Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, sentenze 29 luglio 2016, n. 247 e 3 agosto 2016, n. 257

1. I principi che reggono la materia delle misure di prevenzione devono valere anche per l’interdittiva antimafia, quale misura volta a prevenire le infiltrazioni mafiose all’interno delle imprese e delle società che agiscono nel mercato. L’interdittiva antimafia è, infatti, una misura di prevenzione sui generis in quanto finisce inevitabilmente per determinare un pregiudizio anche nei confronti dei soggetti che hanno subito l’azione di infiltrazione, e cioè sia a carico dei soggetti passivi nella c.d. “contiguità soggiacente” (1) (diametralmente opposta c.d. “contiguità compiacente”) sia - paradossalmente – addirittura a carico di soggetti terzi estranei e totalmente incolpevoli. La sua applicazione dev’essere quindi dosata con particolari prudenza ed equilibrio ed avvolta da specifiche cautele (2) affinché sia scongiurato il rischio che la relativa normativa subisca censure di incostituzionalità o determini procedimenti di infrazione per violazione di diritti inviolabili garantiti dal diritto comunitario ed internazionale, o venga comunque censurata dagli Organi della Giustizia comunitaria.

2. E’ possibile pervenire ad una delimitazione obiettiva e ad una definizione rigorosa della fattispecie indicata come “tentativo di infiltrazione mafiosa” e ad una nozione tecnica di tale fattispecie, affermando al riguardo che il c.d. tentativo di infiltrazione mafiosa si concreta e si risolve nel tentativo, da parte di un c.d. “soggetto mafioso” - o di un soggetto “presunto mafioso”, o anche di un soggetto “presunto mafioso per contiguità” di condizionare le scelte di una società o di un’impresa. Quanto all’”elemento soggettivo”, occorre - dunque - che l’attività sia diretta in modo non equivoco al raggiungimento del predetto scopo (nel senso fatto proprio dall’art. 93 del Codice Antimafia).

3. Non è compatibile con l’Ordinamento costituzionale italiano che l’attribuzione ad un soggetto della qualifica di “mafioso” poggi sul mero sospetto della sua appartenenza ad una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa poiché ciò determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena con l’effetto dell’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali o da suggestioni ideologiche.

4. Benché un provvedimento interdittivo possa basarsi anche - ove se ne ravvisi la necessità - su considerazioni induttive o deduttive diverse dagli “indici presuntivi”, è tuttavia necessario che le norme che conferiscono estesi poteri di accertamento ai Prefetti al fine di consentire loro di svolgere indagini efficaci e a vasto raggio, non vengano equiparate ad un’autorizzazione a tralasciare di compiere indagini fondate su condotte o su elementi di fatto percepibili poiché, se con le norme in questione il Legislatore ha certamente esteso il potere prefettizio di accertamento della sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, non ha affatto conferito licenza di basare le comunicazioni interdittive su semplici sospetti, intuizioni o percezioni soggettive non assistite da alcuna evidenza indiziaria; né ha autorizzato a derogare ai principii di obiettiva rilevanza della condotta.

5. Il pericolo della sussistenza di infiltrazioni mafiose può essere desunto anche dal fatto che soci o amministratori dell’impresa o della società soggetta a controllo “frequentano” soggetti mafiosi o presunti tali ma a condizione che, in tal caso, le presunzioni siano gravi, precise e concordanti.

6. Al fine di integrare una motivazione idonea a supportare una “interdittiva antimafia”, non è sufficiente affermare che uno o più parenti o amici del soggetto richiedente la certificazione antimafia risultano mafiosi, o vicini a soggetti mafiosi; o vicini o affiliati a cosche mafiose o a famiglie mafiose. Occorre - invero - motivare tale affermazione con elementi specifici che consentano di comprendere: a) quale sia stato il criterio tecnico, desumibile dall’art. art.10, comma 7, del DPR 3 giugno 1998 n.252 (e successivamente l’art. 84, comma 4, del codice antimafia), prescelto ed utilizzato per definire mafioso un soggetto, o mafiosa una famiglia; b) se effettivamente il soggetto qualificato come mafioso o presunto mafioso nel senso tecnico del termine (tale potendo essere considerato anche il convivente esclusivamente in ragione della sua scelta di contiguità abitativa) abbia posto in essere, in quanto ritenuto autore del tentativo di infiltrazione, atti idonei diretti a condizionare le scelte dell’impresa e in cosa essi si siano concretizzati; c) per quale (pur se presuntiva) ragione ed in che modo il rapporto di parentela o il rapporto amicale o la relazione di convivenza fra il soggetto richiedente la certificazione antimafia ed il presunto mafioso implichi un coinvolgimento concreto ed attuale del primo in attività economiche del secondo (o viceversa), o una comunanza attuale di interessi economico-patrimoniali o di interessi al compimento di attività di fiancheggiamento o comunque illecite; d) in cosa eventualmente consista, in concreto, il rapporto di vicinanza tra il parente del soggetto richiedente ed il soggetto mafioso; o il rapporto di vicinanza o di affiliazione fra il già menzionato parente del soggetto richiedente e la cosca o famiglia mafiosa;  e) in cosa eventualmente consista, in concreto, il rapporto di vicinanza o il c.d. rapporto di affiliazione fra eventuali soggetti che nella catena delle relazioni (o filiera dei favori e delle condotte) ed il mandante dell’attività di infiltrazione.

 

1. C.S., VI^, 30.12.2005 n.7619.

2. CS, V^, 27.6.2006 n.4135; CS, IV^, 4.5.2004 n.2783.

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA

in sede giurisdizionale

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 839 del 2014, proposto dalle società SOREDIL s.r.l,, CEPI s.r.l., ICAM s.r.l. di Arnone Maria Giovanna & C., AKRAPARK s.p.a., nelle persone dei rispettivi rappresentanti legali, rappresentati e difesi tutti rappresentati e difesi dagli Avv. Proff. Salvatore e Luigi Raimondi, con domicilio eletto presso il loro studio, in Palermo, Via Abela , n. 10; 

contro

Ministero Interno - U.T.G.- Prefettura di Agrigento, nelle persone dei rispettivi rappresentanti legali, rappresentati e difesi dall’Avvocatura dello Stato, presso la cui sede distrettuale, in Palermo, Via De Gasperi, n. 81, sono ex lege domiciliati;
Autorità nazionale Anticorruzione (già Autorità per la Vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, in persona del legale rappresentante, come sopra rappresentato, difeso e domiciliato;
Comune di Agrigento, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall'avv. Rita Salvago, con domicilio eletto presso l’Avv. Michele Roccella in Palermo, Piazza Marina n. 19; 

per la riforma

della sentenza n.470 del 14 febbraio 2014, resa dal T.A.R. SICILIA – PALERMO, Sez. I^;


 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero Interno (U.T.G. - Prefettura di Agrigento) e del Comune di Agrigento;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Nominato Relatore nell'udienza pubblica del giorno 13 gennaio 2016 il Cons. Avv. Carlo Modica de Mohac e uditi per le parti l’Avv. Prof. Salvatore Raimondi, l'Avvocato dello Stato Giuseppina Tutino e l’Avv. A. Marolda su delega dell’Avv. Rita Salvalgo;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


 

FATTO

I. Con avviso del 21 ottobre 2005, il Comune di Agrigento avviava la procedura per l’affidamento della “concessione per la progettazione e realizzazione delle opere di completamento e per la gestione del parcheggio pubblico pluripiano ubicato in Piazzale Rosselli”.

All’esito delle operazioni, con determina dirigenziale n.88 del 28 giugno 2010, l’Amministrazione disponeva l’aggiudicazione in favore del raggruppamento temporaneo costituito dalle imprese SOREDIL s.r.l., CEPI s.r.l. ed ICAM s.r.l. con la prima in qualità di capogruppo.

In data 18 aprile 2011, il Comune di Agrigento ed il r.t.i. SOREDIL stipulavano la convenzione.

Dal preambolo della stessa emergeva che fino a quella data (ed in base alle certificazioni prodotte) non risultavano impedimenti relativi ad ipotetici pericoli di infiltrazioni mafiosi; che comunque era stata avanzata richiesta alla Prefettura di Agrigento per il rilascio delle nuove certificazioni.

Con nota del 13 gennaio 2012 il raggruppamento comunicava al Comune che la società incaricata di attuare la concessione sarebbe stata la AKRAPARK s.p.a., costituita fra le stesse partecipanti già associate, e cioè fra SOREDIL s.r.l. (al 50%), CEPI s.r.l. (al 25%) e ICAM s.r.l. (al 25%).

Al fine di consentire alla Prefettura ed al Comune di effettuare gli ulteriori controlli, l’Amministratore ed il socio di maggioranza (id est: la SOREDIL) della AKRAPARK comunicavano alle predette Amministrazioni i nominativi delle ditte alle quali sarebbero erano stati subappaltati i lavori e richieste le forniture dei materiali.

In particolare comunicavano:

- con nota del 7 febbraio 2012, di aver subappaltato alla ditta MOSEDIL s.r.l., con contratto del 3 febbraio 2012, i servizi di fornitura ed i lavori di posa in opera di carpenterie in legno;

- con nota del 7 febbraio 2012, di aver subappaltato alla ditta FAVARA CONGLOMERATI s.r.l., con contratto del 23 gennaio 2012, la fornitura del conglomerato cementizio; ed alla ditta F.lli DI SALVO, con contratto del 10 gennaio 2012, la fornitura dei tondini di acciaio da utilizzare nelle strutture in cemento armato;

- e con nota del 23 marzo 2012, di aver affidato alla ditta PALUMBO PICCIONELLO ROSA, con contratto del 22 marzo 2012, la fornitura di materiale per l’edilizia e di eventuali gru.

II. A questo punto, con nota prot. n.3002 del 24 gennaio 2012 la Prefettura di Agrigento inviava al Comune di Agrigento una c.d. “informativa atipica” emessa nei confronti del raggruppamento capeggiato dalla SOREDIL.

