolo fu rilasciato, o da un semplice errore di calcolo, con l’ovvia esclusione della possibilità di applicare retroattivamente coefficienti successivamente introdotti, non vigenti al momento in cui il titolo fu rilasciato.

14. L’ordinanza di rimessione pone, infine, un terzo quesito e intende conoscere se in alternativa, e a prescindere dall’inquadramento giuridico della fattispecie, secondo le categorie sopra richiamate, e quale che sia la categoria giuridica da riconnettere al provvedimento determinativo degli oneri concessori, se vi sia spazio, e in quali limiti, perché possa trovare applicazione nella fattispecie in esame il principio del legittimo affidamento del privato, da ricostruire vuoi sulla base della disciplina pubblicistica dell’autotutela, vuoi su quella privatistica della lealtà e della buona fede nell’esecuzione delle prestazioni contrattuali, ovvero sulla base dei principî desumibili dai limiti posti dall’ordinamento civile per l’annullamento del contratto per errore o per altra causa.

14.1. Al quesito deve rispondersi anzitutto, in conformità con quanto prevede in via generale il già richiamato art. 1, comma 1-bis, della l. n. 241 del 1990, inserito dall’art. 1, comma 1, lett. b), della l. n. 15 del 2005, il quale stabilisce che la pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato, salvo che la legge disponga diversamente.

14.2. E tuttavia il quesito, di fronte ad un evidente contrasto interpretativo sussistente tra il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, con le pronunce del 2007, e al giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, mira specificamente a comprendere, e ad enucleare, le regole che siano o meno applicabili al rapporto obbligatorio di cui si discute.

14.3. Ritiene questa Adunanza plenaria che la disciplina dell’errore riconoscibile, di cui all’art. 1431 c.c., non sia applicabile all’atto con il quale la pubblica amministrazione ridetermini l’importo del contributo.

14.4. Il contrario indirizzo seguito dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana riposa sull’assunto secondo il quale, applicandosi la disciplina dell’art. 1431 c.c., sarebbe lecito dubitare che ricorra la riconoscibilità dell’errore considerando che la determinazione del contenuto dell’obbligazione incombe alla pubblica amministrazione e, in particolare, all’ente territoriale, che istituzionalmente provvede alla disciplina dei criterî generali e all’applicazione di questi ai singoli casi.

14.5. In questa situazione, salvi errori macroscopici di evidenza ictu oculi, sarebbe «difficile ipotizzare che l’eventuale errore dell’Amministrazione sia riconoscibile dal privato che, del tutto naturalmente, viene indotto a prestare affidamento alla correttezza dell’autoliquidazione del proprio credito da parte dell’Amministrazione creditrice» (così, ad esempio, Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 7 settembre 2007, n. 790).

14.6. Un simile ragionamento, tuttavia, tralascia di considerare che l’applicazione delle tabelle parametriche da parte dell’amministrazione comunale, per quanto complessa, costituisce comunque una operazione contabile che, essendo al privato ben note dette tabelle, questi può verificare nella sua esattezza, anzitutto con l’ausilio del progettista che l’assiste nella presentazione della propria istanza, con un ordinario sforzo di diligenza, richiedibile secondo il canone della buona fede al debitore già solo, e anzitutto, nel suo stesso interesse, per evitare che gli venga richiesto meno o più del dovuto.

14.7. La complessità delle operazioni di calcolo o l’eventuale incertezza nell’applicazione di alcune tabelle o coefficienti determinativi, dovuti a ragioni di ordine tecnico, non sono eventi estranei o ignoti alla sfera del debitore, che invece con l’ordinaria diligenza, richiesta dagli artt. 1175 e 1375 c.c., può e deve controllarne l’esattezza sin dal primo atto di loro determinazione.

