Relazione al Convegno su “I contratti pubblici: la difficile stabilizzazione delle regole e la dinamica degli interessi”, organizzato dall'Università degli Studi di Ferrara l’8 novembre 2019.

  1. Considerazioni generali.

Nel diritto dei contratti pubblici, le fonti di produzione si caratterizzano per la loro pluralità, oltre che per il fatto di rivestire efficacia differenziata e di collocarsi a vari livelli dell’ordinamento[1].

Nella scala gerarchica, il principale punto di riferimento è rappresentato dalle direttive n. 2014/23/UE, sui contratti di concessione, n. 2014/24/UE, sugli appalti pubblici e n. 2014/25/UE, sugli appalti nei settori speciali dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali.

Al medesimo rango assurgono le sentenze della Corte di Giustizia, qualificate fonti interpretative delle direttive, vincolanti per tutti i Paesi membri dell’Unione.

A livello nazionale, la normativa primaria è attualmente compendiata nel decreto legislativo n. 50/2016, c.d. codice dei contratti pubblici, che ha recepito le direttive europee, sulla scorta dei criteri contenuti nella legge delega n. 11/2016.

Molto limitati sono gli spazi d’intervento riconosciuti al legislatore regionale, trattandosi di settore appartenente alla materia della concorrenza, costituzionalmente riservata alla competenza statale[2].

Pertanto, «al fine di evitare che siano vanificate le competenze delle Regioni», a queste è consentito produrre solamente norme giuridiche con «effetti pro-concorrenziali», purché questi ultimi siano comunque «indiretti e marginali e non si pongano in contrasto con gli obiettivi posti dalle norme statali che tutelano e promuovono la concorrenza»[3].

In tale prospettiva, le Regioni sono «legittimate a regolare, da un lato, quelle fasi procedimentali che afferiscono a materie di propria competenza; dall’altro, i singoli settori oggetto della predetta procedura e rientranti anch’essi in ambiti materiali di pertinenza regionale»[4].

A livello normativo secondario, la principale fonte è costituita dal D.P.R. n. 207/2010, un regolamento attuativo del precedente codice, ancora parzialmente in vigore ai sensi dell’art. 216 del nuovo codice, fino all’emanazione di una serie di decreti ministeriali e di linee guida Anac.

Il nuovo codice dei contratti pubblici si ispira, infatti, ad un modello di regolamentazione flessibile, che si realizza mediante un particolare sistema di soft law, costituito, per l’appunto, da linee guida Anac e decreti ministeriali che, lungi dal collocarsi al di sotto delle fonti classiche del diritto, quale attività meramente attuativa od interpretativa di queste, costituisce sovente un vero e proprio strumento innovativo dell’ordinamento, che si viene a comporre da un’eterogeneità di atti regolativi, i quali s’intersecano e si soprappongono, sia per efficacia materiale che per efficacia intertemporale, ponendo seri problemi di coordinamento e d’individuazione dell’esatto precetto[5].

Di certo, la ragion d’essere del soft law, ed in specie delle linee guida Anac, va ricercata nella sua duttilità, quale mezzo di regolazione facilmente adattabile alle mutevoli esigenze del mercato.

Purtuttavia, sotto il profilo dell’inquadramento sistematico, non si è mancato di rimarcare che «se si assume come punto di riferimento la loro vincolatività, è difficile negare che esse non finiscano per rivestire carattere normativo, ma risultino, al tempo stesso, prive di un sicuro fondamento legislativo, sia perché si muovono del tutto al di fuori della disciplina dell’art. 17 della legge n. 400/88, sia perché la delega ed il decreto legislativo che ne consente l’adozione si esprime in termini assolutamente generici, con la conseguenza che lo stesso principio di legalità sembra largamente violato»[6].

D’altro canto, anche i pareri del Consiglio di Stato segnalano l’esistenza di un «gap democratico» nell’adozione delle linee guida vincolanti, che può essere colmato mediante il rispetto di determinate formalità, quali la preventiva consultazione pubblica, l’analisi e la verifica di impatto della regolazione, l’acquisizione del parere preventivo del Consiglio di Stato e la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale[7].

Cosicché, da ultimo, si è registrato un cambio di rotta, con l’entrata in vigore del d.l. n. 32/2019, che ha ridimensionato il sistema delle linee guida, stabilendo che taluni ambiti della materia dei contratti pubblici, già da queste regolati, siano affidati ad appositi regolamenti che, una volta emanati, sostituiranno le linee guida esistenti.

 

  1. Il gold plating.

Il divieto di gold plating, contenuto in vari atti d’indirizzo dell’Unione europea[8], impone agli Stati membri di non introdurre livelli di regolazione superiori a quelli minimi ovvero oneri non direttamente contemplati dalle direttive europee da recepire, oltre che di non aggravare gli oneri da queste contemplati, ove non sia assolutamente necessario.

In tal modo, nell’ordinamento nazionale, il divieto opera come parametro di legalità europea sia per le fonti del diritto, sia per i provvedimenti amministrativi.