III. In data 14 marzo 2012 il Nucleo di polizia Tributaria della Guardia di Finanza in collaborazione con la Polizia di Stato, i carabinieri, la Direzione Investigativa Antimafia e l’ispettorato del Lavoro di Agrigento effettuava un’ispezione presso il cantiere sito in Piazzale Rosselli.

Nel corso dell’accesso veniva acquisita copia di documentazione contabile e, in particolare, quella inerente ai fornitori, ai subappaltatori; e venivano registrati gli estremi identificativi dei mezzi rinvenuti ed i nominativi del personale presente.

IV. Successivamente, in data 8 maggio 2012, con determinazione dirigenziale n.48 dell’8 maggio 2012 il Comune di Agrigento provvedeva a revocare l’aggiudicazione, a risolvere la convenzione già stipulata con il predetto raggruppamento di imprese ed a revocare gli atti medio tempore adottati.

Con la predetta determina dirigenziale, il Comune prendeva atto altresì:

- della nota prot. n. 0015893 del 13.4.2012 contenente la comunicazione prefettizia che sussiste nei confronti della società AKRAPARK il pericolo di condizionamento da parte della criminalità organizzata;

- della nota prot. n. 0014599 del 4.4.2012 contenente la comunicazione prefettizia che sussiste nei confronti della società MOSEDIL s.r.l. il pericolo di condizionamento da parte della criminalità organizzata;

- della nota prot. n. 0047266 del 6.12.2011 contenente la comunicazione prefettizia che sussiste nei confronti della società FAVARA CONGLOMERATI s.r.l. il pericolo di condizionamento da parte della criminalità organizzata;

- nonché della già citata nota prot. 3002 del 24.1.2012 contenente la informativa atipica a carico del raggruppamento SOREDIL.

V. Con ricorso innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia le società SOREDIL s.r.l., CEPI s.r.l., ICAM s.r.l. ed AKRAPARK s.p.a. impugnavano:

- l’informativa antimafia atipica n.3002 del 24 gennaio 2012 nei confronti del raggruppamento SOREDIL;

- l’informativa antimafia n.15893 del 13 aprile 2012 nei confronti della società AKRAPARK;

- la determina dirigenziale n.48 dell’8 maggio 2012 con cui era stata disposta la revoca dell’aggiudicazione ed il recesso dalla convenzione;

- nonchè la nota prot. n.50037 del 23 maggio 2012 con cui l’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici comunicava alla società AKRAPARK di aver effettuato l’annotazione sul casellario informatico ai sensi dell’art.8 del DPR n.207 del 2010.

Lamentava, al riguardo:

1) con il primo mezzo di gravame, violazione e falsa applicazione degli artt. 24 e 113 della Costituzione, degli art. 1, 3, 7 e 24, comma 2, della L. n. 241/1990, dell'art. 8 del d.P.R. n. 352/1992 e dell'art. 3 D.M. 10 maggio 1994, n. 415, deducendo che l’Amministrazione ha illegittimaente rifiutato l’accesso agli atti presupposti alle informative adottate, atti la cui consultazione era necessaria per la difesa;

2) con il secondo e terzo motivo di gravame, violazione e falsa applicazione dell'art. 4 del D.lgs .n. 490/1994, dell’art.10 del d.P.R. n. 252/1998 e dell'art. 1 septies del D.L. n. 629/1982, conv. in L. n. 726/1982, nonché eccesso di potere per difetto di istruttoria, difetto dei presupposti ed insufficienza ed incongruità della motivazione, deducendo che le circostanze evidenziate nell'informativa atipica emessa nei riguardi del raggruppamento ricorrente - poste, peraltro, alla base sia della determinazione di revoca, che dell'interdittiva emessa nei riguardi di AKRAPARK s.p.a. - non contengono dati idonei a fare ritenere sussistente il pericolo di infiltrazione mafiosa, anche nella considerazione che, medio tempore, è mutato l'assetto societario della SOREDIL;

3) con il quarto ed il quinto motivo, violazione e falsa applicazione dell'art. 4 del D.lgs. n. 490/1994 e dell’art.10 del d.P.R. n. 252/1998, nonché eccesso di potere per difetto di istruttoria, difetto dei presupposti e per insufficienza ed incongruità della motivazione e travisamento dei fatti, deducendo che la società attuatrice non conosceva (e non avrebbe potuto conoscere) l'esistenza di informative a carico dei subappaltatori, dei quali ha in buona fede comunicato i nominativi; e, inoltre, che informative sono basate solo su rapporti di parentela o affinità, non riguardanti la compagine del raggruppamento SOREDIL né della società AKRAPARK.

Si costituivano in giudizio la Prefettura di Agrigento, l'Autorità di Vigilanza Sui Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e Forniture ed il Comune di Agrigento, i quali eccepivano l’infondatezza del ricorso chiedendone il rigetto con condanna alle spese delle società ricorrenti.

Con ordinanza collegiale istruttoria n. 1455 del 10 luglio 2012, regolarmente adempiuta, veniva disposta l'acquisizione di tutti gli atti, anche presupposti, relativi alla controversia.

VI. Con ricorso per motivi aggiunti i ricorrenti impugnavano anche la nota della Prefettura di Agrigento, datata 12.06.2012 e ricevuta il 21.07.2012, con cui era stata respinta, nel frattempo, l'istanza di aggiornamento delle informazioni antimafia nei riguardi della SOREDIL s.r.l.; nonché gli atti depositati dalle resistenti amministrazioni a seguito dell'ordine istruttorio.

Lamentavano al riguardo violazione e falsa applicazione dell'art. 4 del D.lgs. n. 490/1994, dell’art.10 del d.P.R. n. 252/1998 e dell'art. 1 septies del D.L. n. 629/1982, conv. in L. n. 726/1982, nonché eccesso di potere per difetto di istruttoria, difetto dei presupposti e per insufficienza ed incongruità della motivazione e travisamento dei fatti, deducendo che neanche le circostanze evidenziate nei rapporti informativi delle Forze dell'Ordine sono idonee a supportare l'informativa atipica emessa nei riguardi del raggruppamento (essendo riferite a occasionali frequentazioni e rapporti di parentela o affinità).

Con ordinanza n. 824/2012, depositata il 20 dicembre 2012 l'istanza cautelare veniva respinta.

Con ordinanza collegiale istruttoria n. 1803/2013 - adempiuta - veniva disposta l'acquisizione di ulteriore documentazione.

Nel corso del giudizio le parti insistevano nelle rispettive domande ed eccezioni.

VII. Con sentenza n.4701 del 14 febbraio 2014 il Tribunale Amministrativo regionale per la Sicilia, Sez.I^, ha respinto il ricorso.

VIII. DIRITTOCon l’appello in esame le società ricorrenti impugnano la predetta sentenza e ne chiedono la riforma per le ragioni esposte nella successiva parte della presente decisione.

Ritualmente costituitisi, il Ministero dell’Interno, l’Autorità Nazionale Anticorruzione (subentrata all’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici) ed il Comune di Agrigento hanno eccepito l’infondatezza del gravame chiedendone il rigetto con vittoria di spese.

Nel corso del giudizio le parti hanno insistito nelle rispettive domande ed eccezioni.

Infine, all’udienza fissata per la discussione conclusiva sul merito dell’appello, il Collegio si è riservato di decidere la causa, e la riserva è stata sciolta con decisione del 3 febbraio 2016.

DIRITTO

1. L’appello è fondato.

1.1. Con il primo pervasivo profilo di doglianza, le cui argomentazioni sono state ulteriormente sviluppate in sede di discussione conclusiva, il Difensore dell’a.t.i. SOREDIL - ribadendo una doglianza di fondo costituente il leit-motiv del ricorso di primo grado - lamenta l’ingiustizia dell’impugnata sentenza per violazione del DPR n.252 del 1998, del principio di legalità e dei principii generali in ordine alla comminazione di sanzioni amministrative, nonché eccesso di potere per carenza istruttoria, travisamento dei fatti, errore di valutazione e difetto di motivazione, deducendo che il Giudice di primo grado ha errato in quanto non ha tenuto in debìta considerazione:

- che l’interdittiva antimafia costituisce - de facto - una misura ablatoria a carattere afflittivoche, come tale, si sostanzia in una vera e propria “sanzione” (anzi: in una vera e propria sanzione penale); e che, per tale ragione, l’attività procedimentale prodromica alla ‘comminazione’ dell’interdittiva deve conformarsi ai principii che reggono i procedimenti sanzionatori, in modo che siano assicurati ai soggetti sottoposti agli accertamenti i diritti inviolabili di difesa (e di partecipazione procedimentale) e le garanzie proprie di una corretta istruzione probatoria;

- che nel nostro Ordinamento il sistema sanzionatorio si basa sui fondamentali ed imprescindibili principii secondo cui nessuno può essere sottoposto a trattamenti ablatori (di diritti fondamentali) e/o a misure a contenuto afflittivo:

a) se non in base a norme di legge che indichino con precisione le condotte sulle quali si appunta il disvalore (principio di legalità); e che ‘delimitino’ con altrettanta precisione il contenuto ablatorio ed afflittivo dei trattamenti e/o delle misure in questione (principio di tassatività delle pene o delle sanzioni);

b) ed ancora, se non in base ad un giusto procedimento ed in presenza delle garanzie da esso offerte (principio del giusto processo e principio del giusto procedimento);

c) nonché, infine, se non in ragione ed a cagione dell’accertato compimento, da parte del soggetto nei cui confronti sia avviato il procedimento, di atti che realizzino la fattispecie descritta (principio di tassatività della fattispecie).

Seppur suggestiva e per certi versi accattivante, la tesi della Difesa delle appellanti non può essere condivisa se non in parte.

1.1.1. Sul fatto che i procedimenti volti alla comminazione di sanzioni - penali o amministrative che siano - debbano essere “avvolti” (rectius: caratterizzati) dal complesso delle garanzie sopra richiamate e debbano soggiacere ai principii sopra indicati (principio di legalità; del giusto procedimento e di tassatività della pena), non può esservi alcun dubbio.

