Cons. Stato, sez. III, 25 febbraio 2020, n. 1385

1. Non è errato sostenere che la società in house abbia natura giuridica “sempre” pubblica. Invero i recenti sviluppi normativi non hanno impedito alla prevalente giurisprudenza di continuare ad accedere alla tesi dell’equiparazione della società in house a “ufficio interno” dell’ente pubblico che l’ha costituita e dunque a escludere un rapporto di alterità sostanziale tra l’ente e la società. La configurazione di siffatte società alla stregua di mere articolazioni interne alla P.A. giustifica la non riconducibilità dell’attività dell’ente e dei suoi organi a un soggetto privato dotato di una autonoma soggettività e la sostanziale imputazione alla Amministrazione medesima (1).  

Non è altresì erroneo ritenere che la società in house non abbia un organo amministrativo autonomo. Invero chi opina nel senso della natura pubblica ritiene altresì che i vincoli gerarchici cui gli organi della società in house siano assoggettati nei confronti della Amministrazione di riferimento impediscano che questi siano investiti di un mero munus privato rendendo invece configurabile un vero e proprio rapporto di servizio (2).

 

2. L’art. 5, comma 1, lett c) del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 – “Codice dei contratti pubblici” – reca un rinvio a una successiva norma di legge che prescriva espressamente la partecipazione dei privati in società in house e ne stabilisca in specie le modalità di partecipazione e di scelta del socio.

Tale norma pone una previsione di carattere generale e dunque fino a quando non intervenga una legge ad attuarla nell’ordinamento interno deve ritenersi preclusa ai privati la partecipazione in società in house. Invero, diversamente opinando, non si avrebbe cognizione né della percentuale nella quale i privati possano partecipare né delle modalità in conformità alle quali la scelta degli stessi debba avere luogo. In questo risiede il discrimen fra le società in house e le società miste per le quali la partecipazione mista di capitale pubblico-privato ha una sua disciplina (3).

 

(1) Conforme Consiglio di Stato, Ad. Plen., 3 marzo 2008, n. 1; Cass. civ., S.U., 25 novembre 2013, n. 26283; 10 marzo 2014, n. 5491; 26 marzo 2014, n. 7177; 9 luglio 2014, n. 15594; 24 ottobre 2014, n. 22609; 24 marzo 2015, n. 5848. In senso contrario Cass. civ., S.U., 1 dicembre 2016, n. 24591; Cass. civ., Sez. Un., 28 giugno 2018, n. 17188; Cass. civ., Sez. Un., 13 settembre 2018, n. 22406.

 

(2) Conforme Consiglio di Stato, Sez. I, 7 maggio 2019, n. 1389; Cass. civ., S.U., 27 dicembre 2019, n. 34471; 11 settembre 2019, n. 22712; 21 giugno 2019, n. 16741.

(3) Conforme Consiglio di Stato, Sez. I, 7 maggio 2019, n.1389; Consiglio di Stato, Sez. VI, 30 aprile 2018, n. 2583.

 

 

 

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2819 del 2019, proposto dal dottor Pierfrancesco Fiorella, rappresentato e difeso dall’avvocato Cesare Borgia, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia,

contro

l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale – I.N.P.S., in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Gaetano De Ruvo, Angelo Guadagnino, Samuela Pischedda e Lucia Policastro e con questi elettivamente domiciliato presso i propri uffici legali in Roma, Via Cesare Beccaria, n. 29;

 

nei confronti

del signor Giuliano Zamboni, non costituito in giudizio,

per la riforma

della sentenza, resa in forma semplificata, del Tar Lazio, sede di Roma, sez. III-quater, n. 1090 del 29 gennaio 2019, notificata in pari data, che ha rigettato il ricorso proposto avverso la prova di ammissione somministrata ai candidati del concorso a 967 posti di consulente protezione sociale nei ruoli del personale dell’I.N.P.S., area C, posizione economica C1. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l’appello incidentale depositato dall’I.N.P.S. in data 13 maggio 2019; Viste le memorie difensive dell’I.N.P.S., depositate in date 18 novembre 2019 e 12 dicembre 2019; Vista la memoria di replica del dottor Fiorella del 27 dicembre 2019; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell’udienza pubblica del giorno 23 gennaio 2020 il Cons. Giulia Ferrari e uditi altresì i difensori presenti delle parti in causa, come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

1. Il dottor Pierfrancesco Fiorella ha partecipato al concorso per titoli ed esami, bandito dall’I.N.P.S. in data 27 aprile 2018, a 967 posti di consulente protezione sociale nei ruoli del personale dell’I.N.P.S., area C, posizione economica C1. La procedura concorsuale prevedeva una prova preselettiva, due prove scritte da sostenersi nello stesso giorno, la valutazione dei titoli ed una prova orale. Le prove scritte, indicate nel bando quali prima e seconda prova, avevano ad oggetto due distinte verifiche con 60 quesiti e 5 quiz di riserva, ciascuno per le cinque materie oggetto della prova, da utilizzare in caso di annullamento di uno dei 60 quesiti. In data 25 settembre 2018, sul sito web dell’I.N.P.S. sono stati pubblicati gli esiti di tali prove e il dottor Fiorella non raggiungeva la soglia minima di 21 punti nella prima verifica, conseguendo il punteggio di 19,50 punti, mentre raggiungeva tale soglia nella seconda prova scritta, ottenendo 21 punti. Alla prima prova avrebbe risposto erroneamente al quesito n. 35 recante la domanda: “una società in house: a) Non ha un organo amministrativo autonomo (indicata come risposta corretta dal dottor Fiorella); b) Si occupa esclusivamente di gestione immobiliare; c) È sempre privata; d) È sempre pubblica (indicata come opzione corretta dall’I.N.P.S.)”; al quesito n. 20 recante la domanda: “secondo quanto stabilito dal CCNL, il dipendente non in prova, assente per malattia, ha diritto alla conservazione del posto per un periodo di: a) otto mesi; b) dodici mesi; c) ventiquattro mesi (indicata come risposta corretta dal dottor Fiorella); d) diciotto mesi (indicata come opzione corretta dall’I.N.P.S.)”; al quesito n. 40 recante la domanda: “secondo quanto previsto dall’art. 54 del d.lgs. n. 165/2001 e s.m.i., chi definisce il codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni? a) la stessa Pubblica amministrazione (indicata come opzione corretta dall’I.N.P.S.); b) il Ministero dell’Interno; c) il Governo (indicata come risposta corretta dal dottor Fiorella); d) il Ministero della Pubblica amministrazione”; al quesito n. 53 recante la domanda: “quale delle seguenti affermazioni inerenti al periodo di prova è corretta? a) compiuto il periodo di prova, l’assunzione diviene definitiva e il servizio prestato si computa nell’anzianità del prestatore di lavoro (indicata come opzione corretta dall’I.N.P.S.); b) la facoltà di recesso dal contratto di prova può avvenire in qualunque momento anche prima del termine stabilito dal contratto (indicata come risposta corretta dal dottor Fiorella); c) l’assunzione del prestatore di lavoro per un periodo di prova può avvenire anche in forma orale; d) durante il periodo di prova solo il prestatore di lavoro ha diritto al recesso”.