14.8. Certamente, e a sua volta, il Comune ha l’obbligo di adoperarsi affinché la liquidazione del contributo di costruzione venga eseguita nel modo più corretto, sollecito, scrupoloso e preciso, sin dal principio, ma la collaborazione tra l’autorità comunale e il privato richiedente, in una visione del diritto amministrativo improntata al principio di buon andamento e alla legalità sostanziale, è imprescindibile in questa materia, già solo sul piano dell’interlocuzione procedimentale, e non può certo affermarsi, proprio per questo, una incomunicabilità o inconoscibilità tra la sfera dell’una e quella dell’altro che porti all’applicazione dell’art. 1431 c.c., quasi che l’iniziale errore nell’applicazione delle tabelle o dei coefficienti, da parte dell’autorità comunale, sia un fatto “del tutto naturalmente” incomprensibile o imponderabile dal privato perché puramente interno alla sfera dell’amministrazione creditrice.

14.9. La tutela del legittimo affidamento e il principio della buona fede (art. 1175 e 1375 c.c.), che in via generale devono essere osservati anche dalla pubblica amministrazione nell’attuazione del rapporto obbligatorio (v., sul punto, Cass., sez. L, 7 aprile 1992, n. 4226), possono trovare applicazione ad una fattispecie come quella in esame nella quale, ordinariamente, l’oggettività dei parametri da applicare al contributo di costruzione rende vincolato il conteggio da parte della pubblica amministrazione, consentendone a priori la conoscibilità e la verificabilità da parte dell’interessato con l’ordinaria diligenza, solo nella eccezionale ipotesi in cui tali conoscibilità e verificabilità non siano possibili con il normale sforzo richiesto al debitore, secondo appunto buona fede, nell’ottica di una leale collaborazione finalizzata all’attuazione del rapporto obbligatorio e al soddisfacimento dell’interesse creditorio.

15. In conclusione, e riassumendo quindi i principî di diritto sin qui diffusamente enunciati, si può quindi affermare che:

a) gli atti con i quali la pubblica amministrazione determina e liquida il contributo di costruzione, previsto dall’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001, non hanno natura autoritativa, non essendo espressione di una potestà pubblicistica, ma costituiscono l’esercizio di una facoltà connessa alla pretesa creditoria riconosciuta dalla legge al Comune per il rilascio del permesso di costruire, stante la sua onerosità, nell’ambito di un rapporto obbligatorio a carattere paritetico e soggetta, in quanto tale, al termine di prescrizione decennale, sicché ad essi non possono applicarsi né la disciplina dell’autotutela dettata dall’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990 né, più in generale, le disposizioni previste dalla stessa legge per gli atti provvedimentali manifestazioni di imperio;

b) la pubblica amministrazione, nel corso di tale rapporto, può pertanto sempre rideterminare, sia a favore che a sfavore del privato, l’importo di tale contributo, in principio erroneamente liquidato, richiedendone o rimborsandone a questi la differenza nell’ordinario termine di prescrizione decennale (art. 2946 c.c.) decorrente dal rilascio del titolo edilizio, senza incorrere in alcuna decadenza, mentre per parte sua il privato non è tenuto ad impugnare gli atti determinativi del contributo nel termine di decadenza, potendo ricorrere al giudice amministrativo, munito di giurisdizione esclusiva ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. f), c.p.a., nel medesimo termine di dieci anni, anche con un’azione di mero accertamento;

c) l’amministrazione comunale, nel richiedere i detti importi con atti non aventi natura autoritativa, agisce quindi secondo le norme di diritto privato, ai sensi dell’art. 1, comma 1-bis, della l. n. 241 del 1990, ma si deve escludere l’applicabilità dell’art. 1431 c.c. a questa fattispecie, in quanto l’errore nella liquidazione del contributo, compiuto dalla pubblica amministrazione, non attiene ad elementi estranei o ignoti alla sfera del debitore ed è quindi per lui in linea di principio riconoscibile, in quanto o riguarda l’applicazione delle tabelle parametriche, che al privato sono o devono essere ben note, o è determinato da un mero errore di calcolo, ben percepibile dal privato, errore che dà luogo alla semplice rettifica;