Al riguardo la Corte Costituzionale ha sottolineato che “va ribadito che la legittimità costituzionale delle misure di prevenzione in quanto limitative, a diversi gradi di intensità, della libertà personale è necessariamente subordinata all'osservanza del principio di legalità e alla esistenza della garanzia giurisdizionale” (Corte Cost., n.177/1980; Id., n.11/1956).

1.1.2. Ciò su cui non si può concordare - se si tiene conto delle concettualizzazioni scientifiche e dottrinarie elaborate in sede di teoria generale e degli approdi della giurisprudenza anche costituzionale in tema di “prevenzione” (salvo che non si giunga a criticare nel merito anche i predetti contributi logico-giuridici, ciò che la Difesa degli appellanti non si spinge a fare) - è che ogni misura che comporti un’ablazione di diritti (pur fondamentali) e/o un effetto afflittivo debba essere considerata alla stregua di una vera e propria “sanzione penale” (o ad essa equiparabile quanto a funzione e struttura).

La Corte Costituzionale ha chiarito, al riguardo, che l’intero sistema della prevenzione - che non può essere definito incostituzionale e che costituisce un valido ed imprescindibile strumento di difesa sociale necessario per assicurare la civile convivenza (specie a fronte di fenomeni criminali particolarmente radicati e difficilmente estirpabili) - si basa, fisiologicamente, sull’idea che possano essere utilizzati - per neutralizzare (e per stroncare sul nascere) le condotte criminogene - giudizi prognostici elaborati e fondati su valutazioni a contenuto probabilistico.

Il sistema preventivo - che anticipa l’intervento dei pubblici poteri, e la soglia della difesa sociale, ad un momento addirittura anteriore a quello del ‘tentato delitto’, e la cui funzione si concreta nell’adozione di misure atte a precludere che l’azione criminosa possa essere iniziata - si basa su giudizi prognostici e valutazioni probabilistiche; e sulla regola empirica (supportata dalla logica statistica) secondo cui talune ‘situazioni di pericolo’ tendono a svilupparsi verso un esito spesso scontato e prevedibile.

Il presupposto per l’applicazione delle ‘misure di prevenzione’ non è (e non può essere), dunque, l’avvenuta commissione di fatti di reato (a fronte della quale la funzione di prevenzione sarebbe ormai tardiva ed inutile), ma si concreta nella presenza di situazioni (soggettive od oggettive) sintomatiche; e cioè di situazioni che, secondo giudizi prognostici e valutazioni probabilistiche, favoriscono (e determinino le condizioni ideali per) la commissione di reati; e/o che rivelano la sussistenza dell’oggettivo e percepibile pericolo che l’attività delittuosa possa essere iniziata o stia per iniziare.

E’ quindi evidente che obiettivo del sistema di prevenzione non è la repressione dei reati o di talune condotte sulle quali si appunta il disvalore sociale, né la punizione a fini retributivi, correttivi e riabilitativi dei soggetti che abbiano perfezionato reati o tenuto condotte ritenute riprovevoli.

Per sua stessa natura il fine delle misure preventive non è punitivo né dunque - almeno nell’intento e nella funzione - afflittivo, seppur è evidente che la componente afflittiva vi è presente (CGARS nn.447 e 448 del 25 luglio 2014) come sempre è presente una componente afflittiva in qualsiasi misura ablatoria (o compressiva di diritti).

Se ciò è vero - come appare allo stato del dibattito culturale in tema di misure di prevenzione - ne consegue che non può essere accettata l’idea secondo cui il regime di garanzie che assiste il sistema della repressione penale debba essere esteso ed applicato nella sua totalità al sistema della prevenzione.

L’affermazione dell’opposto principio determinerebbe, invero, la (pressocchè totale) soppressione del sistema di prevenzione (o la costruzione di un sistema ibrido, malfunzionante).

1.2. La tesi della Difesa degli appellanti va condivisa, invece, laddove è rivolta ad affermare che l’applicazione delle misure di prevenzione non può e non deve prescindere da un obiettivo ed analitico esame in ordine alla sussistenza dei presupposti (di fatto e logici) e dunque dellecondotte (destanti allarme sociale) tenute dal soggetto sottoposto al controllo; condotte su cui si fonda il giudizio probabilistico.

Al riguardo valga quanto segue.

1.2.1. Tra le situazioni soggettive di pericolo che giustificano l’applicazione di ‘misure di prevenzione’ svetta (rectius: quella maggiormente valorizzata è) la c.d. ‘pericolosità sociale’, caratteristica consistente nella presunta attitudine (o vocazione) caratteriale di alcuni individui - dimostrata da specifiche prassi comportamentali recidivanti e/o dalla abitualità dello loro condotta - alla commissione di reati (Corte Cost., n.177/1980; n.27/1959; n.23/1964; n.68/1964; n.113/1975).

Ora, come la Corte Costituzionale ha più volte affermato (Corte Cost.n.23/1964, n.68/1964, n.113/1975 e n.177/1980), nel nostro Ordinamento la pericolosità sociale di un individuo non può essere ritenuta una sua inclinazione strutturale, congenita e genetico-costitutiva (alla stregua di una infermità o patologia che si presenti - sia consentita l’espressione - ‘lombrosanamente evidente’ o comunque percepibile mediante indagini strumentali o analisi biologiche), né può essere presunta o desunta in via automatica ed esclusiva dalla sua posizione socio-ambientale e/o dal suo bagaglio culturale; né, dunque, dalla mera appartenenza ad un determinato contesto sociale o ad una determinata famiglia (semprecchè, beninteso, i soggetti che ne fanno parte non costituiscano un’associazione a delinquere).

Ne consegue che anche ai fini della prevenzione, non può mai mancare l’analisi della condotta del soggetto sottoposto a controllo.

I principii generali che reggono il nostro Ordinamento costituzionale postulano che anche nella formazione della c.d. ‘prova indiziaria’ (e finanche nella ‘costruzione logica’ di ‘accertamenti induttivi’), come pure nella formulazione di giudizi prognostici a carattere probabilistico - quali sono quelli che caratterizzano i procedimenti volti ad applicare ‘misure di prevenzione’ - non deve mai mancare la ricerca e la evidenziazione degli ‘elementi oggettivi’ delle condotte (pur se risalenti a periodi ormai passati o se penalmente non rilevanti) dei soggetti sui quali si concentrano gli accertamenti, o dei soggetti comunque coinvolti, in quanto parti attive, nelgiudizio di pericolosità (così, vigorosamente, in: Corte Cost., n.2/1956; n.23/1964; n.177/1980).

In altri termini, anche nel caso in cui gli accertamenti degli Organi di Polizia o dell’Autorità Giudiziaria siano volti a verificare non già la commissione di reati, ma - in funzione puramente preventiva - la ‘pericolosità’ di un soggetto o la ‘probabilità’ che un’azione umana produca un evento (dannoso o pericoloso), la ‘motivazione’ del provvedimento conclusivo (con cui viene deciso se applicare o meno la ‘misura preventiva’) non può mai basarsi su semplici sospetti e non deve mai prescindere dall’evidenziare - escluso ogni meccanismo atto a reintrodurre forme surrettizie di “colpa d’autore” - gli elementi obiettivi delle condotte sui quali si fonda il giudizio (CS, VI^, 25.9.2008 n.5780; CS, VI, 17.7.2006 n.4574).

1.2.3. Anche il sistema delle misure di prevenzione è (e non può che essere) ancorato, cioè, algiudizio sulla specifica condotta del soggetto sottoposto a controllo.

Come ha affermato la Corte Costituzionale, “nella descrizione delle fattispecie (di prevenzione) il legislatore” può “far riferimento anche a elementi presuntivi, corrispondenti, però, sempre, a comportamenti obiettivamente identificabili” (Corte Cost., n.23/1964).

In mancanza di condotte - pur se risalenti e penalmente irrilevanti - obiettivamente caratterizzanti la personalità dell’individuo assoggettato al controllo ed espressive di una sua recidivante e/o perdurante tendenza o concreta abitualità al compimento di determinate attività illecite (o di un suo percepibile abbassamento della soglia della liceità); in mancanza - cioè - di condotte che facciano presumere (secondo una valutazione che tenga conto dell’idquod plerumque accidit) che lo stesso si accinge a commettere un reato (o che stia determinando le condizioni favorevoli per delinquere o per “favoreggiare” chi lo compia), e che destino dunque un determinato “allarme sociale”, non è dunque legittimo considerarlo (rectius: ‘marchiarlo’) come ‘soggetto socialmente pericoloso’ ed assoggettarlo a ‘misure di prevenzione’ incidenti su diritti fondamentali.

Corollario di tale principio è il c.d. “principio di tipicità della fattispecie” (che altro non è se non una species del “principio di legalità”).

Anche su tale tema la Corte Costituzionale ha avuto modo di esprimersi affermando che “Il principio di legalità in materia di prevenzione, il riferimento, cioè, ai ‘casi previsti dalla legge’, lo si ancori all'art. 13 ovvero all'art. 25, terzo comma, Cost., implica che la applicazione della misura, ancorché legata, nella maggioranza dei casi, ad un giudizio prognostico, trovi il presupposto necessario in ‘fattispecie di pericolosità’, previste e  descritte dalla legge; fattispecie destinate a costituire il parametro dell'accertamento giudiziale e, insieme, il fondamento di una prognosi di pericolosità, che solo su questa base può dirsi legalmente fondata” (Corte Cost., n.177/1980).

1.2.4. Tali principii valgono e devono valere, a maggior ragione, per l’interdittiva antimafia,‘misura’ volta a prevenire le infiltrazioni mafiose all’interno delle imprese e delle società che agiscono nel mercato.