2. Avverso l’esito della prova scritta ha proposto ricorso al Tar Lazio che, con sentenza della sez. III-quater, n. 1090 del 29 gennaio 2019, lo ha respinto. In particolare, ha ritenuto infondate le censure avverso i quesiti nn. 35, 20 e 53 e fondata la censura avverso il quesito n. 40. L’attribuzione del punteggio derivante dall’accoglimento della censura avente ad oggetto la domanda sul codice di comportamento, pari a 1, non consentirebbe in ogni caso al ricorrente, che ha riportato la votazione di 19,5 in una delle due prove scritte, di conseguire nella stessa i 21 punti necessari, secondo il bando, per essere ammesso alla prova orale. 3. La citata sentenza n. 1090 del 29 gennaio 2019 è stata impugnata con appello notificato il 30 marzo 2019 e depositato il successivo 1° aprile, con il quale il dottor Fiorella ha dedotto: quanto al quesito n. 35 – inerente alle società in house – che la sottoposizione di quest’ultime rispetto alle altre s.p.a. non farebbe venir meno la loro natura privatistica; le società in house resterebbero comunque società private soggette a particolare controllo dell’ente pubblico costituente; la partecipazione privata ad una società in house sarebbe ammissibile, a patto che il controllo privatistico non risulti decisivo sicché, nell’opzione ritenuta corretta dall’appellato “è sempre pubblica”, la presenza dell’avverbio “sempre” renderebbe la risposta non corretta; quanto al quesito n. 20 – inerente alla conservazione del posto di lavoro per il dipendente non in prova, assente per malattia – il mancato inserimento dell’aggettivo “pubblico” affiancato al termine “dipendente” avrebbe permesso di indicare come corretta una risposta prevista all’interno di altri CCNL, non potendo dedurre che il CCNL di riferimento fosse quello ascrivibile al pubblico impiego; quanto al quesito n. 53 – inerente al periodo di prova – la mancata esclusione all’interno del quesito del caso eccezionale, previsto dall’art. 2096, co. 3, c.c., permetterebbe di considerare come corrette sia l’opzione indicata dall’I.N.P.S., sia quella indicata dal dottor Fiorella.

L’appellante ha impugnato, altresì, il capo relativo alle spese del procedimento. La complessità delle materie trattate e la particolarità di tale concorso pubblico avrebbero giustificato la compensazione delle spese. 4. Si è costituito in giudizio l’I.N.P.S., che ha sostenuto l’infondatezza dell’appello. 5. Ha proposto, altresì, appello incidentale condizionato – depositato in data 13 maggio 2019 – avverso il capo 4.2. della sentenza, qualora l’attribuzione del punteggio, a seguito dell’accoglimento dei motivi di appello principale, consentisse al dottor Fiorella di conseguire i 21 punti necessari, secondo il bando, per essere ammesso alla prova orale. Il quesito n. 40 andrebbe riferito all’unico codice di comportamento dei dipendenti di tutte le Pubbliche amministrazioni, che non potrebbe essere confuso con i codici di comportamento specifici o integrativi delle singole pubbliche amministrazioni, che comunque avrebbero come base quello definito dal Governo. 6. Il dottor Giuliano Zamboni non si è costituito in giudizio. 7. Con ordinanza cautelare n. 2396 del 17 maggio 2019 è stata respinta l’istanza di sospensione della sentenza del Tar Lazio, sede di Roma, n. 1090 del 29 gennaio 2019. 8. Alla pubblica udienza del 23 gennaio 2020, la causa è stata trattenuta in decisione.

 

DIRITTO

1. Come esposto in narrativa, il dottor Fiorella nella prima delle due prove scritte ha conseguito il punteggio di 19,5/30 per non aver risposto correttamente a quattro quesiti. Non ha quindi raggiunto la soglia minima di 21/30 (ottenuta invece alla seconda prova) necessaria per accedere alle prove orali. In particolare, non sono state considerate risposte esatte quelle relative ai quesiti nn. 20, 35, 40 e 53. Con l’impugnata sentenza n. 1090 del 29 gennaio 2019 la sez. III quater del Tar Lazio ha accolto il solo motivo relativo alla risposta al quiz n. 40 (Codice di comportamento), attribuendo erroneamente 1 punto in luogo di 0,50 punti previsti per ogni risposta corretta ma respingendo il ricorso in applicazione della c.d. prova di resistenza.

