Cons. Stato, sez. V, 20 aprile 2020 n. 2486

La presenza di uno specifico quadro esigenziale, quello riflesso nella lex specialis, è del resto presupposto immanente a qualsiasi gara pubblica, la cui causa consiste nell’approvvigionare, mediante il più conveniente dei possibili contratti, la pubblica amministrazione delle opere, dei beni o dei servizi di cui effettivamente necessita nell’interesse generale, non nel mero mettere a disposizione delle imprese interessate un’occasione ordinaria di lavoro da modulare sulle loro preferenze organizzative. In questo contesto normativo e funzionale, da sempre è considerato naturale che l’autonomia dell’appaltatore pubblico sia meno ampia rispetto all’appalto di diritto comune.

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso in appello numero di registro generale 6410 del 2019, proposto da
Miorelli Service s.p.a., Pulitori ed Affini s.p.a., B&B Service soc. coop., C.M. Service s.r.l., in persona dei legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall’avvocato Massimiliano Brugnoletti, con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia;

contro

Ministero della difesa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
Marina Militare, Ufficio generale del centro di responsabilità amministrativa, non costituita in giudizio;

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio (sezione prima) n. 8506/2019, resa tra le parti.


 

Visto il ricorso in appello;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero della difesa;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del 6 febbraio 2020 il Cons. Anna Bottiglieri e uditi per le parti gli avvocati Massimiliano Brugnoletti e dello Stato Vittorio Cesaroni;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.


 

FATTO

Le società indicate in epigrafe impugnavano con ricorso proposto innanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio il bando della procedura indetta dalla Marina Militare il 24 ottobre 2018 per la stipula di un accordo quadro di durata triennale per l’affidamento del servizio di pulizia presso i propri enti, distaccamenti e reparti della giurisdizione “Marina Nord” tramite singoli appalti specifici, suddivisa in quattro lotti a base regionale (Regione Liguria; Regione Toscana; Regione Sardegna; Regione Sicilia) e da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.

Le ricorrenti, che non avevano partecipato alla procedura, evidenziavano che le specifiche tecniche della legge di gara avevano prefissato un “numero minimo di ore garantite” annuali di servizio per ciascun lotto, rilevante anche per il corrispettivo mensile dell’appaltatore, prevedendosi la sua detrazione proporzionale per l’ipotesi di mancato raggiungimento del numero minimo di ore mensili all’esito della rilevazione delle presenze degli addetti, in disparte ogni questione sull’avvenuta effettuazione o meno del servizio di pulizia. Sostenevano l’illegittimità sotto vari profili di tale meccanismo, quale restrizione della libertà di organizzazione dei mezzi e delle risorse di cui gode l’appaltatore ai sensi dell’art. 1655 Cod. civ..

Il Ministero della difesa si costituiva in resistenza spiegando eccezioni di rito e di merito.

Il giudice adito, con sentenza della sezione prima-bis n. 8506/2019, richiamato il principio giurisprudenziale per cui le clausole del bando di gara che non rivestono portata escludente devono essere impugnate unitamente al provvedimento lesivo e possono essere gravate unicamente dall’operatore economico che abbia partecipato alla gara o manifestato formalmente il proprio interesse alla procedura, riteneva l’ammissibilità del ricorso, rilevando il carattere escludente della contestata clausola, perché impeditiva della presentazione di una offerta con un minor numero di ore rispetto a quelle prescritte dal bando; nel merito, respingeva il gravame, rilevando l’infondatezza di tutte le proposte censure; condannava le società ricorrenti alle spese del giudizio.

Queste hanno appellato la predetta sentenza, deducendo: 1) Errores in judicando; violazione dell’art. 30 d.lgs. 50 del 2016; violazione dell’art. 1655 Cod. civ.; violazione dell’art. 29 d.lgs. n. 276 del 2003; violazione del principio di libertà di impresa; violazione dell’art. 41 Cost.; 2) Errores in judicando: violazione dell’art. 68 d.lgs. 50 del 2016; violazione dell’art. 42 della direttiva 24/2014/UE; violazione dell’art. 71 d.lgs. 50 del 2016; eccesso di potere per irragionevolezza; travisamento: hanno concluso per la riforma della sentenza appellata e l’annullamento degli atti impugnati in primo grado.

Il Ministero della difesa si è costituito in giudizio con mera memoria di costituzione.

La causa è stata trattenuta in decisione alla pubblica udienza del 6 febbraio 2020.

DIRITTO

1. Le appellanti imprese di servizi di pulizie contestano il bando della gara, cui non hanno partecipato, per l’affidamento del servizio di pulizia di sedi della Marina Militare, nella parte che impone un numero minimo di ore di lavoro degli addetti e la decurtazione dal canone mensile spettante all’appaltatore del costo orario dei lavoratori assenti. La sentenza appellata, valutato il ricorso ammissibile, ha ritenuto non illegittimo questo meccanismo.

Le appellanti nell’atto di appello (pag. 2) intendono porre “una questione di sistema” che conduca al riconoscimento dell’illegittimità della clausola delle “ore di lavoro minime e inderogabili”.