d) la tutela dell’affidamento e il principio della buona fede, che in via generale devono essere osservati anche dalla pubblica amministrazione dell’attuazione del rapporto obbligatorio, possono trovare applicazione ad una fattispecie come quella in esame nella quale, ordinariamente, la predeterminazione e l’oggettività dei parametri da applicare al contributo di costruzione, di cui all’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001, rendono vincolato il conteggio da parte della pubblica amministrazione, consentendone a priori la conoscibilità e la verificabilità da parte dell’interessato con l’ordinaria diligenza, solo nella eccezionale ipotesi in cui tali conoscibilità e verificabilità non siano possibili con l’ordinaria diligenza richiesta al debitore, secondo buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.), nell’ottica di una leale collaborazione volta all’attuazione del rapporto obbligatorio e al soddisfacimento dell’interesse creditorio vantato dal Comune.

16. L’Adunanza plenaria, affermati tali principî di diritto, ritiene di dover rimettere, ai sensi dell’art. 99, comma 4, c.p.a., la risoluzione delle due cause connesse, anche per quanto concerne la determinazione delle spese del giudizio, al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), non definitivamente pronunciando nei due giudizi riuniti sugli appelli principali, come proposti dal Comune di Cinisi, e sugli appelli incidentali, come proposti da Società di Santo Faro s.n.c. e di Michele Palazzolo, enuncia i principî di diritto, di cui al § 15 della motivazione, e rimette per le restanti statuizioni i due giudizi al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, ai sensi dell’art. 99, comma 4, c.p.a.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

 

Guida alla lettura

La questione sottesa alla presente pronuncia  è se la PA possa rideterminare (in malampartem) gli oneri concessori entro il termine di prescrizione ordinaria decennale (art. 2946 c.c.), oppure possa procedere in tal senso solo ed esclusivamente entro il termine dei 18 mesi previsti per l’annullamento in autotutela dall’art. 21 nonies Legge 241/90.

La sentenza in commento origina dall’ordinanza di rimessione n. 175 del 27/03/2018 del Cons. G.A. Reg. Sic., la quale aveva esposto i tre orientamenti giurisprudenziali sviluppatisi in merito alla questione sopra evidenziata.

Il primo orientamento nega che la rideterminazione (in malampartem) degli oneri concessori possa rientrare nell’ambito dell’esercizio del potere di annullamento (in autotutela) dell’ atto di quantificazione adottato in precedenza, in quanto, nonostante che sia previsto un termine prescrizionale decennale per poter esercitare le relative azioni (tra cui anche quella consistente nella facoltà di modificare il quantum della prestazione dovuta), la suddetta quantificazione deve intendersi come “immodificabile”.

Né, tanto meno, è applicabile l’istituto dell’annullamento civilistico, per effetto del quale la PA, essendo incorsa in un “errore” nel quantificare una prestazione inferiore al dovuto, potrebbe eventualmente esperire, nei confronti del privato, l’azione prevista dall’art. 1428 c.c. . Tale preclusione nei confronti della PA viene motivata con il fatto che quest’ultima, se ha originariamente sbagliato nel quantificare la somma dovuta a titolo di oneri concessori, ha, evidentemente, commesso un “errore”. Tuttavia, nella disciplina civilistica (art. 1428 c.c.), l’errore, per poter legittimare un’azione di annullamento del contratto ad opera di un contraente (in tal caso la PA), deve essere riconoscibile dall’altro contraente (ossia colui contro il quale la suddetta azione viene proposta, quindi in tal caso il privato): ciò al fine di tutelare sia la buona fede di quest’ultimo sia la certezza dei rapporti giuridici nel frattempo sorti, attraverso il contratto, con soggetti terzi. Ciò posto, la PA, se intende annullare il provvedimento di quantificazione e sostituirlo con un altro il quale imponga al privato l’obbligo di versare una somma superiore a quella in precedenza quantificata, non potrà utilizzare lo strumento civilistico dell’annullamento di cui all’art. 1428 c.c., in quanto in tal caso manca il presupposto della “riconoscibilità dell’errore”: quest’ultimo, infatti, è maturato nella sfera riservata alla PA, e quindi non è “riconoscibile” da parte del privato. La “riconoscibilità dell’errore” presuppone che il vizio sia derivato non già da un procedimento amministrativo condotto e gestito in modo unilaterale dalla PA, bensì da un accordo tra le parti: è possibile “riconoscere” un qualcosa solo nella misura in cui ne sia stati parte. Invece, siccome il provvedimento di quantificazione degli oneri è stato adottato all’esito di un procedimento amministrativo ed è stato il risultato di una decisione adottata in maniera unilaterale dalla PA, il privato non ha avuto la possibilità di verificare che siffatta decisione fosse viziata da un “errore”, consistente nel fatto che ad egli era stata addebitata una somma minore di quella dovuta.