La sentenza è stata impugnata dal dottor Fiorella sia per la parte relativa alla reiezione dei motivi rivolti avverso l’erronea valutazione delle risposte date ai quesiti nn. 20, 35 e 53 che per il capo relativo alla condanna alle spese di giudizio (liquidate in € 1.000,00), nonché dall’I.N.P.S. con appello incidentale, per il capo che ha considerato erronea la valutazione della risposta data al quesito n. 40. Tale appello è dichiaratamente condizionato all’ipotesi in cui la Sezione, accogliendo in tutto o in parte i motivi dell’appello principale proposti avverso la valutazione dei quesiti nn. 20, 35 e 53, attribuisca un punteggio complessivo all’appellante che lo porterebbe alla soglia minima di 21/30. 2. Come chiarito sub 1, all’appellante sono state considerate, sia dall’I.N.P.S. che dal Tar, errate le risposte date ai quesiti 20, 35 e 53. Il quesito n. 20 reca la domanda: “secondo quanto stabilito dal CCNL, il dipendente non in prova, assente per malattia, ha diritto alla conservazione del posto per un periodo di: a) otto mesi; b) dodici mesi; c) ventiquattro mesi (indicata come risposta corretta dal dottor Fiorella); d) diciotto mesi (indicata come opzione corretta dall’I.N.P.S.)”. Il Collegio ritiene che giustamente sia stata considerata corretta la risposta d), nel senso che il periodo di comporto fosse di diciotto mesi. È ben vero che, come dice l’appellante, il bando prevedeva, tra le materie oggetto della prima prova scritta, “diritto del lavoro e legislazione sociale”, con la conseguenza che in teoria la domanda poteva essere riferita anche al rapporto di lavoro privatistico, ma in concreto ciò avrebbe determinato la necessità di specificare a quale Contratto ci si riferisse, stante la non univocità del periodo di comporto, come è, invece, per il pubblico impiego privatizzato. Il quesito n. 35 reca la domanda: “una società in house: a) non ha un organo amministrativo autonomo (indicata come risposta corretta dal dottor Fiorella); b) si occupa esclusivamente di gestione immobiliare; c) è sempre privata; d) è sempre pubblica (indicata come opzione corretta dall’I.N.P.S.)”

Ha sostenuto l’appellante che la domanda sarebbe generica e si presterebbe a diverse soluzioni corrette tra quelle proposte. In particolare, ha ritenuto che la sottoposizione delle società in house rispetto alle altre s.p.a. non farebbe venir meno la loro natura privatistica; le società in house resterebbero comunque società private soggette a particolare controllo dell’ente pubblico costituente; la partecipazione privata ad una società in house sarebbe ammissibile, a patto che il controllo privatistico non risulti decisivo. I rilievi sono fondati, quanto meno nel senso dell’equivocità della risposta indicata come esatta dall’I.N.P.S., la quale non può essere considerata in assoluto ed esclusivamente corretta. Ed invero, quanto alla natura giuridica delle società in house e all’autonomia dei suoi organi, possono annoverarsi due orientamenti, compendiati nel parere del Cons. St., comm. spec., n. 438 del 16 marzo 2016. Un primo orientamento, seguito dalla prevalente giurisprudenza della Corte di Cassazione, ritiene che la società in house non sia un vero e proprio soggetto giuridico mancando il requisito dell’alterità soggettiva rispetto all’amministrazione pubblica. In particolare, si è rilevato che “ciò che davvero è difficile conciliare con la configurazione della società di capitali, intesa quale persona giuridica autonoma e distinta dai soggetti che in essa agiscono e per il cui tramite essa stessa agisce, è la totale assenza di un potere decisionale suo proprio, in conseguenza del totale assoggettamento dei suoi organi al potere gerarchico dell’ente pubblico titolare della partecipazione sociale”. Ne consegue che la società in house “non pare invece in grado di collocarsi come un’entità posta al di fuori dell’ente pubblico, il quale ne dispone come di una propria articolazione interna”. Essa “non è altro che una longa manus della pubblica amministrazione, al punto che l’affidamento pubblico mediante in house contract neppure consente veramente di configurare un rapporto contrattuale intersoggettivo (….); di talché l’ente in house non può ritenersi terzo rispetto all’amministrazione controllante ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell’amministrazione stessa”. Da qui la conclusione netta: “il velo che normalmente nasconde il socio dietro la società è dunque squarciato: la distinzione tra socio (pubblico) e società (in house) non si realizza più in termini di alterità soggettiva”, con configurabilità soltanto di un patrimonio separato nell’ambito di un’unica persona giuridica pubblica (Cass. civ., S.U., 25 novembre 2013, n. 26283; 10 marzo 2014, n. 5491; 26 marzo 2014, n. 7177; 9 luglio 2014, n. 15594; 24 ottobre 2014, n. 22609; 24 marzo 2015, n. 5848; Cons. St., Ad. plen., 3 marzo 2008, n. 1). Un secondo orientamento, seguito dalla prevalente dottrina, ha rilevato, invece, come la società in house debba considerarsi una vera e propria società di natura privata dotata di una sua autonoma soggettività giuridica. L’art. 2331, comma 1, c.c. prevede che con l’iscrizione nel registro delle imprese «la società acquista personalità giuridica». Sussiste, pertanto, anche l’esigenza di tutelare i terzi e i creditori che, instaurando rapporti con la società, lo fanno sul presupposto che essa abbia una propria autonoma soggettività. In questa prospettiva, la ricostruzione della Cassazione viene criticata e in ogni caso circoscritta, alla luce di alcune affermazioni contenute nella stessa sentenza, soltanto al tema del riparto di giurisdizione. Va rilevato, altresì, che il d.lgs. n. 175 del 2016, T.U. in materia di società a partecipazione pubblica – applicabile ratione materiae, dato che il concorso è stato bandito dall’I.N.P.S. in data 27 aprile 2018 – conferma che la risposta fornita dall’Amministrazione come corretta, non può essere considerata tale in assoluto. Il T.U. ha, infatti, ricondotto la disciplina delle società a partecipazione pubblica all’ordinario regime civilistico (art. 1, comma 3, T.U.) ed ha precisato che le società in house sono regolate dalla medesima disciplina che regolamenta, in generale, le società partecipate, ad eccezione, quanto alle prime, della giurisdizione della Corte dei Conti per il danno erariale causato dai loro amministratori e dipendenti (Cass. civ., S.U., 1° dicembre 2016, n. 24591). Quanto, infine, al tema della partecipazione dei privati alla società in house – richiamato dall’appellante a sostegno delle proprie tesi – risultano necessarie alcune precisazioni.