L’”interdittiva antimafia” è, infatti, una misura di prevenzione sui generis in quanto - come chiarito dalla Giurisprudenza - finisce inevitabilmente per determinare un pregiudizio anche nei confronti dei soggetti che hanno subito l’azione di infiltrazione, e cioè sia a carico dei soggetti passivi nella c.d. “contiguità soggiacente” (di cui in: C.S., VI^, 30.12.2005 n.7619 che ne tratteggia la differenza rispetto alla diametralmente opposta c.d. “contiguità compiacente”) sia - paradossalmente – addirittura a carico di soggetti terzi estranei e totalmente incolpevoli; ragion per cui la sua applicazione dev’essere ‘dosata’ con particolari prudenza ed equilibrio ed avvolta da specifiche ‘cautele’ (così, testualmente, in CS, V^, 27.6.2006 n.4135; CS, IV^, 4.5.2004 n.2783) affinchè sia scongiurato il rischio che la normativa che la disciplina subisca censure di incostituzionalità o determini procedimenti di infrazioneper violazione di diritti inviolabiligarantiti dal diritto comunitario ed internazionale, o venga comunque censurata dagli Organi della Giustizia comunitaria.

Proprio perché consapevole - almeno così sembra - della potenza dirompente dell’istituto interdittivo in esame, e della sua concreta idoneità (o tendenza) a ledere taluni fondamentali ‘diritti di libertà’, in conformità al principio di tipicità testè ricordato, fin da tempo risalente il Legislatore ha delimitato la fattispecie di pericolo con una certa precisione, individuando ed indicando, ai fini della corretta applicazione delle norme che disciplinano l’utilizzazione della misura in questione:

- sia i soggetti che per precedenti penali, carichi pendenti o posizione giudiziaria, o per altre circostanze ad essi riferibili (ad esempio la “convivenza” o la “coabitazione”) siano da considerare “mafiosi”, o comunque in qualche modo “contigui alla mafia” (o ad altre organizzazioni criminali equiparate) e dunque ‘presunti mafiosi’ ed intrinsecamente pericolosi;

- sia le caratteristiche oggettive e soggettive che la loro condotta deve presentare per essere considerata come indice rivelatore di pericolosità o espressivo di allarme sociale;

- sia, ancora, gli elementi che devono essere valutati al fine di verificare la effettiva e concreta sussistenza della situazione di pericolo o di rischio che giustifica l’adozione della misura.

Al riguardo giova sottolineare che con l’art.4 del D.Lgs. 8 agosto 1994 n.490 (abrogato con decorrenza indicata dall’art.120 del codice antimafia, ma applicabile alla fattispecie ratione temporisil Legislatore ha specificato che le informazioni relative ad eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa che il Prefetto è tenuto a trasmettere alle Amministrazioni che ne facciano richiesta (e cioè le informazioni effettivamente rilevanti ai fini del giudizio sulla pericolosità e sulla esistenza della situazione di pericolo che giustifica la proposizione della misura interdittiva), sono quelle “tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate”.

Va altresì evidenziato che con l’art. 10, comma 7, del DPR 3 giugno 1998 n.252 (legge anch’essa abrogata dall’art.120 del codice antimafia, ma applicabile alla fattispecie ratione temporisil Legislatore ha precisato che le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa devono essere desunte:

a) dai provvedimenti che dispongono una misura cautelare o (che dispongono anche semplicemente) il giudizio (atti, dunque, questi ultimi, che si concretano nella c.d. “accusa giudiziaria”, non essendo evidentemente sufficiente la mera imputazione emergente da un qualsiasi atto del PM), ovvero che recano una condanna anche non definitiva, per il delitto di associazione di stampo mafioso, o per taluno dei delitti di cui agli articoli 629 (estorsione), 644 (usura), 648 (ricettazione), 648-bis (riciclaggio) e 648-ter (impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita) del codice penale, o indicati dall'articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale (contraffazione e uso di marchi: art.473 c.p.; introduzione e commercio di prodotti falsi: art.474 c.p.; riduzione e mantenimento in schiavitù; art.600 c.p.; tratta di persone: art.601 c.p.; acquisto e alienazione di schiavi: art.602 c.p.; sequestro di persona a scopo di estorsione: art.630 c.p.; associazione finalizzata al traffico di stupefacenti: art.74 DPR n.309/1990);

b) dalla proposta o dal provvedimento di applicazione di una misura di prevenzione (nella specie: di quelle di cui agli articoli 2-bis, 2-ter, 3-bis e 3-quater della legge 31 maggio 1965, n. 575);

c) nonchè dagli accertamenti disposti dal Prefetto.

Contribuendo a delineare con maggior rigore i limiti obiettivi della fattispecie, il ‘codice antimafia’ vigente:

- ha poi confermato (cfr. artt. 67, 84, comma 3 e 91 comma 5) quanto previsto dall’art.4 del D.Lgs. 8 agosto 1994 n.490, e cioè che costituiscono informazioni rilevanti, ai fini del giudizio sul pericolo di infiltrazione mafiosa, quelle relative a pressioni “tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle imprese o delle società interessate” ad ottenere la certificazione antimafia;

- ed ha indicatoaltre (diverse) situazioni dalle quali desumere la sussistenza del tentativo di infiltrazione mafiosa (cfr. artt.84 comma 4, 85 comma 6 e 91 comma 6); e cioè da considerare quali indici sintomatici di pericolosità (o indici sintomatici della esistenza di infiltrazioni mafiose).

Ai sensi del codice antimafia (artt. 84, comma 4, 85, comma 6 e 91 comma 6 cit.) sono indici rivelatori o sintomatici della esistenza di infiltrazioni mafiose:

la sussistenza di provvedimenti che “dispongono” o anche solamente che “propongano” una misura di prevenzione (art.84, comma 4, lett. ‘b’);

la sussistenza di provvedimenti che recano una “condanna” anche non definitiva, o che dispongono una misura cautelare (custodia cautelare o altre misure atte ed evitare pericolo di fuga, inquinamento di prove o reiterazione del reato) o che dispongono il (rinvio a) giudizio per taluno dei delitti di cui all’art.51, comma tre bis del codice di procedura penale (associazione di stampo mafioso: art.416 bis; contraffazione e uso di marchi: art.473 c.p.; introduzione e commercio di prodotti falsi: art.474 c.p.; riduzione e mantenimento in schiavitù; art.600 c.p.; tratta di persone: art.601 c.p.; acquisto e alienazione di schiavi: art.602 c.p.; sequestro di persona a scopo di estorsione: art.630 c.p.; associazione finalizzata al traffico di stupefacenti: art.74 DPR n.309/1990; associazione a delinquere: art.416 c.p. se essa è costituita allo scopo di compiere i reati di cui agli artt.473, 474, 600, 601 e 602 c.p. cit);

la sussistenza di provvedimenti che recano una “condanna” anche non definitiva, o che dispongono una misura cautelare (custodia cautelare o altre misure atte ed evitare pericolo di fuga, inquinamento di prove o reiterazione del reato) o che dispongono il (rinvio a) giudizio per taluno dei delitti di cui agli artt.353 (turbata libertà degli incanti) e 353 bis (turbata libertà del procedimento di scelta del contraente), nonché 640 bis (truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche) del codice penale e di cui all’art.12 quinquies del D.L. 8 giugno 1992 n.306 convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 1992 n.356 (trasferimento fraudolento e possesso ingiustificato di valori);

l’omessa denuncia all’Autorità giudiziaria dei reati di cui agli artt. 317 (concussione) e 629 (estorsione) del codice penale aggravati ai sensi dell’art.7 del DL 13 maggio 1991 n.152, convertito, con modificazioni, dalla L. 12 luglio 1991 n.2013, da parte dei soggetti specificamente indicati dall’art.38 del D.Lgs.12.4.2006 n.163 (codice degli appalti), e cioè di soggetti ‘legati’ (o in virtù del contratto di società o in virtù di un rapporto di lavoro dipendente) alle imprese o alle società soggette a controllo, anche in assenza nei loro confronti di un procedimento per l’applicazione di una misura di prevenzione;

la sostituzione negli organi sociali, nella rappresentanza legale della società nonché nella titolarità delle imprese individuali ovvero delle quote societarie, effettuate da chiunque ‘conviva stabilmente’ con soggetti condannati o rinviati a giudizio per uno dei reati sopra indicati o soggetti a misure cautelari o di prevenzione con modalità (relative alla tempistica, al valore economico delle transazioni ed al reddito delle persone coinvolte) che denotino l’intento di eludere la normativa sulla documentazione antimafia (art.84 comma 4 lett.f);

la sussistenza di sentenze “di condanna anche non definitiva - non essendo sufficiente anche in questi casi la semplice accusa o imputazione (NdR) - per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività d’impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata”;

la violazione, purchè “reiterata”, degli obblighi di tracciabilità dei flussi finanziari di cui all’art.3 della L. 13 agosto 2010 n.136;

la situazione di convivenza (artt.67 comma 4 ed 85, comma 3).

1.2.5. Sicchè, dall’analisi e dalla ricostruzione sistematica della predetta (disorganica e frammentaria) normativa è possibile pervenire ad una delimitazione obiettiva e ad una definizione rigorosa della fattispecie indicata come “tentativo di infiltrazione mafiosa” e ad una nozione tecnica di tale fattispecie.

Può essere affermato, al riguardo, che il c.d. tentativo di infiltrazione mafiosa si concreta e si risolve nel tentativo, da parte di un c.d. “soggetto mafioso” - o di un soggetto “presunto mafioso” (in ragione di talune condanne e/o “pendenze” giudiziarie specificamente indicate dalla normativa di settore), o anche di un soggetto “presunto mafioso per contiguità” (in ragione della deliberata scelta di convivere con un soggetto mafioso o presunto tale) - di condizionare le scelte di una società o di un’impresa.

Quanto all’”elemento soggettivo”, occorre - dunque - che l’attività sia diretta in modo non equivoco al raggiungimento del predetto scopo.