Di conseguenza, nonostante che la fattispecie sia inquadrabile nell’ambito di un rapporto di diritto privato, la PA non potrà – al fine di adottare una nuova quantificazione degli oneri concessori in senso peggiorativo per il privato - utilizzare lo strumento dell’annullamento civilistico dell’originario atto di quantificazione, in quanto in tal caso il privato non ha avuto modo di riconoscere l’errore commesso in sede di calcolo; né, d’altra parte, la stessa PA potrà utilizzare a tal fine il termine di prescrizione ordinaria decennale, in quanto il calcolo del contributo di costruzione si è cristallizzato nel momento stesso in cui è stato adottato l’atto di rilascio del permesso di costruire.

Tale tesi è senza dubbio favorevole alla posizione del privato: essa, infatti, non solo afferma che la originaria determinazione degli oneri concessori non è modificabile dalla PA mediante l’annullamento in autotutela, ma nega che la PA possa esercitare tale facoltà di modifica attraverso l’azione civilistica di annullamento del contratto, in quanto il privato non è mai stato posto nella condizione di conoscere “l’errore” commesso dalla PA stessa in sede di calcolo degli oneri.

La tesi in commento si presta, tuttavia, alle seguenti osservazioni critiche.

Che la quantificazione degli oneri di costruzione resti un atto strettamente interno alla PA, e quindi non conoscibile da parte del privato, con la conseguenza quindi che quest’ultimo non si troverebbe mai nella condizione di poter conoscere eventuali errori di calcolo, è assai opinabile. Infatti, il procedimento amministrativo di quantificazione dei suddetti oneri, per come disciplinato dagli artt. 16 – 19 del D.P.R. 380/2001, si presenta come aperto alla partecipazione del privato, in quanto:

- la quota relativa agli oneri di urbanizzazione può essere rateizzata proprio su richiesta del privato, ex art. 16 comma 2 del D.P.R. sopra citato; di conseguenza il privato, intanto decide di richiedere il beneficio della rateazione, in quanto ha accertato che la somma quantificata come dovuta, per quanto possa essere considerevole, è comunque esatta; ed egli ha un solo modo per accertare tale esattezza, ossia risalire, mediante accesso agli atti, all’iter con il quale la PA è giunta al calcolo degli oneri; se accerta che tale iter è stato corretto, allora potrà ritenere, in maniera consapevole, opportuno chiedere di essere ammesso al beneficio; se, invece, dovesse accertare che tale iter non è stato corretto, allora sospenderà ogni valutazione in merito nell’attesa che la PA riesamini la questione;

- nel caso delle convenzioni – tipo approvate dalla Regione ex art. 18 del D.P.R. sopra citato, il comma 3 di tale norma prevede la possibilità, per il titolare del permesso di costruire, di chiedere che “il costo delle aree, ai fini della convenzione, sia determinato in misura pari al valore definito in occasione di trasferimenti di proprietà avvenuti nel quinquennio anteriore alla data della convenzione”. Ebbene, non sembra proprio che il riconoscimento di tale facoltà possa indurre a ritenere che il procedimento di calcolo degli oneri concessori sia chiuso ad ogni istanza partecipativa del privato e quindi renda impossibile a quest’ultimo riconoscere l’eventuale “errore” commesso dalla PA nella quantificazione.