Con la direttiva 2014/24/UE, è stata ammessa una forma di partecipazione di capitali privati all’in house, sussistendone due connessi presupposti. Il primo è che le partecipazioni siano “prescritte dalle disposizioni legislative nazionali”. Il secondo è che deve trattarsi di “forme di partecipazione di capitali che non comportano controllo o potere di veto” e che “non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata”. In attuazione di tale direttiva, l’art. 5, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 50 del 2016, ha ammesso la possibilità di forme di partecipazioni private, purché previste dalla legislazione nazionale. L’art. 16, comma 1, d.lgs. n. 175 del 2016, considera ammessa una partecipazione al capitale sociale dei privati a condizione che la stessa sia prescritta da una disposizione di legge nazionale. La differenza semantica tre le due disposizioni nazionali (previste-prescritta) ha fatto ritenere che non occorra che la partecipazione sia “prescritta” ma è sufficiente che sia consentita. Tali considerazioni – che pure hanno un qualche fondamento – non considerano, però, il dato positivo, peraltro conseguente ad una fonte (il Testo unico sulle società a partecipazione pubblica) che si pone quale equiordinata alla precedente (Codice dei contratti) ma prevalente in quanto lex posterior. D’altro canto l’espressione “prescritta” è esattamente quella contenuta nella direttiva comunitaria. Dunque, secondo l’interpretazione data da questo Giudice, la norma in esame non ha inteso autorizzare in generale la partecipazione dei privati ma ha rinviato alle specifiche disposizioni di legge che le “prevedono”. Tale forma di rinvio deve però essere fatto a disposizioni di legge che “prescrivono” e dunque impongono la partecipazione e non anche a quelle che genericamente “prevedono” la partecipazione. La prescrizione deve attuarsi mediante una chiara esplicitazione delle ragioni che giustificano la partecipazione di privati nella compagine societaria (Cons. St., comm. spec., n. 438 del 16 marzo 2016; id., sez. I, 7 maggio 2019, n. 1389).

In sintesi, da ciò si ricava che l’art. 5, d.lgs. n. 50 del 2016, è una formulazione che rimanda ad una successiva norma di legge che espressamente prescriva la partecipazione dei privati alla società in house e, soprattutto, che ne stabilisca le modalità di partecipazione e di scelta del socio. Tale norma pone una previsione di carattere generale e, dunque, nell’ordinamento interno, fino a quando non ci sarà una legge che attui tale previsione, deve ritenersi preclusa ai privati la partecipazione alla società in house dato che, diversamente opinando, non sapremmo né in che percentuale possano partecipare, né come debbano essere scelti. Questo è ciò che porta a distinguere le società in house dalle società miste, per le quali è disciplinata una partecipazione mista di capitale pubblico-privato. Alla luce delle considerazioni suddette, il Collegio ritiene che possa considerarsi corretta sia la risposta data dall’appellante, sia quella indicata dall’Amministrazione. E, infatti, non è erroneo sostenere che la società in house è sempre pubblica. I recenti sviluppi normativi non hanno impedito, alla prevalente giurisprudenza, di continuare ad equiparare la società in house ad un “ufficio interno” dell’ente pubblico che l’ha costituita e, dunque, di escludere un rapporto di alterità sostanziale tra l’ente e la società. La configurazione delle società in house alla stregua di articolazioni interne alla P.A. giustifica che l’attività dell’ente e dei suoi organi non sia riconducibile ad un soggetto privato dotato di una autonoma soggettività ma resti sostanzialmente imputata alla P.A. medesima. Non è, altresì, erroneo sostenere che la società in house non abbia un organo amministrativo autonomo. Infatti, chi sostiene la natura pubblica della società in house ritiene, altresì, che i vincoli gerarchici cui sono assoggettati gli organi della società nei confronti dell’Amministrazione di riferimento impediscono che questi siano investiti di un mero munus privato, rendendo invece configurabile un vero rapporto di servizio. (v. da ultimo, Cons. St., sez. I, 7 maggio 2019, n. 1389, Cass. civ. S.U., 27 dicembre 2019, n. 34471; id. 11 settembre 2019, n. 22712; 21 giugno 2019, n. 16741).

L’ambiguità delle risposte in questione comporta che la riposta data al quiz n. 35 non può essere considerata erronea. Infine, il quesito n. 53 reca la domanda: “quale delle seguenti affermazioni inerenti al periodo di prova è corretta? a) compiuto il periodo di prova, l’assunzione diviene definitiva e il servizio prestato si computa nell’anzianità del prestatore di lavoro (indicata come opzione corretta dall’I.N.P.S.); b) la facoltà di recesso dal contratto di prova può avvenire in qualunque momento anche prima del termine stabilito dal contratto (indicata come risposta corretta dal dottor Fiorella); c) l’assunzione del prestatore di lavoro per un periodo di prova può avvenire anche in forma orale; d) durante il periodo di prova solo il prestatore di lavoro ha diritto al recesso”. Non è dubbio che la risposta corretta sia quella indicata dall’Amministrazione, e cioè che l’assunzione diventa definitiva e il periodo svolto in prova si computa agli effetti dell’anzianità acquista dal dipendente. La risposta indicata dall’appellante, infatti, non risponde sempre al vero. L’art. 2096 cod. civ., che disciplina l’assunzione in prova, prevede all’ultimo comma che “Compiuto il periodo di prova, l’assunzione diviene definitiva e il servizio prestato si computa nell’anzianità del prestatore di lavoro”. Al terzo comma, invece, prevede sì quanto indicato dal dottor Fiorella come risposta corretta, e cioè che “Durante il periodo di prova ciascuna delle parti può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o d’indennità” ma all’ultimo alinea individua una deroga a detta possibilità, disponendo che “Se però la prova è stabilita per un tempo minimo necessario, la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del termine”. Dunque la risposta indicata come corretta dal dottor Fiorella poteva realmente considerarsi tale solo se la domanda fosse stata posta nel senso che “nel caso in cui la prova sia stabilita per un tempo minimo necessario, quale delle seguenti affermazioni inerenti al periodo di prova sarebbe corretta”. Non essendo stata anteposta la precisazione relativa al tempo minimo del periodo di prova, la risposta esatta non poteva che essere quella indicata alla lettera a) (compiuto il periodo di prova, l’assunzione diviene definitiva e il servizio prestato si computa nell’anzianità del prestatore di lavoro).