1.1. Coerentemente, l’appello sostiene con il primo motivo, che compendia la principale linea argomentativa, che il meccanismo limita l’autonomia organizzativa dell’offerente e comprime l’intangibilità della liberta dell’iniziativa imprenditoriale presidiata dall’art. 41 Cost. e dall’art. 1655 Cod. civ. sul contratto di appalto; e sostiene l’erroneità della sentenza che ha ritenuto non pertinente ai contratti pubblici lo schema “puro” del contratto di appalto e respinto l’analoga censura di primo grado.

L’appellante evidenzia in particolare che sia il Codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, all’art. 3, comma 1, lett. ii), che la direttiva sugli appalti pubblici n. 24/2014/UE, all’art. 1, par. 2, punto 5 [rectius, art. 2, par. 1, punto 5)], di simile tenore, non definiscono il contratto di appalto pubblico, sposandone una definizione ampia e generica che, pur non essendo coincidente, include quella dell’art. 1655 Cod. civ., venendo questa in rilievo all’atto della ricaduta della regolazione eurounitaria nell’ordinamento nazionale. Sicché il bando di un appalto pubblico non potrebbe contenere prescrizioni che, non garantendo l’organizzativa imprenditoriale dell’operatore economico, alterano la natura del negozio civilistico: anche perché lo stesso d.lgs. n. 50 del 2016 all’art. 30, comma 8, stabilisce che alla stipula del contratto e alla fase di esecuzione di applicano le disposizioni del Codice civile. L’appello illustra in dettaglio come il contratto di appalto, ai sensi dell’art. 1655 Cod. civ. e dell’art. 29 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, in materia di occupazione e mercato del lavoro, è caratterizzato dall’autonomia dell’appaltatore, in correlazione con l’obbligo di risultato che egli assume: indefettibile corollario ne è la libertà nell’organizzazione dei mezzi e del personale necessari all’adempimento, cui è refrattaria qualsiasi ingerenza del committente, come invece quella della clausola in contestazione.

Dette argomentazioni sono infondate.

1.3. A mezzo del contratto stipulato con l’aggiudicatario, l’amministrazione persegue lo scopo istituzionale, espresso dal quadro esigenziale sotteso alla determinazione a contrarre, che giustifica il correlato impegno economico sul bilancio pubblico e corrisponde all’illustrazione puntuale dell’oggetto della gara nella lex specialis.

In tema, va anzitutto considerato in via generale che le disposizioni legislative sulla formazione del contratto pubblico sono speciali rispetto a quelle del tipo di contratto d’appalto indicato dal Codice civile, e fonte primaria pariordinata a quello. Né esiste nell’ordinamento vigente alcuna regola o principio per cui vi possano essere subordinate. Sicché vale a risolvere ogni eventuale antinomia tra le due fonti sia il criterio della legge posteriore, sia comunque il criterio della specialità.

L’assunto dell’appellante è dunque alla base destituito di fondamento nei termini in cui reclama l’ampiezza valutativa del contraente propria dell’appalto comune: come manifestamente infondate sono le argomentazioni che adducono ombre di incostituzionalità rispetto all’art. 41 Cost., anche perché non si comprende in cosa vi si deroghi al riguardo mediante la disciplina legislativa degli appalti pubblici.

Sta dunque alla valutazione organizzativa dell’amministrazione appaltante indentificare le caratteristiche della prestazione contrattuale che le necessita procurarsi e per la quale va alla ricerca di un contraente adeguato, e definirle nella legge di gara, anche con l’individuazione dei contenuti necessari delle offerte, e in ipotesi con la previsione dell’esclusione pel caso della loro carenza.

Il contenuto dell’offerta definito dalla lex specialis corrisponde infatti all’utilità che l’amministrazione intende acquisire mediante la procedura, ferme ulteriori utilità da elementi dell’offerta che il bando non precostituisce e rimette alle scelte organizzative dell’operatore economico che partecipa alla gara, e che concorrono, nella misura in cui si innestano sul livello delle componenti necessarie dell’offerta, al raggiungimento di un livello di qualità da poi comparare con le parallele offerte e graduare al fine della selezione del miglior contraente.

La presenza di uno specifico quadro esigenziale, quello riflesso nella lex specialis, è del resto presupposto immanente a qualsiasi gara pubblica, la cui causa consiste nell’approvvigionare, mediante il più conveniente dei possibili contratti, la pubblica amministrazione delle opere, dei beni o dei servizi di cui effettivamente necessita nell’interesse generale, non nel mero mettere a disposizione delle imprese interessate un’occasione ordinaria di lavoro da modulare sulle loro preferenze organizzative. In questo contesto normativo e funzionale, da sempre è considerato naturale che l’autonomia dell’appaltatore pubblico sia meno ampia rispetto all’appalto di diritto comune (Cass., 10 luglio 1984, n. 4050; III, 9 febbraio 1991, n. 1346; I, 25 febbraio 1993, n. 2328; III, 9 dicembre 1997, n. 12449; 31 luglio 2002, n. 11356; I, 2 luglio 2010, n. 15784).