Di conseguenza, la tesi in commento, se da un lato afferma che la determinazione degli oneri concessori ricade nell’ambito dei rapporti di diritto privato, dovrebbe coerentemente anche affermare che, viste le peculiarità del procedimento amministrativo il quale ha condotto a tale determinazione, la PA ben possa considerarsi legittimata a chiedere un annullamento del contratto per errore riconoscibile da parte dell’altro contraente, ossia del privato. E ciò non può che condurre a ritenere applicabile il termine di prescrizione quinquennale previsto dall’art. 1422 c.c. in merito all’azione di annullabilità, il quale, pertanto, si deve applicare in sostituzione del termine di prescrizione decennale di cui all’art. 2946 c.c. : da ciò il privato ricava indubbiamente un vantaggio in quanto, a seguito dell’annullamento dell’originario “accordo” di determinazione degli oneri a causa di errore riconoscibile, la nuova quantificazione (in malam partem per il privato) degli oneri stessi dovrà avvenire entro e non oltre 5 anni dalla conoscenza dell’errore, e non entro il più lungo termine decennale della prescrizione ordinaria.  

Il secondo orientamento ritiene, invece, quanto segue: la rideterminazione degli oneri concessori, proprio perché rientra nell’ambito dei rapporti di diritto privato e quindi è svincolata dall’istituto dell’autotutela amministrativa di cui all’art.21 nonies Legge 241/90, può essere effettuata entro il termine di prescrizione decennale di cui all’art. 2946 c.c.  . Esso evidenzia che, se così non fosse, si legittimerebbe l’applicazione dell’istituto dell’ “indebito oggettivo”, il quale è invece da considerare come inammissibile nei rapporti di diritto amministrativo.

Tale secondo orientamento si presta alle seguenti osservazioni critiche.

Esso, infatti, da un lato è apprezzabile per la sua coerenza, in quanto parte dal presupposto che la rideterminazione degli oneri concessori è inquadrabile nello schema dei rapporti di diritto privato ed arriva alla conclusione secondo cui la PA può esercitare la facoltà entro il termine di prescrizione ordinaria decennale di cui all’art. 2946 c.c.; dall’altro, tuttavia, è incoerente allorquando nega che l’istituto dell’indebito oggettivo possa avere diritto di cittadinanza nell’ordinamento amministrativo, e ciò in quanto, se si ritiene che si tratti di rapporti di diritto privato, allora non vi è motivo per non considerare applicabile l’intera disciplina generale del contratto contenuta nel codice civile, tra cui anche l’istituto della ripetizione d’indebito.

Se si ritiene applicabile il termine ordinario di prescrizione decennale di cui all’art. 2946 c.c., allora non può che farsi rientrare in questo discorso proprio l’istituto dell’indebito oggettivo. Assai significativa al riguardo è la norma contenuta nell’art. 1422 c.c. , in base alla quale “l’azione di nullità è imprescrittibile… salvi gli effetti della prescrizione delle azioni di ripetizione”.

La fattispecie è questa: uno dei due contraenti ha eseguito, in favore dell’altro, un pagamento che in realtà, in base alle norme sia di legge sia negoziali, non era dovuto; tale contraente, inoltre, accerta che il contratto era nullo, e pertanto intende proporre la relativa azione; egli, tuttavia, se, oltre a far accertare la nullità del contratto, intende anche recuperare le somme indebitamente versate, non potrà farlo senza limiti di tempo (come invece accade per l’azione di nullità, che è, appunto, imprescrittibile), ma dovrà farlo, necessariamente, anche in tal caso, entro il termine ordinario decennale di prescrizione di cui all’art. 2946 c.c., in quanto l’azione di ripetizione d’indebito viene concepita come svincolata dall’azione di nullità, ossia la seconda non ricomprende la prima.