3. L’accoglimento della sola censura rivolta avverso la valutazione della risposta data al quiz n. 35 comporta l’attribuzione di altri 0,5 punti che, sommati ai 20 punti ottenuti (di cui 19,5 riconosciuti dalla Commissione e 0,5 ottenuti per effetto della sentenza del Tar Lazio, sez. III-quater, n. 1090 del 29 gennaio 2019, che ha ritenuto corretta la risposta data al quesito n. 40), porta ad un totale di 20,5 punti, che non farebbe comunque superare all’appellante la c.d. prova di resistenza perché non raggiungerebbe il minimo richiesto di 21/30 punti. Ne consegue l’improcedibilità dell’appello incidentale, il cui esame è stato dichiaratamente condizionato dall’I.N.P.S. all’ipotesi in cui l’eventuale accoglimento dei motivi di appello principale consentisse al dottor Fiorella di conseguire i 21 punti necessari, secondo il bando, per essere ammesso alla prova orale. 4. Infine, non è suscettibile di positiva valutazione neanche il motivo dell’appello principale dedotto avverso il capo della sentenza che ha condannato il ricorrente alla rifusione delle spese e degli onorari del giudizio. Il Tar ha infatti seguito il principio che pone i criteri della soccombenza e della compensazione in rapporto di regola ed eccezione, confinando, peraltro, l’ammissione di una deroga al principio generale solo entro gli stretti margini di ulteriori fattispecie contraddistinte dai predicati della “gravità” e della “eccezionalità”; ogni eccezione al principio della soccombenza, ancorché non riconducibile alle fattispecie tipiche indicate dal legislatore, può trovare ingresso sempreché adeguatamente ‘esternata’ in motivazione, in modo che si comprendano l’iter logico-giuridico e/o le valutazioni (di fatto ed eventualmente di sostanziale equità) su cui essa si fonda, e queste ultime vengano svolte con argomentazioni coerenti con le coordinate normative soprarichiamate (Cons. St., sez. III, 3 ottobre 2019, n. 6661). Il Tar ha ritenuto che nella specie non fossero configurabili ragioni per derogare al principio della soccombenza, conclusione non sindacabile dal giudice di secondo grado. La statuizione sulle spese da parte del giudice di primo grado è espressione dell’ampio potere discrezionale di cui è fornito, sindacabile in secondo grado solo in caso di manifesta e diretta violazione dei criteri fissati da norme di legge tale da configurare gli estremi di una decisione aberrante, quale quella che ponga le spese a carico della parte vincitrice (Cons. St., sez. III, 7 ottobre 2019, n. 6767; id. 29 gennaio 2018, n. 608). La decisione in ordine alla condanna alle spese di giudizio, presa dal Tar Lazio, non è certo aberrante. 5. Per le ragioni sopra esposte l’appello principale deve essere respinto mentre quello incidentale condizionato è improcedibile. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello principale, come in epigrafe proposto, lo respinge; dichiara improcedibile l’appello incidentale condizionato. Condanna l'appellante al pagamento, in favore del costituito l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale – I.N.P.S., delle spese del presente grado di giudizio, che si liquidano in € 1.500,00 (euro millecinquecento/00). Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 gennaio 2020.

 

 

 

Guida alla lettura

La sentenza in commento affronta un duplice tema che ruota intorno al modello organizzativo in house providing[1]:

  1. quello della natura giuridica delle società in house e dell’autonomia dei propri organi;
  2. quello della partecipazione dei privati in società in house.

Per quanto attiene al primo dei citati temi, come noto, molto si è discusso sulla natura delle società in house che assumono veste esterna di società di diritto privato per poi perseguire un fine pubblicistico e il relativo dibattito, che riproduce ed esaspera quello da tempo in atto sulle società a partecipazione pubblica[2], si è centrato soprattutto sulla compatibilità fra il c.d. controllo “analogo” e il diritto societario[3]

Nell’ambito di tale quadro che fa da sfondo alla quaestio iuris sollevata dalla pronuncia in analisi, la Sezione Terza prende le mosse dagli indirizzi giurisprudenziali e dottrinali formatesi nel corso degli ultimi anni e ben compendiati nel parere 16 marzo 2016 n. 438 reso dalla Commissione speciale del Consiglio di Stato.

Un primo indirizzo, seguito dalla prevalente giurisprudenza della Corte di Cassazione, opina nel senso che la società in house non sia un vero e proprio soggetto giuridico stante il difetto del requisito dell’alterità soggettiva rispetto all’Amministrazione Pubblica[4].

In specie, si è rilevato che “ciò che davvero è difficile conciliare con la configurazione della società di capitali, intesa quale persona giuridica autonoma e distinta dai soggetti che in essa agiscono e per il cui tramite essa stessa agisce, è la totale assenza di un potere decisionale suo proprio, in conseguenza del totale assoggettamento dei suoi organi al potere gerarchico dell’ente pubblico titolare della partecipazione sociale”.

Con la conseguenza che la società in housenon pare invece in grado di collocarsi come un’entità posta al di fuori dell’ente pubblico, il quale ne dispone come di una propria articolazione interna[5]. Essa “non è altro che una longa manus della pubblica amministrazione, al punto che l’affidamento pubblico mediante in house contract neppure consente veramente di configurare un rapporto contrattuale intersoggettivo (....)[6]; di talché l’ente in house non può ritenersi terzo rispetto all’amministrazione controllante ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell’amministrazione stessa”.