In altri termini, le caratteristiche essenziali e stimate indefettibili (ossia i requisiti minimi) delle prestazioni o del bene, definite dal bando, costituiscono una legittima condizione di partecipazione alla procedura: logica del resto vuole che il contratto vada aggiudicato a un concorrente che sia in grado di assicurare il minimo prestabilito che corrisponde all’essenza della res richiesta. E la significatività della regola è dimostrata anche dal fatto che essa vale anche se la lex specialis non commini espressamente l’esclusione per l’offerta che abbia caratteristiche difformi da quelle richieste. Ciò perché una tale difformità comunque concretizza un aliud pro alio che comporta, di per sé, l’esclusione dalla gara, anche in mancanza di un’apposita comminatoria (di recente, Cons. Stato, V, 25 ottobre 2019, n. 5260; 20 dicembre 2018, n. 7191; III, 3 agosto 2018, n. 4809; 26 gennaio 2018 , n. 565; sul punto, anche Cons. Stato, V, 5 maggio 2016, n. 1818; 28 giugno 2011, n. 3877).

Già alla luce di tali notazioni di base la censura in esame non è fondata.

L’assoggettamento delle offerte per il servizio di pulizia in questione alla previsione inderogabile di un numero minimo obbligatorio di ore di lavoro concorre a definire la specifica obbligazione che, per l’Amministrazione che ha bandito la gara, l’appaltatore deve comunque mostrare di saper soddisfare.

Ciò fermo, va specificato che la correlata previsione nella lex specialis, comunque, non contrasta con l’art. 1655 Cod. civ., perché esprime le concrete esigenze contrattuali del committente. Nulla dunque consente di affermare che la sua apposizione nel bando non sia compatibile con il modello generale del contratto di appalto di cui all’art. 1655 Cod. civ.. L’imprenditore che non ravvisi in quelle clausole – che traducono motivi del contrarre della pubblica amministrazione – la convenienza alla sua organizzazione non è tenuto a presentare offerta e nulla può lamentare al riguardo, salvo impugnarle in giustizia ove irragionevoli, ingiustificate o sproporzionate. Il che certamente sarebbe – va già qui anticipato – se esse intaccassero la sua connotazione imprenditoriale (art. 2082 Cod. civ.), ma non se solo contrastino con suoi individuali criteri organizzativi dei fattori della produzione.

1.4. Ne deriva che nella fattispecie (dove come visto l’ammissibilità dell’impugnativa diretta della clausola del bando è stata ritenuta dal giudice di primo grado con statuizione inappellata) non si tratta né di stabilire se l’affidamento cui è preordinata la lex specialis sia sussumibile nel tipo contrattuale codicistico dell’appalto, né di indagare sulle differenze generali tra appalto pubblico e appalto di diritto comune (ulteriormente, sugli specifici limiti dell’autonomia dell’appaltatore di opera pubblica a fronte della ingerenza dell’amministrazione appaltante, Cass., I, 22 agosto 2018, n. 20942; 18 settembre 2013, n. 21337).

Va piuttosto verificato se la clausola contestata, che esprime la valutazione dell’amministrazione nel tracciare le regole (tecniche e tecnico-giuridiche) della procedura di evidenza pubblica, risponda a proporzionalità e adeguatezza, tenendo conto della tipologia e dell’oggetto della prestazione per la quale è gara: è questo il tema su cui si incentra la seconda linea argomentativa del mezzo in esame, che però, come meglio in seguito, è infondata.

Prima di passare alla sua disamina, è bene ancora dare conto dell’ipotesi indicata dall’appellante: che il bando violi anche la tipologia di appalto dell’art. 29 (Appalto) del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30): la tesi, implicita nella censura, come si vedrà al successivo capo 2.4., è che il bando configuri nella realtà una somministrazione di lavoro.

1.5. L’art. 1655 Cod. civ. stabilisce: «L’appalto è il contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro».

Per il comma 1 del detto art. 29: «Ai fini dell’applicazione delle norme contenute nel presente titolo, il contratto di appalto, stipulato e regolamentato ai sensi dell’art. 1655 del codice civile, si distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione di mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché per l’assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio di impresa».