Quindi, già nella disciplina civilistica, l’azione di ripetizione d’indebito, anche quando trae origine da un contratto nullo, si presenta come un’azione che può essere esercitata solo entro un certo tempo, e non sine die come accade invece per l’azione di nullità: mentre quest’ultima è imprescrittibile, l’azione di ripetizione di indebito si prescrive.

Questo rappresenta un aspetto fondamentale, in quanto normalmente, quando ad un contratto viene attribuita una determinata forma di invalidità, anche la previsione dei limiti temporali entro cui poter esercitare le relative azioni segue la disciplina prevista per quella forma di invalidità: se un contratto è nullo, le azioni nascenti da tale contratto dovrebbero essere imprescrittibili. Invece, nel caso dell’azione di ripetizione di indebito, è prevista un’eccezione, che è appunto quella della prescrizione.

Ora, tornando alla premessa di partenza (ossia la rideterminazione degli oneri concessori rientra in un rapporto di diritto privato, e non in un rapporto di diritto amministrativo), va ricordato che l’atto con cui originariamente erano stati quantificati gli oneri concessori (per una somma inferiore a quella dovuta) si è concretato pur sempre non già in un “accordo tra le parti” bensì in un “provvedimento amministrativo”: ai sensi dell’art. 16 comma 3 del D.P.R. 380/2001, “La quota di contributo relativa al costo di costruzione, determinata all'atto del rilascio, è corrisposta in corso d'opera, con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, non oltre sessanta giorni dalla ultimazione della costruzione”. Tale “atto di rilascio” non è un “contratto”: è un “provvedimento”.

Pertanto, in contrapposizione alla soluzione interpretativa adottata da questo secondo filone giurisprudenziale, va evidenziato quanto segue:

a) l’errore nella quantificazione del calcolo degli oneri concessori ha configurato, in base all’art. 21 octies della Legge 241/90, una “violazione di legge”, ossia una errata applicazione dei parametri previsti dalle norme per la quantificazione degli oneri, e quindi un vizio di annullabilità di “un provvedimento” (e non già di “un contratto”);

b) ai sensi dell’art. 21 nonies della Legge 241/90, l’annullamento di ufficio può essere esercitato entro 18 mesi dall’adozione del provvedimento di autorizzazione;

c) anche volendo ammettere che la rideterminazione (in malam partem per il privato) degli oneri concessori debba essere inquadrata nell’ambito dei rapporti di diritto privato, e che quindi in realtà tale rideterminazione sia da assimilare alla azione di ripetizione di indebito civilistica, va comunque segnalato che qualsivoglia operazione ermeneutica di accostamento del provvedimento amministrativo ad un rapporto negoziale di diritto privato non deve mai trascurare la norma contenuta nell’art. 11 comma 3 della Legge 241/90, ai sensi del quale anche gli eventuali accordi tra PA e privati, pur quando siano sostitutivi dei provvedimenti amministrativi, sono comunque sottoposti ai medesimi controlli previsti per questi ultimi, ed il controllo sostitutivo per eccellenza del provvedimento amministrativo è proprio quello consistente nell’esercizio del potere (in autotutela) di annullamento di cui all’art. 21 nonies della Legge 241/90, il quale può essere esercitato entro (e non oltre) 18 mesi dall’adozione del provvedimento di autorizzazione;

f) di conseguenza, l’unico strumento per poter modificare (in malampartem per il privato) il provvedimento con cui erano stati quantificati gli oneri concessori, resta quello dell’annullamento di ufficio, esercitabile entro il termine sopra citato: l’ammontare della quota viene appunto determinata - in base alla norma del T.U. edilizia -  contestualmente al rilascio del titolo edilizio, e quindi tale determinazione potrà essere annullata (in malam partem per il privato) entro 18 mesi da quando il privato è stato autorizzato ad eseguire l’intervento;

g) ritenere esercitabile, nel caso di specie, il potere di autotutela, comporta un effetto tutelante, quanto meno temporalmente parlando, per il privato stesso: infatti, ai sensi dell’art. 21 nonies della Legge 241/90, l’annullamento di ufficio può essere esercitato entro 18 mesi dall’adozione del provvedimento di autorizzazione (in tal caso: il rilascio del titolo edilizio), mentre, se si ritenesse prevalente il termine ordinario decennale di prescrizione di cui all’art. 2946 c.c., la facoltà della PA di richiedere al privato un nuovo pagamento degli oneri concessori (causa l’errata quantificazione originaria) potrebbe essere esercitata, per l’appunto, entro questo più lungo termine.