Di qui la conclusione che “il velo che normalmente nasconde il socio dietro la società è dunque squarciato: la distinzione tra socio (pubblico) e società (in house) non si realizza più in termini di alterità soggettiva”, con configurabilità soltanto di un patrimonio separato nell’ambito di un’unica persona giuridica pubblica[7].

Di tal che l’uso del vocabolo “società” serve solo a indicare che, “ove manchino più specifiche disposizioni di segno contrario, il paradigma organizzativo va desunto dal modello societario”.[8]

Un secondo indirizzo, seguito dalla prevalente dottrina, ha rilevato che la società in house debba considerarsi una vera e propria società di natura privata dotata di una propria autonoma soggettività giuridica[9].

L’art. 2331, comma 1 c.c. prevede che con l’iscrizione nel registro delle imprese “la società acquista personalità giuridica”. Sussiste dunque anche l’esigenza di tutela dei terzi e dei creditori che instaurano rapporti con la società sul presupposto che essa abbia una propria autonoma soggettività. In questa prospettiva la ricostruzione elaborata dalla Suprema Corte di Cassazione è criticata e in ogni caso circoscritta, alla luce di talune affermazioni contenute nella stessa sentenza, soltanto al tema del riparto di giurisdizione.

Va altresì evidenziato che il d.lgs. n. 175 d.lgs. 2016, recante il Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica, applicabile ratione materiae alla vicenda de qua, ha ricondotto la disciplina delle società a partecipazione pubblica all’ordinario regime civilistico (art. 1, comma 3, T.U.) e ha precisato che le società in house sono regolate dalla medesima disciplina che regolamenta in generale le società partecipate ad eccezione quanto alle prime del profilo relativo al danno erariale causato dai loro amministratori e dipendenti[10], soggetto alla giurisdizione della Corte dei Conti ai sensi dell’art. 12, comma 1[11].

Rammentati gli approdi ermeneutici cui dottrina e giurisprudenza sono pervenute in subiecta materia, il Consiglio di Stato conclude che la natura giuridica della società in house sia “sempre” pubblica.

Del resto, i recenti sviluppi normativi non hanno impedito alla prevalente giurisprudenza di continuare a equiparare la società in house a un “ufficio interno” dell’ente pubblico che l’ha costituita, una sorta di longa manus e, dunque, di escludere un rapporto di alterità sostanziale fra l’ente e la società. La configurazione delle società in house quali articolazioni interne alla P.A., quasi si trattasse di una mera prosecuzione della stessa Amministrazione, spiega la non riconducibilità dell’attività dell’ente e dei suoi organi a un soggetto privato dotato di una autonoma soggettività ma la sostanziale imputazione alla Amministrazione medesima[12].

Inoltre, la società in house non ha un organo amministrativo autonomo. Invero, chi opina nel senso della natura giuridica pubblica della società in house ritiene anche che i vincoli gerarchici cui gli organi della società sono assoggettati nei confronti dell’Amministrazione di riferimento impediscano di considerarli, al pari degli altri amministratori delle società a partecipazione pubblica, investiti di un mero munus privato, inerente a un rapporto di natura negoziale instaurato con la società, rendendo invece configurabile un vero e proprio rapporto di servizio, così come accade per gli altri dirigenti preposti ai servizi erogati direttamente dall’ente pubblico[13].

Per quanto concerne la seconda questione sottesa alla pronuncia in commento relativa alla partecipazione dei privati alla società in house il Consiglio di Stato compie talune precisazioni[14].

Muove a tal fine dal rilievo secondo cui con la direttiva 2014/24/UE è stata ammessa una forma di partecipazione di capitali privati in società in house ove sussistano due connessi presupposti. Il primo, consistente nel fatto che le partecipazioni siano “prescritte dalle disposizioni legislative nazionali”. Il secondo, rappresentato dal fatto che si tratti di “forme di partecipazione di capitali che non comportano controllo o potere di veto” e che “non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata”.

In attuazione di tale direttiva l’art. 5, comma 1, lett. c) del d.lgs. n. 50/2016 ha previsto che nella persona giuridica controllata non vi debba essere “alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati le quali non comportano controllo o potere di veto previste dalla legislazione nazionale, in conformità dei trattati, che non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata”.

Successivamente l’art. 16, comma 1 del d.lgs. n. 175/2016 ha stabilito che “le società in house ricevono affidamenti diretti di contratti pubblici dalle amministrazioni che esercitano su di esse il controllo analogo o da ciascuna delle amministrazioni che esercitano su di esse il controllo analogo congiunto solo se non vi sia partecipazione di capitali privati, ad eccezione di quella prescritta da norme di legge e che avvenga in forme che non comportino controllo o potere di veto, né l’esercizio di un’influenza determinante sulla società controllata”.

Al riguardo non può non evidenziarsi che, mentre il Codice dei contratti pubblici ha ammesso la possibilità di forme di partecipazioni private purché “previste” dalla legislazione nazionale, il Testo Unico sulle società a partecipazione pubblica ha considerato consentita una partecipazione al capitale sociale da parte dei privati a condizione che la stessa sia “prescritta” da una disposizione di legge nazionale.

Ebbene, la differenza semantica fra le due disposizioni nazionali – “previste” e “prescritta” – ha indotto a ritenere che non occorra che la partecipazione di privati al capitale della persona giuridica controllata sia “prescritta” essendo sufficiente sia consentita. E ciò in quanto la partecipazione di soggetti privati al capitale di un ente societario, in ossequio all’autonomia che li connnota, può essere prevista ma non può essere imposta da una norma di legge nel nostro ordinamento[15].

Come già rilevato in altre occasioni il Consiglio di Stato osserva che tali considerazioni, se pure non prive di un qualche fondamento, non tengono in alcuna considerazione il dato positivo, peraltro conseguente a una fonte – il Testo unico sulle società a partecipazione pubblica – che si pone quale equiordinata alla precedente – il Codice dei contratti – ma prevalente siccome lex posterior.

D’altro canto l’espressione “prescritta” è esattamente quella contenuta nella direttiva europea.