Nella vigenza del precedente regime interdittivo di cui alla l. 23 ottobre 1960, n. 1369 (Divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro e nuova disciplina dell'impiego di mano d’opera negli appalti di opere e di servizi), poi abrogata dal detto d.lgs. n. 276 del 2003, art. 85, comma 1, lett. c) – legge che, per quanto qui interessa, prevedeva all’art. 1, comma 1, il divieto di affidare «in appalto o in subappalto o in qualsiasi altra forma, anche a società cooperative, l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante impiego di manodopera assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario, qualunque sia la natura dell’opera o del servizio cui le prestazioni si riferiscono» – la giurisprudenza aveva ravvisato uno degli indici principali della vietata interposizione nell’assoggettamento dei dipendenti del (pseudo) appaltatore al potere direttivo e di controllo dell’effettivo utilizzatore delle loro prestazioni (Cass., lav., 25 giugno 2001, n. 8643; 18 marzo 2000, n. 3196): per cui non vi era un vero appalto, figura che si ha quando vi è l’utilizzazione diretta della prestazione lavorativa da parte dell’appaltatore e il suo esercizio del potere direttivo e di controllo, essendo egli il creditore della prestazione lavorativa del suo personale. Al contempo, un qualche potere di controllo del committente era stato ritenuto compatibile con un contratto di appalto quanto a “predeterminazione da parte del committente anche delle modalità temporali e tecniche di esecuzione del servizio o dell’opera oggetto dell’appalto che dovranno essere rispettate dall’appaltatore”, in quanto “non può ritenersi sufficiente ai fini della configurabilità di un appalto fraudolento, la circostanza che il personale dell’appaltante impartisca disposizioni agli ausiliari dell’appaltatore, occorrendo verificare se le disposizioni impartite siano riconducibili al potere direttivo del datore di lavoro, in quanto inerenti a concrete modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative, oppure al risultato di tali prestazioni, che può formare oggetto di genuino contratto di appalto (Cass. 13015/93, cui adde Cass. 9398/93, secondo cui per valutare la legittimità dell’appalto, il giudice deve tener conto anche delle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa che manifestino la sussistenza di un rapporto di subordinazione diretta con il committente)” (Cass., lav., 6 giugno 2011, n. 12201; nello stesso senso, Cass., lav., 3 luglio 2009, n. 15693).

Dando seguito a un diverso e liberalizzante indirizzo (già avviato dalla l. 24 giugno 1997, n. 196 con il c.d. lavoro interinale) il d.lgs. n. 276 del 2003 ha introdotto la figura contrattuale della somministrazione di lavoro. Ed ha poi disciplinato – per i fini di quel Titolo, cioè “somministrazione di lavoro appalto di servizi, distacco” - al detto art. 29 la figura dell’appalto, distinguendolo dalla somministrazione di lavoro disciplinata dai contestuali, nello stesso Titolo, artt. 20-28, sulla base dei criteri discretivi, già enucleati dalla giurisprudenza in virtù della disciplina previgente, dell’autonomia organizzativa e funzionale dell’attività dell’appaltatore, che si riflette nell’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, e nell’assunzione del rischio d’impresa.

In particolare, sull’art. 29 la giurisprudenza ha rilevato che la previsione normativa “pur nella ridefinizione dei confini del divieto di interposizione nelle prestazioni di lavoro […] ha ribadito la sostanza del divieto di intermediazione e di interposizione nelle prestazioni di lavoro, dettando la disciplina degli strumenti leciti all’interno della vicenda interpositoria”, richiamando “i due principali elementi che per la disciplina di cui all’art. 1655 c.c., caratterizzano il contratto di appalto, ossia la permanenza in capo all’appaltatore dell’esercizio del potere direttivo e organizzativo nei confronti dei dipendenti utilizzati nell’appalto e l’assunzione del rischio di impresa” (Cass., lav., ord. 10 giugno 2019, n. 15557).

Ne deriva che, per la giurisprudenza sull’art. 29, così come per la giurisprudenza formatasi sotto la l. n. 1369 del 1960, perché vi sia un lecito appalto, per un verso occorre che sia l’appaltatore a organizzare il processo produttivo, con impiego di manodopera propria e con l’esercizio sul personale del suo potere direttivo, organizzativo e disciplinare (non formale ma effettivo); per altro verso, tuttavia, resta possibile che siano “predeterminate in modo analitico nel contratto di appalto le modalità operative del servizio, specificità certamente funzionale alla corretta esecuzione del servizio oggetto del contratto”, ciò non costituendo “deviazione da tale schema tipico” (Cass., n. 15557/2019, cit.).

Sotto altro profilo, riguardo alle norme sopravvenute e in continuità con la giurisprudenza più risalente, si è ritenuto che “in tema di interposizione nelle prestazioni di lavoro non è sufficiente, ai fini della configurabilità di un appalto fraudolento, la circostanza che il personale dell’appaltante impartisca disposizioni agli ausiliari dell’appaltatore, occorrendo verificare se le disposizioni impartite siano riconducibili al potere direttivo del datore di lavoro, in quanto inerenti a concrete modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative, oppure al solo risultato di tali prestazioni, il quale può formare oggetto di un genuino contratto di appalto (Cass. 12201 del 2011; n. 15615 del 2011)” (Cass., lav., 12 aprile 2018, n. 9139).

La giurisprudenza ha così enucleato gli elementi utili a distinguere la somministrazione di lavoro da altre fattispecie: a) la richiesta da parte del committente di un certo numero di ore di lavoro; b) l’inserimento stabile del personale dell’appaltatore nel ciclo produttivo del committente; c) l’identità dell’attività svolta dal personale dell’appaltatore rispetto a quella svolta dai dipendenti del committente; d) la proprietà in capo al committente delle attrezzature necessarie per l’espletamento delle attività; e) l’organizzazione da parte del committente dell’attività dei dipendenti dell’appaltatore (Cons. Stato, III, 12 marzo 2018, n.1571, che richiama Cass., lav., 7 febbraio 2017, n. 3178).