Il terzo orientamento ritiene, contrariamente ai primi due, che la determinazione degli oneri concessori rientri nell’ambito dei rapporti di diritto amministrativo, in quanto il pagamento degli stessi trae fonte non già da un “accordo tra le parti” bensì da una prestazione patrimoniale che viene imposta dalla PA:  pertanto debbono applicarsi le regole dell’autotutela amministrativa.

Il che significa che la PA potrà rideterminare gli oneri concessori (in malam partem per il privato) solo mediante l’annullamento di ufficio (autotutela) dell’originario provvedimento di quantificazione, e quindi entro e non oltre i 18 mesi previsti dall’art. 21 nonies della Legge 241/90.

La terza tesi, quindi, aderisce alle osservazioni critiche mosse alla seconda tesi, in quanto sostiene la non configurabilità della quantificazione degli oneri concessori in termini di “rapporto di diritto privato”.

Il Cons. G.A. Reg. Sic, nell’ordinanza n. 175 del 27/03/2018 di rimessione all’ Adunanza Plenaria, ha aderito al terzo orientamento, ritenendo appunto che quest’ultimo rappresenti il giusto compromesso tra l’esigenza della PA di giungere – anche attraverso provvedimenti successivi – alla esatta quantificazione del contributo dovuto (in modo da non causare un danno erariale) e la tutela del legittimo affidamento della parte privata in ordine alla determinazione originaria del contributo stesso (laddove il privato viene tutelato appunto dal fatto che una nuova quantificazione, in senso per lui peggiorativo, degli oneri da corrispondere, sarà possibile solo entro il limite temporale dei 18 mesi previsti dall’art. 21 nonies della Legge 241/90).

L’Adunanza Plenaria, nella sentenza in commento, sostiene che “Gli atti con i quali la Pubblica amministrazione determina e liquida il contributo di costruzione, previsto dall’art. 16, d.P.R. n. 380 del 2001, non hanno natura autoritativa, non essendo espressione di una potestà pubblicistica, ma costituiscono l’esercizio di una facoltà connessa alla pretesa creditoria riconosciuta dalla legge al Comune per il rilascio del permesso di costruire, stante la sua onerosità, nell’ambito di un rapporto obbligatorio a carattere paritetico e soggetta, in quanto tale, al termine di prescrizione decennale”.

Essa, quindi, si riallaccia alla prima delle due tesi giurisprudenziali sopra commentate, in quanto, analogamente a quest’ultima, ricostruisce la fattispecie in termini di rapporto di diritto privato e giunge alla conclusione che tutte le azioni nascenti da tale rapporto (ivi compresa la rideterminazione, anche in malam partem) degli oneri concessori, sono esercitabili entro il termine ordinario di prescrizione decennale di cui all’art. 2946 c.c. .

Tuttavia, mentre la prima delle tesi sopra esposte riteneva inapplicabile l’istituto dell’annullamento civilistico in quanto sosteneva che l’errore commesso dalla PA in sede di prima quantificazione non fosse riconoscibile da parte del contraente privato, l’Adunanza Plenaria afferma, invece, che “l’errore nella liquidazione del contributo, compiuto dalla pubblica amministrazione, non attiene ad elementi estranei o ignoti alla sfera del debitore ed è quindi per lui in linea di principio riconoscibile, in quanto o riguarda l’applicazione delle tabelle parametriche, che al privato sono o devono essere ben note, o è determinato da un mero errore di calcolo, ben percepibile dal privato”. L’Adunanza Plenaria prosegue affermando che “La complessità delle operazioni di calcolo o l’eventuale incertezza nell’applicazione di alcune tabelle o coefficienti determinativi, dovuti a ragioni di ordine tecnico, non sono eventi estranei o ignoti alla sfera del debitore, che invece con l’ordinaria diligenza, richiesta dagli artt. 1175 e 1375 c.c.,  può e deve controllarne l’esattezza sin dal primo atto di loro determinazione”.