La tecnica opposta al gold plating è il copy-out, che consiste nel riprodurre la direttiva alla lettera[9], come è stato fatto nel recepimento delle direttive sugli appalti da parte del Regno Unito, pur con qualche necessaria aggiunta.

In Italia, il divieto di gold plating è stato introdotto dall’art. 14, comma 24-bis, 24-ter e 24-quater, della legge n. 246/2005, aggiunti dall’art. 14, comma 2, della legge n. 183/2010, secondo cui:

- «gli atti di recepimento di direttive comunitarie non possono prevedere l’introduzione o il mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive stesse»;

- «costituiscono livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive comunitarie: a) l’introduzione o il mantenimento di requisiti, standard, obblighi e oneri non strettamente necessari per l’attuazione delle direttive; b) l’estensione dell’ambito soggettivo o oggettivo di applicazione delle regole rispetto a quanto previsto dalle direttive, ove comporti maggiori oneri amministrativi per i destinatari; c) l’introduzione o il mantenimento di sanzioni, procedure o meccanismi operativi più gravosi o complessi di quelli strettamente necessari per l’attuazione delle direttive»;

- «l’amministrazione dà conto delle circostanze eccezionali, valutate nell’analisi d’impatto della regolamentazione, in relazione alle quali si rende necessario il superamento del livello minimo di regolazione comunitaria. Per gli atti normativi non sottoposti ad AIR, le amministrazioni utilizzano comunque, i metodi di analisi definiti dalle direttive di cui al comma 6 del presente articolo».

Il precetto è stato poi traslato nella materia specifica dei contratti pubblici, dall’art. 1, lettera a), della legge delega n. 11/2016, che reca il «divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive, come definiti dall’art. 14, commi 24-ter e 24-quater, della legge 28 novembre 2005 n. 246».

Tuttavia, nonostante la formidabile leva offerta dal divieto di gold plating, azionabile, almeno in astratto, per dare soddisfazione alle ripetute e condivise istanze di sburocratizzazione e semplificazione del sistema dei contratti pubblici, il novero e l’impatto delle sentenze amministrative al riguardo sono, in concreto, molto modesti.

Dall’analisi delle poche decisioni esistenti, si ricava come in due casi la censura riguardante il gold plating non sia stata neppure affrontata.

Per quanto attiene all’art. 80, comma 5, che estende al concorrente le cause di esclusione del subappaltatore – aggravando la direttiva la quale, viceversa, permette la sostituzione del secondo anche in corso di gara –, la questione è stata superata sul rilievo che, trattandosi di controversia per appalto sotto-soglia, le disposizioni europee non trovano diretta applicazione[10].

Con riferimento all’impugnativa delle linee guida Anac n. 11/2018, la doglianza sui maggiori oneri posti a carico dei distributori di energia elettrica è rimasta assorbita dalla dichiarata non lesività dell’atto che, non essendo vincolante, è inidoneo a fissare regole di carattere prescrittivo[11].

In quattro arresti, il gold plating è stato escluso, non rinvenendosi, nella disciplina data, la presenza di oneri ulteriori rispetto alle direttive (in un caso) o ravvisandosi la giustificabilità degli stessi (in tre casi).

Così si è ritenuto che la clausola di bando che dispone l’esclusione, dal sistema dinamico di acquisizione, dell’operatore che non aggiorni costantemente ed in via automatica la propria posizione, non aggravi gli oneri di cui all’art. 55, comma 10 (secondo cui l’aggiornamento avviene su richiesta dall’amministrazione), poiché il privato è in condizione di conoscere nell’immediatezza le variazioni che lo riguardano[12].

L’art. 80, comma 4, ultimo periodo, che esclude dalla procedura selettiva i soggetti che abbiano sanato l’irregolarità contributiva dopo lo scadere del termine di presentazione delle domande, è stato qualificato come misura essenziale al mantenimento di un livello minimo di garanzia, a tutela di primari valori giuridici[13].

L’obbligo di dichiarare le opere da subappaltare ed il rispetto del limite massimo del 30%, di cui all’art. 105, è stato interpreto, in conformità ai princìpi di tassatività delle cause di esclusione e di divieto di gold plating, nel senso che esso non consente l’esclusione dalla gara (anche) per l’omessa indicazione della categoria dei lavori subappaltati e della loro incidenza percentuale sull’importo complessivo del contratto[14].

L’art. 177, che fa obbligo ai concessionari autostradali di affidare il 60% dei contratti con procedura ad evidenza pubblica, è stato giustificato come rimedio necessario al vulnus al principio europeo di concorrenza, causato dalla gestione della concessione con affidamenti diretti[15].

In aggiunta alla precedente casistica, la dottrina ha segnalato, come forme di gold plating: l’esistenza di una (pur minima) competenza legislativa regionale in tema di contratti pubblici, che «va in senso contrario alla semplificazione» dei livelli normativi[16]; l’estensione delle regole degli appalti comunitari agli appalti sotto soglia – quando invece «l’unico parametro vincolante, come noto, è costituito dalla libertà di stabilimento onde evitare discriminazioni indirette sul versante della nazionalità» – e la previsione della quota massima del 30% per i subappalti[17].