Su tali basi si può sintetizzare rilevando che: l’obbligazione dell’appaltatore è un’obbligazione di risultato; invece la somministrazione di lavoro è la messa a disposizione di lavoratori che svolgono attività nell’interesse e sotto la direzione e il controllo dell’utilizzatore, secondo lo schema dell’obbligazione di mezzi; nel contratto di appalto i lavoratori restano nella effettiva disponibilità dell’impresa appaltatrice, che ne cura la direzione e il controllo; nella somministrazione di lavoro è invece l’utilizzatore (non il somministratore) che dispone in concreto dei lavoratori, impartendo loro le direttive.

Applicando tali coordinate al caso di specie, è naturale concludere che non basta la sola richiesta del committente di un certo numero di ore di lavoro per escludere che ricorra un appalto e qualificare il contratto come di somministrazione di lavoro: occorre infatti, in primis, che sia trasferito al committente l’esercizio del potere organizzativo e direttivo dei lavoratori impiegati. Il che qui non risulta dimostrato, perché la stazione appaltante non intende acquistare un monte di ore di lavoro da gestire a propria discrezione, ma semplicemente garantire che sia effettuato un determinato numero ore di servizio minimo che evidentemente stima correlato allo specifico servizio di cui abbisogna.

Così stando le cose, la contestata clausola realizza quella predeterminazione del committente “anche delle modalità temporali” della prestazione, ovvero “delle modalità analitiche operative del servizio” che la giurisprudenza, sia anteriore che precedente all’art. 29 d.lgs. n. 276 del 2003, ha ritenuto ben compatibile con il contratto di appalto (rispettivamente, Cass., n. 12201/2011 e n. 15557/2019, cit.).

Si può aggiungere, trattandosi di un elemento correlato al tema, che con lo stesso bando qui in esame la stazione appaltante intende promuovere anche una certa stabilità occupazionale del personale da impiegare da parte dell’appaltatore, effetto che affida alla c.d. “clausola sociale”, prevista dal disciplinare [paragrafo 25, Condizioni generali degli accordi quadro e dei contratti esecutivi, lett. a), ultimo periodo, pag. 33]: condizione che, peraltro, l’appellante, che incentra le doglianze su “una questione di sistema” relativa alle “ore di lavoro minime e inderogabili” – non ha peraltro impugnato.

Tanto premesso, e considerati i detti criteri discretivi, si deve concludere che l’appellante – che si limita come visto a contestare la compatibilità della clausola del monte ore minimo inderogabile con gli schemi di cui all’art. 1655 Cod. civ. e all’art. 29 d.lgs. n. 276 del 2003 – non dimostra la concreta sussistenza, nella fattispecie in esame, di una siffatta condizione: vale a dire che la lex specialis configuri non già un contratto di appalto, ma una figura non consentita di contratto di somministrazione di lavoro.

Anche la censura di violazione dell’art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003 va dunque respinta: non vi sono elementi per ritenere che il bando prefiguri un appalto diverso dalla tipologia delineata dalle dette norme.

2. A questo punto va indagato se, come da seconda linea argomentativa del mezzo in esame, il servizio di pulizie messo a bando, da effettuarsi presso varie tipologie di locali delle sedi istituzionali (enti, distaccamenti e reparti) della Marina Militare, giurisdizione Marina Nord, tolleri la clausola in contestazione.

La risposta è positiva, in quanto nessuno dei rilievi avanzati dall’appellante ne dimostra l’illegittimità.

2.1. L’appellante sostiene che nel servizio in esame, vista la preponderanza della manodopera, l’autonomia organizzativa residua dell’appaltatore andrebbe a esplicarsi principalmente, o esclusivamente, in margini oltremodo ristretti di organizzazione e gestione dei lavoratori, e, segnatamente, riguardo all’individuazione delle ore necessarie per assicurare il servizio, con un rapporto assai ristretto rispetto all’individuazione dei mezzi e delle attrezzature da impiegarsi: la clausola a suo dire invaderebbe la decisione organizzativa strategica che dev’essere comunque propria dell’appaltatore come imprenditore.

La censura è infondata.

La tesi dell’appellante appare insufficiente: non offre la concludente dimostrazione che la presenza di un monte ore minimo di servizio, reso inderogabile dalla lex specialis, refluisca sull’organizzazione a impresa del servizio al punto da annullare o comunque minare gravemente il sistema di combinazione dei fattori produttivi che il concorrente immagina di portare avanti accedendo all’invito ad offrire.

Tale dimostrazione non è data, in particolare, dal richiamo al criterio del “clever job”: metodo di lavoro che, come afferma l’appellante, nel mercato delle pulizie professionali prevede una più snella distribuzione delle mansioni e dei flussi di lavoro, consentendo il risparmio fino al 25% delle ore di lavoro.