A questo punto, ci si aspetterebbe che la conclusione dell’ Adunanza Plenaria fosse la seguente:

siccome l’errore nella quantificazione degli oneri concessori è ben conoscibile da parte del contraente con la ordinaria diligenza, si integra il presupposto della “riconoscibilità da parte dell’altro contraente” previsto dall’art. 1431 c.c. ai fini dell’annullamento civilistico, e quindi la PA potrà far valere il proprio diritto (negoziale) ad una modifica (in malam partem) di tale quantificazione non già entro il termine ordinario di prescrizione decennale di cui all’art. 2946 c.c. . bensì entro il termine specifico quinquennale di prescrizione di cui all’art. 1422 c.c. .

Invece, l’ Adunanza Plenaria giunge alla conclusione opposta: è vero che l’errore è riconoscibile da parte del privato, ma “si deve escludere l’applicabilità dell’art. 1431 c.c. a questa fattispecie, in quanto l’errore nella liquidazione del contributo, compiuto dalla pubblica amministrazione, non attiene ad elementi estranei o ignoti alla sfera del debitore ed è quindi per lui in linea di principio riconoscibile, in quanto o riguarda l’applicazione delle tabelle parametriche, che al privato sono o devono essere ben note, o è determinato da un mero errore di calcolo, ben percepibile dal privato, errore che dà luogo alla semplice rettifica”.

Tale conclusione suscita talmente tante perplessità da far sorgere il ragionevole dubbio che vi sia stato un vero e proprio errore nella redazione della sentenza !!

Ai sensi dell’art. 1428 c.c., “l’errore è causa di annullamento del contratto quando è essenziale ed è riconoscibile dall’altro contraente” : quindi, è proprio perchè è stata accertata la riconoscibilità dell’errore da parte del privato, che si sarebbe dovuto concludere nel senso di ritenere applicabile l’istituto dell’annullamento civilistico, e quindi la conseguente esperibilità (da parte della PA) di un’azione volta all’annullamento dell’ “accordo” di cui alla quantificazione originaria entro il termine (specifico) quinquennale di prescrizione  di cui all’art. 1422 c.c. ., anziché in quello decennale ordinario di cui all’art. 2946 c.c.  .

Non si capisce per quale motivo l’ Adunanza Plenaria abbia escluso l’applicabilità, nel caso di specie, dell’art. 1431 c.c., pur avendo espressamente qualificato come appunto “riconoscibile” l’errore commesso dalla PA nell’originario “accordo” di calcolo del contributo di costruzione (!).

La palese incoerenza della soluzione adottata dall’Adunanza Plenaria induce persino a preferire, a questo punto, l’interpretazione operata dal primo filone giurisprudenziale, secondo il quale non poteva ravvisarsi il presupposto della riconoscibilità dell’errore in quanto il calcolo del contributo dovuto matura in un procedimento di cui è parte solo la PA e che pertanto non ammette alcuna conoscibilità da parte del privato (!!): per lo meno, in quel caso si partiva da un presupposto sbagliato (ossia quello secondo cui l’errore di calcolo del contributo non è riconoscibile da parte del privato) e si giungeva ad una conclusione (l’inoperabilità dell’azione di annullabilità del contratto ex art. 1428 c.c.) sbagliata ma almeno coerente con la premessa.

L’auspicio, a questo punto, è che il Cons. G.A. Reg. Sic., al quale l’Adunanza Plenaria ha rimesso il giudizio, evidenzi l’incongruenza del principio di diritto enunciato nella sentenza in commento, ed adotti una soluzione che sia caratterizzata dalla coerenza tra inquadramento (privatistico o pubblicistico) della fattispecie e disciplina applicabile.