La direzione della volontà dei soggetti sottoposti a controllo può essere induttivamente desunta dalla rilevazione di taluni fra gli indici sintomatici descritti dalla normativa di settore, quali la modifica degli assetti delle partecipazioni azionarie o delle quote sociali in vista della richiesta della certificazione antimafia; ovvero da elementi di fatto che - secondo il giudizio tecnico dell’Autorità - appaiono comunque sintomatici come (cfr. art.93 del codice antimafia):

la costante o periodica presenza in azienda o nelle assemblee o nei consigli di amministrazione o nelle riunioni decisorie di (e fra) soggetti mafiosi o presunti tali;

- o l’inspiegabile e/o ingiustificabile presenza nei cantieri dell’impresa richiedente la certificazione di soggetti di tal genere o di automezzi e mezzi meccanici a loro riconducibili.

Quanto all’”elemento obiettivo”, occorre - perché la fattispecie si perfezioni - che l’azione volta a condizionare le scelte imprenditoriali si presenti idonea al predetto fine.

Quanto, infine, ai soggetti “mandanti” ai quali può essere attribuito il tentativo di infiltrazione (e cioè l’azione diretta in modo non equivoco a produrre l’evento pericoloso), le lettere ‘a’ e ‘b’ dell’art.10, comma 7, del DPR 3 giugno 1998 n.252 (e successivamente l’art. 84, comma 4, del codice antimafia) indicano i fondamentali criteri obiettivi per definire “mafioso” o “presunto mafioso” (per contiguità obiettiva della condotta) un determinato soggetto(o “mafiosa”, o presunta tale, una famiglia o un c.d. “clan”), ai fini dell’applicazione dell’interdittiva antimafia.

E’ infatti evidente che - in un Ordinamento, come quello italiano, ove valgono il principio di legalità (più volte predicato dalla Corte Costituzionale proprio in tema di misure di prevenzione) ed il principio della certezza del diritto - per essere considerato mafioso:

- non è (e non può essere) sufficiente aver subìto - con l’accusa di cui all’art.416 bis del codice penale - un procedimento penale poi conclusosi con un proscioglimento o con una assoluzione; o un ‘procedimento di prevenzione antimafia’ conclusosi - magari svariati anni prima - con formula liberatoria, o avere subìto una ‘misura di prevenzione’ annullata per difetto dei presupposti applicativi; o essere stato ‘illo tempore’ condannato per associazione di stampo mafioso (o per concorso esterno in associazione mafiosa) pur avendo ormai scontato la pena ed ottenuto la riabilitazione (così, pacificamente, in: CS, VI^, 3.9.2009 n.5194; CS, V^, 26.11.2008 n.5846; CS, VI^, 9.9.2008 n.4306; CS., V^, 31.5.2007 n.2828; CS.VI^, 25.9.2008 n.5780);

- né, evidentemente a maggior ragione, è sufficiente far parte (o intrattenere rapporti di amicizia con un membro) di una famiglia che annoveri fra i suoi componenti uno o più soggetti che abbiano subìto i predetti procedimenti con gli esiti assolutori o liberatori sopra indicati.

Ed è altrettanto evidente che per considerare “mafiosa” una intera famiglia (etichettandola come “clan mafioso”) non è sufficiente che di essa faccia parte anagraficamente un soggetto mafioso (o presunto tale per le irrilevanti ragioni sopra indicate), non essendo giuridicamente (e razionalmente) sostenibile - come già affermato dalla giurisprudenza maggioritaria - che il mero rapporto di parentela costituisca di per sé, indipendentemente dalla condotta, un indice sintomatico di pericolosità sociale (ed un elemento prognosticamente rilevante).

Se così non fosse, se prevalesse - dunque - una nozione meramente sociologica (anzicchè tecnicamente giuridica) del fenomeno associativo mafioso, si finirebbe per giungere ad unaestensione extra ordinem (incontrollata ed incontrollabile) del concetto di ‘pericolosità sociale’ che potrebbe innescare meccanismi abnormi e perversi dei quali potrebbero finire per beneficiare, paradossalmente, gli stessi gruppi criminali.

E’ infatti ben noto - e le scienze criminologiche lo hanno evidenziato - che una delle armi più incisive delle quali si serve la mafia è la delegittimazione degli avversari, che a sua volta si basa sulla diffusione e circolazione di voci diffamatorie atte ad alimentare sospetti.

Sicchè, ove fosse possibile qualificare “mafioso” un soggetto sulla scorta di meri sospetti ed a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria (ciò che la Corte Costituzionale ritiene contrario a fondamentali principii costituzionali, come espressamente affermato nella sentenza n.177 del 1980, ma - per più di sessant’anni - fin dalla sentenza n.2 del 1956), si perverrebbe ad un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale (che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole ed imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni ed infiltrazioni mafiose realmente inquinanti).

D’altro canto, se per attribuire ad un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il merosospetto della sua appartenenza ad una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena.

E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono.

Il che non è compatibile con l’Ordinamento costituzionale italiano, come emerge dalle sentenze nn. n.177/1980; n.27/1959; n.23/1964; n.68/1964; n.113/1975 della Corte Costituzionale, univocamente e costantemente orientate ad affermare che è necessaria “una oggettiva valutazione dei fatti … (omissis) … in modo da escludere valutazioni puramente soggettive ed incontrollabili da parte di chi promuove o applica misure di prevenzione” (Corte Cost., n.23/1964; in linea: Corte Cost., n.68/1964 e n.113/1975); e cioè, in ultima analisi, che occorre fondare le valutazioni sull’esame di condotte obiettivamente percepibili.

1.2.6. Proprio per tali ragioni le norme in ultimo citate hanno elencato quali soggetti possono essere considerati autori o mandanti dell’azione di infiltrazione mafiosa da prevenire; e cioè i soggetti che possono essere considerati - in senso tecnico - “mafiosi” o “presunti mafiosi per contiguità obiettiva della condotta” (così potrebbero essere definiti), ai sensi e per gli effetti della normativa di settore concernente la misura dell’interdittiva antimafia.

Trattasi, in particolare:

a) di soggetti che risultino condannati anche se non definitivamente, o rinviati a giudizio o anche semplicemente accusati giudizialmente (cfr. l’art.84 co 4 codice antimafia; e, precedentemente, l’art.10, comma 7, del DPR 3 giugno 1998 n.252) o tratti in arresto (rectius: sottoposti a misure cautelari quali la custodia cautelare) per il delitto di associazione di stampo mafioso (art.416 bis c.p.), o per uno dei altri cc.dd. “reati-spia”, espressivi di contiguità all’ambiente mafioso, indicati dalla normativa di settore precedentemente menzionata;

b) o di soggetti che risultino condannati, anche non definitivamente - non essendo sufficienti, in questo caso, la mera ‘imputazione’ e neanche il puro e semplice rinvio a giudizio - per reati considerati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali, semprecchè l’Autorità amministrativa (Prefettura) dimostri la sussistenza di concreti elementi da cui risulti che l’attività d’impresa da essi svolta (o nella quale sono coinvolti) possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata” (art.91 comma 6 del codice antimafia);

c) di soggetti che siano attualmente assoggettati a misure di prevenzione antimafia o al procedimento per l’applicazione delle stesse (art.84 comma 4 codice antimafia);

d) o anche, infine, di soggetti conviventi (e cioè che abbiano deliberatamente scelto di convivere e dunque di coabitare) con uno dei soggetti (mafiosi o presunti mafiosi per deliberata contiguità) sopra indicati (art.85 comma 3 e art.67 comma 4 codice antimafia).

1.2.7. Da quanto fin qui rilevato si può dedurre - inoltre - che perché si abbia un tentativo di infiltrazione mafiosa, occorre:

che venga individuato (almeno) un autore (o mandante) dell’azione rivolta alla realizzazione dell’evento pericoloso (essendo evidente che non può esservi tentativo di infiltrazione in assenza di un soggetto che lo compia);

- che tale soggetto rientri in una delle categorie sopraindicate che consentono di qualificarlo (a cagione ed in ragione delle condanne o delle pendenze giudiziarie in atto, relative ai “reati-spia” indicati; ovvero in ragione della sua deliberata scelta di “contiguità da convivenza” che contraddistingua la sua condotta di vita) come “mafioso” o “presunto mafioso” nel senso tecnico (ormai più volte indicato) che la parola assume nella legislazione esaminata;

- e che vengano individuati e descritti gli atti idonei, diretti in modo non equivoco, a conseguire lo scopo di condizionare le decisioni dell’impresa e della società che subisce l’infiltrazione.

1.2.8. Quanto fin qui osservato non significa che l’elenco degli elementi da cui desumere la sussistenza della situazione di pericolo di infiltrazioni mafiose sia (e debba essere considerato) ‘tassativo’ (e che il Legislatore abbia inteso costruire un sistema chiuso di presunzioni tipiche), ciò che finirebbe con l’ingessare (ed ostacolerebbe oltre modo) l’attività (di accertamento delle situazioni di pericolo) condotta dalle Forze dell’Ordine.

Ed invero l’art.10, comma 7, lettera’c’ del DPR 3 giugno 1998 n.252 (che, come già osservato, è applicabile alla fattispecie ratione temporis) e, oggi (a regime), l’art.84, comma 4, lett. ‘d’ ed ‘e’ del codice antimafia attribuiscono ai Prefetti il potere di fondare le comunicazioni interdittive antimafia anche su accertamenti che possono prescindere dall’uso degli indici rilevatori di pericolosità fin qui indicati.

Inoltre gli artt.91 e 93 del codice antimafia consentono ai Prefetti:

di estendere gli accertamenti a persone che abbiano subìto condanne anche non definitive per reati diversi da quelli prima indicati, purchè strumentali all’attività delle organizzazioni criminali, semprecchè, s’intende, tali persone risultino in qualche modo legate all’impresa che chiede la certificazione antimafia (art.91 comma 6);

- di estendere gli accertamenti nei riguardi di chiunque (dunque anche se non mafioso o presunto tale secondo gli ordinari indici di pericolosità) possa determinare in qualsiasi modo le scelte o gli indirizzi dell’impresa che richiede la certificazione antimafia; o nei confronti di qualsiasi soggetto che eserciti poteri di direzione o di amministrazione sulla stessa (art.93 comma 4);

- di disporre accessi ed accertamenti nei confronti di tutti i soggetti che intervengano a qualunque titolo nel ciclo di realizzazione delle opere pubbliche, anche se con noli e forniture di beni e/o con semplici prestazioni di servizi ivi compresi quelli di natura intellettuale (art.93 comma 2).