È questo infatti uno dei possibili sistemi organizzativi del lavoro nell’ambito del servizio di pulizie, tant’è che la stessa appellante afferma di averlo menzionato in via semplificativa. E, come tutti i metodi organizzativi aziendali, mira a una maggiore redditività dell’impresa che lo pratica: ma, come già si è accennato, non diviene di suo un elemento connotativo indispensabile ed essenziale della imprenditorialità, tale da – in pratica – poter essere imposto all’amministrazione contraente a fronte della contestata clausola, facendo leva sulla negazione del nucleo essenziale della figura dell’imprenditore (art. 2082 Cod. civ.).

Sicché la clausola censurata per un verso appare ben ordinata a soddisfare un’esigenza e un interesse sostanziale dell’Amministrazione: la quale ben può orientare la scelta del contraente a tutela del sottostante interesse generale, non essendo contestabile il prevedere un dato standard, anche quantitativo, per l’igiene dei locali ad alta frequentazione giornaliera quali quelli di cui si discute (le specifiche tecniche menzionano, tra altro: uffici; camere; servizi igienici; cucine; mense; spogliatoi; sale convegno; corpi di guardia; infermerie; aule didattiche; palestre); per un altro verso non osta alla presentazione da parte degli operatori economici (che intendano partecipare alla gara come figurata dal bando) di un’offerta che, pur nel rispetto della prescrizione, che non esaurisce tutti gli aspetti dell’esecuzione del servizio, riguardandone solo la parte minima richiesta, risulti utilmente formulata circa le soluzioni organizzative sulle modalità di svolgimento complessivo della prestazione.

2.2. Nemmeno può dirsi, con l’appellante, che la clausola, letta unitamente alla correlata previsione della detrazione dal compenso mensile dell’appaltatore del costo delle eventuali ore non lavorate, trasformi l’obbligazione dell’affidatario da obbligazione di risultato a obbligazione di mezzi, in quanto prescinde dalla verifica del raggiungimento del risultato, cioè della perfetta pulizia dei locali.

In realtà la verifica del risultato nel meccanismo prescelto dal bando non manca.

Essa si aggiunge, cioè non è sostituita, alla rilevazione della presenza degli addetti finalizzata al controllo del raggiungimento delle ore minime mensili: le specifiche tecniche, in uno alla detrazione correlata all’eventuale mancato raggiungimento del monte ore mensile, dispongono infatti che sono “fatte salve le ulteriori detrazioni e penalità per mancata e non corretta esecuzione del servizio, da assoggettare a provvedimenti e sanzioni” (paragrafo 5, Servizio e tipologia dei locali, pag. 7).

Perciò, nell’assetto definito dal bando, la detrazione è solo una modalità che concorre a determinare il compenso dell’appaltatore, adeguandolo anche in relazione alla clausola delle ore minime inderogabili di lavoro: il che non appare illogico, atteso che si tratta di un’osservanza non suscettibile di essere verificata una volta e per tutte in esito alla presentazione dell’offerta, perché impinge nell’esecuzione della obbligazione, che, per l’effetto, non può che restarne conformata anche sotto il profilo sinallagmatico.

2.3. L’appellante invoca a dimostrazione dell’illegittimità della clausola delle ore minime inderogabili la giurisprudenza per cui i bandi pubblici non possono formulare la cd. “clausola sociale” in termini cogenti, cioè imponendo al nuovo affidatario l’assunzione di tutta o una parte del personale del gestore uscente, senza considerare le esigenze organizzative dell’impresa subentrante che ritenga ragionevolmente di poter svolgere il servizio utilizzando una minore componente della forza lavoro.

Il rilievo non è persuasivo.

Anche senza dilungarsi sulla differenza della ricaduta sull’impresa della cd. “clausola sociale” rispetto alla clausola di cui qui si discute, che non impatta coercitivamente sull’organico dell’offerente ma solo richiede che il concorrente appresti un’organizzazione del servizio nel rispetto del monte ore inderogabile di lavoro che è la prestazione minima che l’Amministrazione intende acquisire, vale osservare che la censura ripropone, sotto altra forma, la tesi sistematica dell’appellante che la clausola comprime l’autonomia dell’appaltatore per raggiungere un certo risultato qualitativo. Ma anche a tutto considerare al riguardo (cfr. Cons. Stato, III, 30 marzo 2016, n. 1255; 22 giugno 2018, n. 3861; 27 settembre 2018, n. 5551), l’evenienza è da escludersi per le ragioni già esposte, specificamente alla luce della considerazione che la clausola è proprio uno degli elementi che concorrono a identificare lo standard qualitativo richiesto in concreto, con conseguente sua pretendibilità a mezzo di clausole cogenti.