Occorre quindi che a livello interno la partecipazione sia “prescritta” e non meramente consentita, atteso che la direttiva usa il termine “prescritte” e non semplicemente “previste”; i considerando n. 32 della direttiva appalti e n. 46 della direttiva concessioni espressamente affermano la necessità di una partecipazione non facoltativa ma obbligatoria in ragione di valutazioni effettuate dal legislatore interno; anche l’analisi comparativo-linguistica della direttiva, fondamentale ai fini dell’indagine del suo significato letterale, conferma il significato forte dell’impiego del termine “prescritta”[16].

A tali esiti del resto è giunto anche questo Consiglio dapprima con il parere reso dalla Commissione Speciale 21 marzo 2016 n. 968 poi successivamente con altre pronunce emesse in tema secondo cui la norma europea “non ha inteso autorizzare in generale la partecipazione dei privati ma ha rinviato alle specifiche disposizioni di legge che le “prevedono”. Tale forma di rinvio deve però essere fatto a disposizioni di legge che “prescrivono” e dunque impongono la partecipazione e non anche a quelle che genericamente “prevedono” la partecipazione. La prescrizione deve attuarsi mediante una chiara esplicitazione delle ragioni che giustificano l’apertura della compagine societaria all’ingresso di privati[17].

Muovendo da siffatte considerazioni, nella pronuncia in commento il Consiglio di Stato conclude nel senso che l’art. 5 del d.lgs. n. 50/2016 rimanda a una successiva norma di legge che espressamente prescriva la partecipazione dei privati a società in house e, in specie, ne indichi anche la misura della partecipazione, le modalità di ingresso del socio privato, il ruolo all’interno della società e i rapporti con il socio pubblico.

Tale norma pone una previsione di carattere generale e, dunque, fino a quando non intervenga nell’ordinamento interno una legge attuativa della medesima, diversa dagli artt. 5 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 e 16 del d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175,  deve ritenersi preclusa ai privati l’apertura della società in house, atteso che diversamente opinando non sapremmo né in quale percentuale i privati possano partecipare né come debbano essere selezionati. Il che, peraltro, consente di distinguere le società in house dalle società miste, per le quali la partecipazione mista di capitale pubblico-privato ha una sua disciplina[18].

Alla luce delle sueposte argomentazioni il Consiglio di Stato, riconducendo a unità i dubbi ermeneutici sottoposti alla sua attenzione e le soluzioni per essi proposte siccome afferenti il più ampio tema della natura giuridica, ritiene opportuno fornire una soluzione ermeneutica per così dire “unica”, affermando che affatto erroneo è considerare la società in housesempre” pubblica.

 

[1]F. Caringella, L’affidamento in house, in R. Garofoli, M.A. Sandulli (a cura di), Il nuovo diritto degli appalti pubblici, Milano, 2005, 255 ss.; R. Cavallo Perin – D. Casalini, L’in house providing: un'impresa dimezzata, in Dir. amm., 1, 2006, p. 51. Cfr. E. Codazzi, Rassegna di giurisprudenza - Società in house providing, in Giur. Comm., fasc. 5, 2016, 953

[2]Invero, si è discusso molto e a lungo sulla natura pubblica o privata delle società a partecipazione pubblica prima dell’emanazione del d.lgs. n. 175 del 2016. Il dibattito, che C. Ibba, Forma societaria e diritto pubblico, in Riv. dir. civ., 2010, I, 365 giudicava “per certi versi perfino stucchevole”, è ora efficacemente riassunto in V. Donativi, Le società a partecipazione pubblica, Milano, 2016, 11 ss.. Per un panorama attuale cfr. Gi. Rossi, Le società partecipate fra diritto privato e diritto pubblico, in S. Fortunato - F. Vessia (a cura di), Le “nuove” società partecipate e in house providing, Milano, 2017, 39, che sottolinea la persistente disomogeneità fra le società partecipate.

[3]A. Pisani Massamormile, A proposito di alcune trasformazioni “anomale”, in Riv. delle Società, fasc. 5, 1 dicembre 2017, 929.

[4]In dottrina, in particolare M. Renna, Le società per azioni in mano pubblica. Il caso delle Spa derivanti dalla trasformazione di enti pubblici economici ed aziende autonome dello Stato, Torino, 1997; G. Rossi, Gli enti pubblici, Bologna, 1991 ove l’Autore fa riferimento a una ormai avvenuta neutralizzazione dell’istituto societario; G. Gruner, Enti pubblici a struttura di S.p.A.: contributo allo studio delle società “legali” in mano pubblica di rilievo nazionale, Torino, 2009.

[5]Le società in house sono state equiparate a vere e proprie articolazioni della Pubblica Amministrazione e considerate pienamente sottoposte alla disciplina pubblicistica essendo interamente partecipate dal socio pubblico in forza anche delle definizioni elaborate dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia. Il riferimento è naturalmente alla sentenza Teckal del 18 novembre 1999, in causa C-107/98, successivamente recepita nelle Direttiva 2014/24/UE, sugli appalti pubblici nei settori ordinari, Direttiva 2014/25/UE, sulle procedure d’appalto nei settori speciali, e Direttiva 2014/23/UE, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, che ne hanno individuato i requisiti essenziali. In tema si veda A. Caprara, “In house providing” e mercato: rette parallele o incroci pericolosi?, in A.G.E., 2015, 2, 515 ss.; A. Bartolini, La società in house perde il corporate veil: un ritorno all’organo impresa, in Giur. it., 2014, 1995 ss.; G. Meo, Istituzione, contratto e società in house, in Giust. civ. comm., 2014, 2; M. Libertini, Le società di autoproduzione in mano pubblica: controllo analogo, destinazione prevalente dell'attività e autonomia statutaria, in www.federalismi.it.

 

[6]Cfr. Corte cost., 20 marzo 2013, n. 46.

[7]Cons. Stato, Ad. Plen., 3 marzo 2008, n. 1; Cass. civ., S.U., 25 novembre 2013, n. 26283; 10 marzo 2014, n. 5491; 26 marzo 2014, n. 7177; 9 luglio 2014, n. 15594; 24 ottobre 2014, n. 22609; 24 marzo 2015, n. 5848.