Le norme esaminate lasciano desumere che il provvedimento interdittivo possa basarsi anche - ove se ne ravvisi la necessità - su considerazioni induttive o deduttive diverse da quelle che hanno spinto il Legislatore ad indicare (con la rilevata precisione) gli “indici presuntivi” fin qui descritti.

Al riguardo è necessaria, tuttavia, una precisazione.

Se è chiaro ed evidente che le norme in questione conferiscono estesi poteri di accertamento ai Prefetti al fine di consentire loro di svolgere indagini efficaci e a vasto raggio, è altrettanto chiaro che esse non hanno (anche) la funzione logico-giuridica - né la forza e l’effetto - di estendere ad libitum la categoria dei “presunti mafiosi” (e delle presunzioni destinate ad accompagnare tali individui).

Se così non fosse se ne dovrebbe inferire che chiunque si trovi a negoziare con un imprenditore ‘presunto mafioso’ dovrebbe (o potrebbe) perciostesso - e senza alcun’altra ragione - essere considerato mafioso o presunto tale, e trascinato in una “spirale” atta a determinare la totale ablazione del suo diritto di esercitare un’impresa o una professione.

Il che, come già osservato, non avrebbe alcun senso (e sarebbe, anzi, assurdo).

Il complesso di poteri testè esaminato non va dunque equiparato ad un’autorizzazione - extra ordinem - a tralasciare di compiere indagini fondate su condotte e/o su elementi di fatto percepibili (e/o ad omettere nel provvedimento interdittivo ogni riferimento ad indici obiettivirivelatori di pericolosità); né può essere considerato come una sorta di viatico per l’affermazione di un inedito “principio del libero convincimento” in ordine alla pericolosità da infiltrazione mafiosa.

Con le norme in questione il Legislatore ha certamente esteso il potere prefettizio di accertamento della sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, ma - a ben guardare - non ha affatto conferito licenza di basare le comunicazioni interdittive su semplici sospetti, intuizioni o percezioni soggettive (pur se probabilmente esatte) non assistite da alcuna evidenza indiziaria; né ha autorizzato a derogare ai principii (in tema di obiettiva rilevanza della condotta) fin qui esposti.

Ciò che invero avrebbe esposto le norme in questione a censure di incostituzionalità.

1.2.9. Un’ultima osservazione.

Il pericolo della sussistenza di infiltrazioni mafiose può essere desunto - in ultima analisi - anche dal fatto che soci e/o amministratori dell’impresa o della società soggetta a controllo “frequentano” soggetti mafiosi o presunti tali (rectius: che siano qualificabili, in senso tecnico, mafiosi o presunti mafiosi).

Ma è evidente che in tal caso le presunzioni dovranno essere gravi, precise e concordanti.

Non è sufficiente, al riguardo, affermare nel provvedimento interdittivo che un determinato soggetto è stato “notato” accompagnarsi con un soggetto malavitoso. Occorrerà precisare la ragione tecnica per la quale quest’ultimo va considerato mafioso (nel senso tecnico fin qui indicato; e non già nel significato sociologico e non giuridico che il termine spesso assume); le circostanze di tempo e di luogo in cui è stato identificato; e le ragioni logico-giuridiche per le quale si ritiene che si tratta non di mero incontro occasionale (o di incontri sporadici), ma di “frequentazione” effettivamente rilevante, ossia di relazione periodica, duratura e costante volta ad incidere sulle decisioni imprenditoriali.

1.2.10. Per tutto quanto fin qui osservato, va affermato che al fine di integrare una motivazione idonea a supportare una “interdittiva antimafia”, non è sufficiente affermare che uno o più parenti o amici del soggetto richiedente la certificazione antimafia risultano “mafiosi”, o ‘vicini’ a soggetti mafiosi; o ‘vicini’ o ‘affiliati’ a ‘cosche mafiose’ e/o a ‘famiglie mafiose’.

Occorre - invero - motivare tale affermazione con elementi specifici che consentano di comprendere:

- quale sia stato il ‘criterio tecnico’ desumibile dall’art. art.10, comma 7, del DPR 3 giugno 1998 n.252 (e successivamente l’art. 84, comma 4, del codice antimafia), prescelto ed utilizzato per definire ‘mafioso’ un soggetto, o ‘mafiosa’ una famiglia;

- se effettivamente il soggetto qualificato come “mafioso” o “presunto mafioso” nel senso tecnico del termine (tale potendo essere considerato anche il “convivente” esclusivamente in ragione della sua scelta di contiguità abitativa) abbia posto in essere, in quanto ritenuto autore del tentativo di infiltrazione, atti idonei diretti a condizionare le scelte dell’impresa e in cosa essi si siano concretizzati;

- per quale (pur se presuntiva) ragione ed in che modo il ‘rapporto di parentela’ o il “rapporto amicale” o la “relazione di convivenza” fra il ‘soggetto richiedente’ la certificazione antimafia ed il presunto mafioso implichi un coinvolgimento concreto ed attuale del primo in attività economiche del secondo (o viceversa), o una comunanza attuale di interessi economico-patrimoniali o di interessi al compimento di attività di fiancheggiamento o comunque illecite;

- in cosa eventualmente consista, in concreto, il rapporto di ‘vicinanza’ tra il parente del ‘soggetto richiedente’ ed il ‘soggetto mafioso’; o il rapporto di ‘vicinanza’ o di ‘affiliazione’ fra il già menzionato ‘parente del soggetto richiedente’ e la ‘cosca’ o ‘famiglia mafiosa’;

- in cosa eventualmente consista, in concreto, il “rapporto di vicinanza” o il c.d. “rapporto di affiliazione” fra eventuali soggetti che nella catena delle relazioni (o filiera dei favori e delle condotte) ed il mandante dell’attività di infiltrazione.

1.2.11. Ora, nella fattispecie dedotta in giudizio il provvedimento interdittivo impugnato non contiene alcuna delle indicazioni richieste; né alcuna motivazione sufficiente ad evidenziare le ragioni per le quali sussisterebbe un tentativo di infiltrazione mafiosa.

Non è stato indicato chi sia - in senso tecnico - il “mafioso” o il “presunto mafioso” o il “soggetto socialmente pericoloso” (“presunto mafioso per contiguità”), che avrebbe agito per conseguire l’infiltrazione.

Non è stato individuato alcun “reato spia”, ascrivibile direttamente ad alcuno dei soggetti che si assume abbiano concorso nel tentativo di infiltrazione mafiosa.

Né sono stati individuati (ed attribuiti ad alcuno) gli atti idonei diretti in modo non equivoco a condizionare le scelte imprenditoriali della società sottoposta a controllo.

Sicchè non resta che concludere che non si può non condividere la doglianza di fondo della Difesa dell’appellante, espressa con il profilo di doglianza fin qui esaminato.

In ordine - poi - alle più specifiche e puntuali censure analiticamente dedotte con appositi profili di doglianza, valga quanto esposto nei successivi Capi.

1.3. Con appositi e più specifici profili di doglianza, dopo aver preliminarmente contestato ilmodus procedendi dell’Amministrazione in sede di svolgimento dell’attività di prevenzione, la Difesa degli appellanti specifica quali sono, a suo avviso, i vizi logici specifici che invalidano il provvedimento impugnato.

Lamenta, al riguardo, che nel provvedimento emesso a carico (rectius: nei confronti) della società AKRAPARK:

- difetta totalmente, per lo più, la prova delle “frequentazioni” ritenute compromettenti;

- difetta ogni motivazione volta ad evidenziare le ragioni per le quali alle frequentazioni in questione sia stato attribuito il senso ed il peso che ha condotto a ritenerle indici rivelatori di obiettivo pericolo di infiltrazione:

- difetta la dimostrazione che le frequentazioni in questione abbiano riguardato soggetti qualificabili in senso tecnico come mafiosi o come presunti mafiosi;

- si attribuisce rilevanza a rapporti di mera vicinanza, ma non viene specificato in cosa la stessa si sia concretata;

- si attribuisce rilevanza a talune partecipazioni incrociate fra soci e amministratori, partecipazione che non sono indicative di alcun tentativo di infiltrazione, né di alcun obiettivo pericolo di infiltrazione.

La doglianza merita accoglimento per le seguenti ragioni.

1.3.1. La doglianza è fondata, innanzitutto, per quanto concerne le presunte frequentazioni dell’Amministratore Unico della SOREDIL, Sig. Giovanni Sorce.

1.3.1.1. Ed invero dal provvedimento non si evincono le circostanze spazio-temporali in cui sarebbero avvenuti gli “incontri” (e gli estremi degli atti di certazione dai quali dovrebbero risultare le identificazioni dei soggetti controllati), né la ragione per la quale i predetti incontri sono stati ritenuti indici rivelatori della volontà di incidere sulle scelte dell’impresa.

1.3.1.2. Inoltre non è stata dimostrata la qualità di “soggetti mafiosi” o “presunti mafiosi”, in senso tecnico, delle persone che il predetto Amministratore avrebbe incontrato.

1.3.1.3. Mentre il mero ‘rapporto di parentela’ di questi ultimi con un soggetto “diffidato” - qualificato con formula macroscopicamente atecnica (giuridicamente vuota) “soggetto di interesse operativo” - non costituisce un indice rilevante, in mancanza di condotte volte a realizzare i presupposti per il condizionamento mafioso.

Né, d’altro canto, il semplice rapporto di parentela costituisce di per sé un fattore di ‘contagio’; un elemento idoneo ad estendere automaticamente la qualità di mafioso o di presunto mafioso.

1.3.1.4. L’uso del condizionale nel riferimento a talune qualità negative attribuite al predetto soggetto diffidato - che comunque non risulta aver avuto contatti diretti con l’Amministratore dell’impresa che avrebbe subito il condizionamento (il che sarebbe già di per sé sufficiente a chiudere la questione) - dimostra, infine, la perplessità della stessa Amministrazione.