2.4. Con l’ultima censura del mezzo in esame l’appellante sostiene che la sentenza, nell’escludere che l’affidamento si sia trasformato, per effetto della clausola, in una somministrazione di lavoro, sia andato oltre petitum e causa petendi, perché le ricorrenti giammai hanno affermato che la gara mascheri una somministrazione di lavoro, fattispecie che è stata citata solo a sostegno delle argomentazioni su come la clausola stessa fosse incompatibile con lo schema del contratto di appalto.

La doglianza è senza fondamento.

Il principio della corrispondenza fra chiesto e pronunciato è violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri uno degli elementi obiettivi di identificazione dell'azione (petitum e causa petendi), attribuendo o negando a uno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nell’ambito della domanda o delle richieste delle parti: ne deriva che non incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice che esamini una questione non espressamente formulata, tutte le volte che questa debba ritenersi tacitamente proposta, in quanto in rapporto di necessaria connessione con quelle espressamente formulate (da ultimo, Cass., VI, 3 luglio 2019, n. 17897).

Ciò posto, si osserva che l’appellante ha dedotto sia in primo che in secondo grado la violazione dell’art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003 e la “snaturazione” del contratto di appalto asseritamente operata dal bando mediante la trasformazione dell’obbligazione dell’appaltatore da obbligazione di risultato a obbligazione di mezzi.

Bene ha fatto, pertanto, il giudice di primo grado ad affrontare il tema reale che tali censure implicitamente delineano, ovvero la verifica di se l’affidamento, come risultante dalla strutturazione operata dal contestato meccanismo, potesse trasmodare in una somministrazione di lavoro irregolare; la stessa indagine si è resa del resto necessaria ed è stata effettuata anche in questa sede (capo 1.5).

A nulla vale quindi sottolineare da parte dell’appellante che il richiamo all’art. 29 d.lgs. n. 276 del 2003 era volto al mero scopo di enucleare i tratti distintivi dell’appalto: la verifica di se l’affidamento fosse sussumibile nella categoria dell’appalto non poteva infatti che essere raggiunta in via comparativa con la diversa figura contrattuale evocata dalla stessa norma; e difatti nella censura qui in esame l’appellante finisce poi con il richiamare la giurisprudenza che ha marcato la differenza tra appalto di servizi e somministrazione di manodopera.

3. Per tutto quanto precede il primo mezzo deve essere respinto.

4. Anche il secondo mezzo è infondato e va respinto.

Con una prima censura l’appellante si duole del capo di sentenza con cui il primo giudice, rilevando che il contestato monte ore minimo inderogabile di lavoro era strumentale al conseguimento di un determinato livello quantitativo minimo della prestazione posta a gara, ha respinto il suo secondo motivo di ricorso, che assumeva la contrarietà della clausola all’art. 68 e all’Allegato XIII d.lgs. n. 50 del 2016, nonché ai corrispondenti art. 42 e considerando n. 74 della direttiva 24/2014/ UE, in quanto le prestazioni e i requisiti funzionali delineati dalle predette norme richiesti non potrebbero giungere a definire nel dettaglio le ore di lavoro necessarie per l’esecuzione del servizio.

La doglianza è infondata: si tratta di un monte ore minimo e alla luce delle considerazioni che precedono sull’insuscettibilità della clausola di impedire offerte comunque espressive delle soluzioni tecniche prescelte dai concorrenti per l’esecuzione del servizio.

Quanto, invece, alla seconda censura (che evidenzia che il bando-tipo n. 2 adottato dall’ANAC per i servizi di pulizia non contempla una clausola quale quella qui in rilievo), è la stessa deducente a rilevare che l’art. 71 del d.lgs. n. 50 del 2016 prevede la possibilità delle stazioni appaltanti di derogare ai bandi-tipo Anac previa motivazione nella determina a contrarre. Sicché per un verso va confermato il rilievo del primo giudice sulla non vincolatività dei bandi-tipo, ulteriormente rilevandosi la coerenza della conclusione con le finalità meramente agevolative e di omogeneità che la legge collega espressamente alla loro predisposizione; per altro verso va escluso che una prescrizione meramente aggiuntiva a quelle del bando-tipo di cui sia accertata la compatibilità con il quadro normativo della materia, come quella di cui si discute, possa ritenersi illegittima, con conseguente sua demolizione giurisdizionale, solo perché carente di specifica motivazione: la gravità della sanzione ipotizzata dall’appellante, sia ex se, sia per l’afferenza alla materia dei bandi pubblici, ove domina l’esigenza della certezza della regolazione, imporrebbe infatti la sua predeterminazione da parte dell’art. 71 in parola, che invece non la contempla.

5. Per tutto quanto precede, l’appello va respinto.

Le spese di giudizio del grado possono essere compensate, tenuto anche conto del fatto che l’Amministrazione resistente ha depositato esclusivamente una memoria di stile.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello di cui in epigrafe, lo respinge.

Compensa tra le parti le spese di giudizio del grado.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

 

 

 

GUIDA ALLA LETTURA

Con il pronunciamento in commento, la V Sezione del Consiglio di Stato ha affrontato la tematica relativa ai limiti dell’autonomia imprenditoriale dell’appaltatore nell’ambito degli appalti pubblici.