[8]Cass. civ., S.U., 25 novembre 2013, n. 26283.

[9]Si veda ex multis G. Guarino, Enti pubblici strumentali, sistema delle partecipazioni statali, enti regionali, in Scritti di diritto pubblico dell’economia, Milano, 1962, 31; N. Irti, L’ordine giuridico del mercato, Roma, 2003; F. Goisis, Contributo allo studio delle società in mano pubblica, Milano, 2004; Id., Il problema della natura e lucratività delle società in mano pubblica alla luce dei più recenti sviluppi dell'ordinamento nazionale ed europeo, in Dir. Ec., 2013, 41 ss.. In giurisprudenza da ultimo cfr. da ultimo T.A.R. Campania, Napoli, Sez. III, 4 dicembre 2019, n. 5696.

[10]Cass. civ., S.U., 1 dicembre 2016, n. 24591, ove si afferma che “i recenti sviluppi normativi (d.l. n. 95 del 2012 e d.lgs. n. 175 del 2016) affermano la natura privatistica delle società a partecipazione pubblica, anche in house, e impongono la giurisdizione ordinaria”. Da ultimo Cass. civ., S.U., 28 giugno 2018, n. 17188; Cass. civ., S.U., 13 settembre 2018, n. 22406, che afferma il principio di diritto secondo cui “In tema di società in house, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario per le azioni civili in caso di responsabilità dei componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società partecipate; si configura, invece, la giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato da amministratori e dipendenti delle società in house. A ribadire la regola di riparto di giurisdizione sono le Sezioni unite, che ricordano come a decidere sia il giudice ordinario, salvo l’ipotesi di concorso con la giurisdizione contabile, tutte le volte in cui emerge un danno erariale”.

[11]Il disposto normativo richiama senza dubbio i precedenti giurisprudenziali tra cui in primis la nota pronuncia Cass. civ., S.U., 25 novembre 2013, n. 26283 che, pur affermando il principio della giurisdizione civile rispetto ad azioni di responsabilità per danni recati al socio pubblico, sottrae alla stessa l’agire degli amministratori di società in house. La suddetta pronuncia è stata confermata da Cass. civ., S.U., 16 dicembre 2013, n. 27993 e da Cass. civ., S.U., 9 luglio 2014, n. 15594 nonchè recentemente da Cass. civ., S.U., 13 aprile 2016, n. 7293, da Cass. civ., S.U., 18 gennaio 2017, n. 1091 e, nello stesso anno, da Corte Conti, Sez. II Giur. Centr. D’Appello, 9 febbraio 2017, n. 76. In dottrina si veda V. Donativi, Le società a partecipazione pubblica. Raccolta sistematica della disciplina, commentata e annotata con la giurisprudenza, Wolters Kluwer, 2016, 857, secondo cui “si può confermare che funzione e significato dell’art. 12 siano proprio quelli di conferire veste normativa espressa al sistema del doppio binario, incentrato sulla differenziazione dei regimi di responsabilità (ordinaria ed erariale) applicabili alle società di diritto comune e, rispettivamente, alle società in house”; N. Michieli, La responsabilità degli amministratori di società partecipate da un socio pubblico, in Giur. Comm., fasc. 5, 1 ottobre 2018, 892.

[12]T.A.R. Toscana, Firenze, Sez. I, 14 dicembre 2017, n. 1566; Cons. Stato, Sez. I, 26 giugno 2018, n. 1645; Cons. Stato, Sez. I, 8 novembre 2018, n. 2583; Cons. Stato, Sez. I, 21 marzo 2019, n. 883; Cons. Stato, Sez. I, 7 maggio 2019, n. 1389; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. III, 2 settembre 2019, n. 4430; T.A.R. Veneto, Venezia, Sez. I, 4 novembre 2019, n. 1186; T.A.R. Veneto, Venezia, Sez. I, 4 febbraio 2020, n. 132; Cons. Stato, Sez. V, 7 febbraio 2020, n. 964

[14]Cfr. D.U. Galetta, G. Carullo, Gestione dei servizi pubblici locali e in house providing: novità, auspici e scenari futuri in una prospettiva di de-frammentazione del sistema,  in Riv. It. di Dir. Pubbl. Com., fasc.1, 2016, 371

[15]Quanto al dibattito formatosi nell’ambito della giurisprudenza interna sul punto, si segnala che mentre la sentenza Cons. Stato, Sez. II, 30 gennaio 2015, n. 298 mostra implicitamente di ritenere che la direttiva di per sé autorizzi l’in house purchè la partecipazione di capitale privato in società pubbliche sia riconosciuta quale meramente “possibile” dall’ordinamento interno ovvero sia consentita in determinate ipotesi, la pronuncia della Sezione VI, 26 maggio 2015, n. 2660 – “caso CINECA” – afferma che la partecipazione debba essere “prescritta”.  In questo secondo senso vedi anche Cons. Stato, Sez. V, 11 settembre 2015, n. 4253.

[16]Corte dei Conti, Sez. controllo Campania, Delibera 29 aprile 2016 n. 108.

[17]Cons. Stato, Comm. Spec., n. 438 del 16 marzo 2016; Sez. I, 7 maggio 2019, n. 1389.

[18]Sul distinguo tra società in house e società a partecipazione mista si veda ex multis, G. Piperata, (nt. 9), 151 ss.; M. Dugato, Le società a partecipazione mista per la gestione dei servizi pubblici locali. Il procedimento di costituzione, l’affidamento dei lavori e la relazione tra ente socio e società, in M. Dugato-F. Mastragostino (a cura di), Partecipazioni, beni e servizi pubblici tra dismissioni e gestione, Bologna, 2014, p. 213; R.A. Tassone, La società in house e la sua complessa disciplina, in M. Dugato, F. Mastragostino (a cura di), Partecipazioni, beni e servizi pubblici tra dismissioni e gestione, Bononia University Press, Bologna, 229 ss.