1.3.2. Analoghe osservazioni valgono per le presunte cattive (rectius: controindicate) “frequentazioni” del Direttore Tecnico, Sig. Sorce Benedetto.

Anche in tal caso non emerge alcun rapporto ‘diretto’ del predetto con soggetti ai quali possa essere attribuita la qualità di “mafioso” (o presunto tale); né risultano dal provvedimento (neanche mediante c.d. motivazione per relationem) le circostanze spazio-temporali degli incontri e la ragione per la quale essi sono stati ritenuti indici rivelatori di pericolo di condizionamenti.

1.3.3. La doglianza è fondata anche per quanto concerne le presunzioni a carico dell’Amministratore Unico della società CEPI s.r.l. (società facente parte del r.t.i. SOREDIL – ICAM – CEPI).

1.3.3.1. Ed invero, il fatto che Egli sia “cognato” di un soggetto “denunziato” (seppur) per ‘turbata libertà degli incanti’, ‘associazione a delinquere’ (peraltro semplice, e cioè non aggravata dal metodo mafioso) e ‘per falsità materiale’, non costituisce un elemento rilevante e valutabile, posto che che la semplice ‘imputazione’ non rileva mentre ciò che rileva è la ‘condanna’ (o, nel caso della turbativa, il ‘rinvio a giudizio’).

1.3.3.2. Quanto, poi, ai fatti di reato (risalenti al 2001) per i quali il predetto Amministratore eradirettamente coinvolto risultando (rectius: essendo stato) personalmente ‘imputato’ e/o ‘accusato’ (in tale ultimo caso con formale ‘rinvio a giudizio’), la nota del 29 marzo 2011 della Legione Carabinieri (depositata in atti) ha chiarito che i relativi procedimenti si sono conclusi con provvedimenti di archiviazione o con sentenze di improcedibilità.

Ciò che peraltro l’Amministrazione avrebbe potuto (e dovuto) constatare per tempo.

1.3.4. La doglianza è del pari fondata per quanto concerne le presunzioni a carico della ditta individuale (PALUMBO PICCIONELLO ROSA) con la quale la società AKRAPARK intrattiene rapporti.

Ed invero, a parte il fatto che la sussistenza di rapporti economici trasparentemente intrattenuti con ditte liberamente operanti nel mercato non costituisce di per sé - in base alla normativa esaminata nei precedenti Capi - un indice rivelatore del pericolo di infiltrazione mafiosa, l’Amministrazione ha attribuito grande rilevanza al fatto che la titolare della ditta individuale in questione è coniugata con un soggetto il cui fratello è “ritenuto vicino” ad un noto mafioso.

Ma la presunzione induttiva non regge; e ciò per più profili.

1.3.4.1. Innanzitutto in quanto gli anelli della catena contagiosa appaiono troppi e deboli.

L’Amministrazione non ha infatti spiegato in cosa si concreti tale “vicinanza”, che comunque non è contemplata dalla legge come indice di per sé rivelatore di tentativo di infiltrazione o di situazione di pericolo di infiltrazione.

1.3.4.2. In secondo luogo perché anche la predetta “vicinanza” costituisce in fattore incerto, posto che è assunta “de relato”, e dunque in termini dubitativi.

1.3.4.2. Infine, in quanto il pericolo di condizionamento viene frettolosamente desunto non già dalla accertata sussistenza di una relazione personale diretta fra il soggetto asseritamente mafioso e quello presuntivamente condizionato (o soggiogato), ma dalla sussistenza di un c.d. “rapporto di vicinanza” (dal contenuto oltremodo vago) con un parente di uno dei due; e ciò - si badi - senza alcun preciso riferimento ad alcuna percepibile condotta.

1.3.5. Sono fondate, altresì, le doglianze mosse dalle società appellanti (ricorrenti in primo grado) avverso le valutazioni prefettizie in ordine ai pericoli di infiltrazione mafiosa derivanti dalla posizione dell’Amministratore Unico (e socio) della società C&D CONGLOMERATI CEMENTIZI E BITUMINOSI s.r.l.

La Prefettura ha ritenuto di dover evidenziare - ed il provvedimento interdittivo afferma - che l’Amministratore Unico della società C&D CONGLOMERATI CEMENTIZI E BITUMINOSI s.r.l.:

a) è ‘coniugato’ con l’Amministratrice della società FAVARA CONGLOMERATI s.r.l., società già colpita da interdittiva antimafia (con decreto n,47266 del 6 dicembre 2011);

b) è indagato per i reati di cui all’art.12 quinquies del D.L. 8 giugno 1992 n.306 convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 1992 n.356 (trasferimento fraudolento e possesso ingiustificato di valori) ed all’art. 648 ter del codice penale (impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita);

c) e risulta socio (oltrecchè Amministratore, come già visto) della società B.L.C. CONGLOMERATI BITUMINOSI s.r.l., società nella cui compagine sociale figurano, fra l’altro, un soggetto indagato per associazione di tipo mafioso ed un soggetto già colpito da provvedimento di sequestro delle quote di partecipazione nella società BLC CONGLOMERATI BITUMINOSI s.r.l. e da successiva confisca, nonché destinatario di misure di prevenzione.

Senonchè nel provvedimento impugnato non è specificato (né comunque chiaramente indicato) quale sia il puncutm dolens nel “rapporto” fra la società AKRAPARK e la società CONGLOMERATI CEMENTIZI E BITUMINOSI; mentre è evidente che il fatto che l’Amministratore di quest’ultima sia il coniuge dell’Amministratrice della società FAVARA CONGLOMERATI s.r.l. non può costituire, di per sé, un elemento atto ad evidenziare pericoli di infiltrazione mafiosa all’interno e nei confronti della società AKRAPARK (che, infatti, è soggetto terzo fra esse); né quale sia il punctum dolens nel rapporto fra società AKRAPARK e la società FAVARA CONGLOMERATI s.r.l., posto che nessuna norma prescrive che la comunicazione interdittiva gravante su una società debba estendersi automaticamente alle società che con essa vengono in contatto; né, infine, quale sia (ed in cosa consista) il ‘legame diretto’ e/o in cosa consista l’eventuale o presunto intreccio di interessi economici fra l’Amministratore della società AKRAPARK e l’Amministratore della società CONGLOMERATI CEMENTIZI E BITUMINOSI.

Ragioni, queste, per le quali i vari riferimenti alla compagine sociale di quest’ultima ed alle vicende giudiziarie dell’Amministratore della stessa (o di sua moglie) appaiono - tutto sommato - irrilevanti (o poco rilevanti), incongrui (o comunque poco comprensibili) e pertanto (almeno a prima vista) fuorvianti ed ultronei.

1.4. Anche nei confronti del provvedimento emesso a carico (rectius: nei confronti) del raggruppamento composto da SOREDIL s.r.l., ICAM s.a.s. e CEPI s.r.l., la Difesa degli appellanti formula censure analoghe.

Lamenta, al riguardo, che nel provvedimento emesso a carico (rectius: nei confronti) del r.t.i. SOREDIL s.r.l. - ICAM s.a.s. - CEPI s.r.l.:

- difetta totalmente, per lo più, la prova delle “frequentazioni” ritenute compromettenti;

- difetta ogni motivazione volta ad evidenziare le ragioni per le quali alle frequentazioni in questione sia stato attribuito il senso ed il peso che ha condotto a ritenerle indici rivelatori di obiettivo pericolo di infiltrazione:

- difetta la dimostrazione che le frequentazioni in questione abbiano riguardato soggetti qualificabili in senso tecnico come mafiosi o come presunti mafiosi;

- si attribuisce rilevanza a rapporti di mera vicinanza, ma non viene specificato in cosa la stessa si sia concretata;

- si attribuisce rilevanza a talune partecipazioni incrociate fra soci e amministratori, partecipazione che non sono indicative di alcun tentativo di infiltrazione, né di alcun obiettivo pericolo di infiltrazione.

La doglianza merita accoglimento per le seguenti ragioni.

1.4.1. La frequentazione del Sig. Giovanni Sorce, ex Amministratore Unico della SOREDIL con i Signori Giuseppe Patti e Pasquale Patti, appare irrilevante, posto che gli stessi non hanno alcuna colpa personale (se non quella di essere, rispettivamente, figlio e nipote di un soggetto ‘diffidato’ che non può essere qualificato “mafioso” o “presunto mafioso” in senso tecnico); e che l’unico reato commesso dal Sig. Giuseppe Patti è consistito nell’omesso versamento di contributi previdenziali.

1.4.2. La frequentazione del predetto Sig. Giovanni Sorce e di suo padre, Sig. Giuseppe Sorce (socio di maggioranza della SOREDIL) con i Sig.ri Salvatore e Tommaso Sciara, appare:

- irrilevante, posto che - come riconosciuto nella stessa sentenza appellata - i reati commessi da questi ultimi non hanno a che fare con la criminalità organizzata;

- e comunque agevolmente spiegabile in quanto i detti soggetti sono tutti imprenditori edili che fanno parte della stessa Associazione di categoria (Associazione Nazionale Costruttori Edili) in seno alla quale il Sig. Giuseppe Sorce ha ricoperto e ricopre cariche direttive.

1.4.3. Altresì irrilevante si appalesa la c.d. frequentazione del Sig. Benedetto Sorce (fratello del predetto Giovanni Sorce), Direttore Tecnico e socio della SOREDIL, con il Sig. Antonio Milioti (figlio di Carmelo Milioti, condannato per il delitto di associazione mafiosa), posto:

- che la stessa si è concretizzata in un unico episodio (oggetto di un controllo) risalente al 2003 (ben prima della partecipazione alla gara d’appalto per cui è causa), allorquando il predetto Sig. Sorce era poco più che sedicenne;

- che il Sig. Antonio Milioti non ha commesso reati di mafia o connessi con il fenomeno mafioso;

- e che comunque al 2003 risale anche il decesso del padre del Sig. Antonio Milioti, sicchè non si vede quale attuale incidenza quest’ultimo possa aver avuto sulla società SOREDIL e sull’appalto per cui è causa.