Nella procedura evidenziale portata al vaglio del Supremo Consesso Amministrativo, le imprese ricorrenti hanno impugnato in via diretta il bando di gara nella parte in cui ha imposto un monte orario minimo inderogabile nella prestazione del servizio da affidare.

La principale linea argomentativa sostenuta nel ricorso ha censurato la lex specialis per violazione della libertà d’impresa ex art. 41 cost. e limitazione ultronea del potere organizzativo spettante all’appaltatore ai sensi dell’art.1665 c.c..

A dire delle ricorrenti, la richiesta di un certo numero di ore lavoro costituirebbe un indice sintomatico della riconducibilità della fattispecie nell’alveo del contratto di somministrazione di lavoro, stante l’assenza della diretta organizzazione dei lavoratori da impiegare.

Il Consiglio di Stato ha respinto tali doglianze, confermando che la stazione appaltante può legittimamente imporre alle imprese concorrenti di svolgere il servizio oggetto di gara con un numero minimo e inderogabile di ore lavoro.

A tal fine, il Collegio ha innanzitutto rilevato che la normativa dettata in materia di contratti pubblici presenta caratteri di specialità rispetto alla disciplina legislativa dell’appalto di diritto comune di cui agli artt. 1655 e ss. c.c., e ha natura di fonte primaria a questa pariordinata.

Ne consegue, quale precipitato logico, che un bando di gara ben potrebbe contenere prescrizioni incompatibili con la figura civilistica dell’appalto tra privati.

Ciò premesso, i Giudici di Palazzo Spada hanno ribadito che l’appaltatore pubblico gode di un margine di autonomia organizzativa nella combinazione dei fattori produttivi meno ampio rispetto al regime di libertà di gestione dei mezzi e delle risorse proprio dell’appaltatore privato (cfr. Cass., 10/7/1984, n. 4050; III, 9/3/1991, n. 1346; I, 25/2/1993, n. 2328; III, 9/12/1997, n. 12449; 31/7/2002, n. 11356; I, 2/7/2010, n. 15784).

Secondo l’argomentare del Giudicante, nelle procedure a evidenza pubblica, l’amministrazione definisce specificamente le caratteristiche della prestazione oggetto di affidamento, compendiando nella lex specialis le proprie esigenze contrattuali tramite predeterminazione dei requisiti minimi delle offerte da presentare.

Consegue da ciò che il singolo concorrente può modulare le componenti dell’offerta non precostituite dal bando secondo le proprie scelte organizzative e decisioni strategiche, fermo l’obbligo di garantire il livello qualitativo minimo stabilito nella documentazione di gara.

L’opzione ermeneutica che precede è logica e coerente con il principio giurisprudenziale secondo cui la difformità dell’offerta presentata rispetto alle caratteristiche essenziali richieste concretizza un aliud pro alio tale da determinare l’esclusione dalla gara, anche in mancanza di un’apposita comminatoria in tal senso (cfr., tra le numerosissime, Cons. Stato, sez. V, 25/10/2019, n. 5260; 20/12/2018, n.7191; sez. III, 3/10/2018, n. 4809; 26/1/2018 , n. 565; sul punto, anche Cons. Stato, sez. V, 5/5/2016, n. 1818; 28/6/2011, n. 3877).

Sulla scorta di tali considerazioni, il Consiglio di Stato ha ritenuto che la contestata clausola d’imposizione di un monte ore minimo sia compatibile con la libertà d’iniziativa economica dell’appaltatore siccome strumentale ad assicurare un determinato standard qualitativo del servizio da affidare.

Il Collegio ha indi affrontato la doglianza relativa al carattere non genuino dell’appalto dissimulante invero un contratto di somministrazione di lavoro.

In tale prospettiva, il Giudicante ha compendiato le caratteristiche che connotano in modo tipico le suddette fattispecie negoziali, sulla base dei criteri discretivi già enucleati dalla giurisprudenza (cfr. Cass. Lav., ord. 10/6/2019, n.15557; 12/4/2018, n. 9139; 6/6/2011, n. 12201; 3/7/2009, n. 15693).

Secondo il granitico orientamento pretorio, cui si allinea il pronunciamento in commento, l’appaltatore assume un’obbligazione di risultato (compiere l’opera o prestare il servizio) e mantiene l’esercizio del potere organizzativo e direttivo dell’attività dei propri dipendenti.

Di converso, il somministratore assume un’obbligazione di mezzi (fornire il personale) e trasferisce all’utilizzatore l’esercizio del potere organizzativo e direttivo dei lavoratori impiegati.

Alla luce delle sovra esposte coordinate ermeneutiche, il Consiglio di Stato ha ritenuto compatibile con la natura del contratto di appalto la predeterminazione delle modalità temporali della prestazione, operata dalla stazione appaltante mediante fissazione di un monte orario minimo di lavoro, attesa la permanenza in capo all’appaltatore del potere di organizzare le risorse materiali e personali necessarie per lo svolgimento del servizio.