1.4.4. Nel rapporto del 14 maggio 2010 redatto dal competente Nucleo dei Carabinieri non risulta alcun elemento atto a far comprendere - poi - in cosa si sia concretizzata l’asserita ‘frequentazione’ del predetto Sig. Benedetto Sorce con il Sig. Pietro Mantia (in atto sottoposto a sorveglianza speciale di P.S.); ed in che modo quest’ultimo o entrambi abbiano compiuto atti diretti a incidere sulle scelte degli organi deliberanti delle società facenti parte dell’a.t.i. appellante.

1.4.5. Il fatto che il Sig. Giovanni Sorge era Amministratore sia della società SOREDIL che della società AKRAPARK, società che in data 13 aprile 2012 è stata colpita da interdittiva antimafia (per i suoi rapporti con società anch’esse ‘interdette’), è parimenti irrilevante per le seguenti ragioni:

- sia in quanto la AKRAPARK è stata costituita tra SOREDIL, CEPI ed ICAM proprio al dichiarato scopo di gestire un parcheggio pubblico realizzato dalle stesse, sicchè è normale che l’Amministratore sia la stessa persona per entrambe;

- sia in quanto in data 1 luglio 2011 la AKRAPARK aveva ottenuto una comunicazione antimafia liberatoria (id est: positiva) relativa alla società CEPI;

- sia, infine, in quanto essa stessa ha comunicato alla Prefettura i suoi rapporti economici e di sub-appalto con le società che poi sono state colpite dalle interdittive; dimostrando, così, la sua perfetta buona fede.

1.4.6. Quanto, infine, alla scarsa rilevanza delle osservazioni relative all’Amministratore Unico della CEPI, si rinvia a quanto già rilevato nel Capo 1.3.3.

1.5. Con un ulteriore profilo di doglianza meritevole di autonoma trattazione, l’appellante lamenta l’ingiustizia dell’impugnata sentenza, deducendo che il Giudice di primo grado haerroneamente ritenuto che la motivazione fornita dall’Amministrazione comunale per procedere alla risoluzione del contratto sia congrua ed esaustiva.

In particolare l’appellante lamenta che l’Amministrazione comunale non ha tenuto conto del fatto che essa (appellante) ha tempestivamente avvisato la Prefettura della sua intenzione di subappaltare alcuni lavori alle società MOSEDIL s.r.l., e FAVARA CONGLOMERATI s.r.l. ed alla ditta PALUMBO PICCIONELLO ROSA (il che denota la sua perfetta buona fede) e che la Prefettura ha omesso di comunicarle che le stesse erano state colpite da comunicazioni interdittive, il che le ha precluso di interrompere (rectius: di rescindere) il rapporto di sub-appalto con le predette imprese (in conformità all’art.37, commi 18 e 19 del codice degli appalti) in forza delle clausole risolutive espresse inserite nei relativi contratti.

La doglianza merita accoglimento.

1.5.1. Nel caso della c.d. “interdittiva atipica” la motivazione dev’essere particolarmente analitica e convincente.

Se, infatti, la stessa Prefettura non ravvisa ragioni sufficienti per adottare direttamente la comunicazione interdittiva, è evidente che l’Amministrazione che intenda pervenire comunque alla risoluzione del contratto deve fornire idonee e stringenti motivazioni al riguardo.

E’ appena il caso di rilevare che il fatto che la decisione sia ampiamente discrezionale, non esime l’Amministrazione procedente dall’obbligo di fornire motivazioni in merito alle ragioni della scelta. Essendo ben noto che quanto più un potere sia discrezionale tanto più è necessario corredarne l’esercizio con una motivazione che evidenzi come esso non sia debordato in mero arbitrio.

Né il puro richiamo all’interesse pubblico appare sufficiente, laddove esso si risolva in una mera tautologia inidonea a spiegare le ragioni oggettive per le quali si ritiene che il pericolo di infiltrazione sussista non ostante non sia stato ravvisato dagli Organi di polizia preposti alla prevenzione e repressione dei reati.

Ora, nella fattispecie per cui è causa l’Amministrazione si è limitata a valorizzare la propria potestà discrezionale al riguardo ed a richiamare le motivazioni poste a corredo delle informative (sulla cui incongruità si è già detto) e non ha fornito ragguagli in merito né ha ritenuto di denunciare all’Autorità prefettizia o all’Autorità giudiziaria alcun fatto nuovo che queste ultime già non conoscessero.

1.5.2. L’Amministrazione comunale si è limitata, inoltre, a rilevare che nei confronti delle imprese indicate come ditte sub-appaltatrici erano state emesse comunicazioni interdittive, ma non ha considerato che la società AKRAPARK, appaltante, aveva inserito nei contratti di sub-appalto clausole risolutive espresse da far valere proprio nel caso in cui fossero sopravvenuti provvedimenti interdittivi.

E poiché alla società AKRAPARK non è stata data la possibilità di esercitare il recesso nei confronti delle ditte sub-appaltatrici, il provvedimento risolutivo del Comune non resiste alle censure sotto più d’un profilo; e va pertanto annullato, salvi gli ulteriori provvedimenti volti a dar modo alla società AKRAPARK di esercitare il suo diritto di recesso dai contratti di subappalto.

2. In considerazione delle superiori osservazioni, il ricorso va accolto; e per l’effetto, ed in riforma dell’appellata sentenza, va altresì accolto il ricorso proposto in primo grado, con conseguente annullamento dei provvedimenti impugnati, salvi gli ulteriori provvedimenti indicati nel precedente Capo 1.5.2.

La delicatezza delle questioni trattate che ha visto i Difensori impegnati in ricostruzioni analitiche e complesse giustifica pienamente - ad avviso del Collegio - la compensazione delle spese fra le parti costituite.

P.Q.M.

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, accoglie l’appello; e, per l’effetto ed in riforma dell’impugnata sentenza, accoglie il ricorso proposto in primo grado annullando i provvedimenti ivi impugnati, salvi gli ulteriori provvedimenti da adottare ai fini e per gli effetti indicati in motivazione.

Compensa le spese fra le parti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

Così deciso in Palermo nella camera di consiglio del giorno 3 febbraio 2016 con l'intervento dei Signori Magistrati:

Claudio Zucchelli, Presidente

Silvia La Guardia, Consigliere

Carlo Modica de Mohac, Consigliere, Estensore

Giuseppe Mineo, Consigliere

Giuseppe Barone, Consigliere

 

 

 

Guida alla lettura

Le sentenze in commento, raccolgono e sistematizzano spinte fin qui “carsiche” della giurisprudenza, traendo da esse spunto maturo per innovare con decisone l’intepretazione dell’istituto dell’interdittiva antimafia, ricostruendone i tratti distintivi a partire dal necessario (e tuttavia, sovente, negletto) ancoraggio del medesimo ai fondamenti costituzionali della materia. In tal senso incontra una smentita l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale la misura interdittiva avrebbe carattere meramente cautelare, con conseguente dilatazione della discrezionalità prefettizia, per riconoscere, all’opposto, il carattere afflittivo (talora definitivamente), della misura.

Le conclusioni cui giunge il Consesso decidente vengono dunque a costituire l’approdo ricostruttivo e sistematico di una riflessione – si potrebbe dire di natura fondamentale – di cui, a seguire, si declinano i precipitati.

L’applicazione delle misure di prevenzione non può prescindere da un obiettivo ed analitico esame in ordine alla sussistenza dei presupposti e dunque delle condotte (destanti allarme sociale) tenute dal soggetto sottoposto al controllo; condotte su cui si fonda il giudizio probabilistico.

Anche nel caso in cui gli accertamenti degli Organi di Polizia o dell’Autorità Giudiziaria siano volti a verificare non già la commissione di reati, ma - in funzione puramente preventiva - la pericolosità di un soggetto o la probabilità che un’azione umana produca un evento (dannoso o pericoloso), la motivazione del provvedimento conclusivo (con cui viene deciso se applicare o meno la ‘misura preventiva’) non può mai basarsi su semplici sospetti e non deve mai prescindere dall’evidenziare - escluso ogni meccanismo atto a reintrodurre forme surrettizie di “colpa d’autore” – gli elementi obiettivi delle condotte sui quali si fonda il giudizio, poiché anche il sistema delle misure di prevenzione è (e non può che essere) ancorato, cioè, al giudizio sulla specifica condotta del soggetto sottoposto a controllo. (CS, VI^, 25.9.2008 n.5780; CS, VI, 17.7.2006 n.4574)

In mancanza di condotte - pur se risalenti e penalmente irrilevanti - obiettivamente caratterizzanti la personalità dell’individuo assoggettato al controllo ed espressive di una sua recidivante e/o perdurante tendenza o concreta abitualità al compimento di determinate attività illecite (o di un suo percepibile abbassamento della soglia della liceità); in mancanza - cioè – di condotte che facciano presumere (secondo una valutazione che tenga conto dell’id quod plerumque accidit) che lo stesso si accinge a commettere un reato (o che stia determinando le condizioni favorevoli per delinquere o per “favoreggiare” chi lo compia), e che destino dunque un determinato “allarme sociale”, non è dunque legittimo considerarlo come “soggetto socialmente pericoloso” ed assoggettarlo a misure di prevenzione incidenti su diritti fondamentali. (Corte Cost.n.23/1964, n.68/1964, n.113/1975 e n.177/1980).

Il principio di legalità in materia di prevenzione, implica, del resto, che l’applicazione della misura, ancorché legata, nella maggioranza dei casi, ad un giudizio prognostico, trovi il presupposto necessario nelle “fattispecie di pericolosità”, previste e descritte dalla legge e destinate a costituire il parametro dell'accertamento giudiziale e, insieme, il fondamento di una prognosi di pericolosità, che solo su questa base può dirsi legalmente fondata. (cfr. Corte Cost., n.177/1980; n.27/1959; n.23/1964; n.68/1964; n.113/1975).