Per altro, quest’ultima disposizione, inserita dall’art. 105 del codice, è stata recentemente dichiarata non conforme al diritto europeo, e dunque disapplicabile da parte del giudice nazionale, poiché restringe una facoltà generalmente prevista dalla direttiva, con modalità giudicate eccessive rispetto a quanto necessario per il raggiungimento dell’obiettivo, pur legittimo, perseguito dal legislatore interno, ovverosia il contrasto al fenomeno dell’infiltrazione della criminalità organizzata nel settore degli appalti pubblici[18].

Appare evidente come l’indicata decisione possa senz’altro collocarsi nella tematica generale del divieto di gold plating, stante la sostanziale equivalenza tra il restringere una facoltà e l’aggravare un onere, in sede di recepimento di una direttiva.

Ancora senza esito è rimasta, infine, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 192, comma 2[19], sollevata in relazione all’art. 76 Cost., nella parte in cui si prevede che la stazione appaltante debba dare conto, nella motivazione del provvedimento di affidamento in house, «delle ragioni del mancato ricorso al mercato», quale onere amministrativo ulteriore e più gravoso rispetto a quelli strettamente necessari per l’attuazione dell’art. 12, § 3, V considerando, della direttiva n. 2014/24/UE[20].

Ciò nondimeno, la riserva che rimane sullo sfondo è se il giudice di prime cure, una volta qualificata la pratica come gold plating, non fosse in realtà obbligato a disapplicare la norma interna[21], in applicazione del principio di effettività, in base al quale «spetta al giudice nazionale conferire alla legge nazionale che è chiamato ad applicare un’interpretazione per quanto possibile conforme ai precetti del diritto comunitario … Se una tale applicazione conforme non è possibile, il giudice nazionale ha l’obbligo di applicare integralmente il diritto comunitario e di tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli, eventualmente disapplicando ogni disposizione nazionale la cui applicazione, date le circostanze della fattispecie, condurrebbe ad un risultato contrario al diritto comunitario»[22].

D’altronde, su analoghe questioni, con tre successive ordinanze[23], il Consiglio di Stato, pur senza menzionare il divieto di gold plating, ma applicandolo nella sostanza, ha devoluto alla CGUE il quesito se sia compatibile con il diritto europeo la disciplina nazionale che subordini «gli affidamenti in house a condizioni aggravate ed a motivazioni rafforzate rispetto alle altre modalità di affidamento»[24].

 

  1. L’efficacia scriminante delle linee guida.

Date per premesse le considerazioni dianzi espresse, occorre osservare come, sotto il profilo dell’efficacia materiale, secondo le previsioni della legge[25], le linee guida si distinguano in:

- linee guida oggetto di approvazione ministeriale, che assumono forma e valore di regolamento e, pertanto, non creano problemi di catalogazione tra le fonti di produzione;

- linee guida vincolanti, le quali, lungi dal costituire atti normativi extra ordinem, rappresentano strumenti di “regolamentazione flessibile”, collocabili nella categoria degli atti di regolazione delle autorità indipendenti, di talché, stante la loro natura provvedimentale, l’eventuale atto amministrativo difforme non è viziato da violazione di legge[26];

- linee guida non vincolanti, che rivestono funzione interpretativa e descrittiva del sistema[27];

- linee guida a contenuto complesso, ossia in parte vincolanti ed in parte non vincolanti.

Non ergendosi a fonti del diritto, appare preclusa la possibilità di disapplicazione, in sede di giudizio amministrativo di legittimità, delle linee guida vincolanti contrarie alle legge e (a maggior ragione) di quelle non vincolanti.

Al contrario, la disapplicazione va ritenuta praticabile, quanto alle linee guida in contrasto col diritto europeo, in forza dei princìpi di “primazia” ed “effettività” di quest’ultimo[28].

Nondimeno, pur confutando la sussumibilità delle linee guida tra le fonti del diritto, parte della giurisprudenza ha, nel tempo, attribuito ad esse un’efficacia giuridica, per così dire, eversiva del sistema delle fonti del diritto: l’efficacia, cioè, di ingenerare un legittimo affidamento circa la correttezza della condotta tenuta in conformità a linee guida, anche non vincolanti, pur quando queste risultino illegittime.

E’ questo uno dei più problematici ed anomali precipitati dell’innesto del soft law nell’ordinamento vigente.

Un caso paradigmatico si è verificato intorno all’applicazione dell’art. 80, comma 5, lett. c), del codice dei contratti pubblici, in riferimento agli illeciti professionali sanzionati del Garante per la concorrenza.

Nelle linee guida non vincolanti n. 6/2016, al § 2.2.3.1, l’Anac ha interpretato la disposizione in parola, nella formulazione anteriore alla modifica di cui al d.l. 14 dicembre 2018 n. 135, nel senso che l’obbligo dichiarativo si manifesti solo in presenza di sanzioni antitrust esecutive (perché non impugnate, o perché il giudizio amministrativo si è concluso sfavorevolmente) e non nell’ipotesi di contenzioso pendente[29].

Senonché, con l’aggiornamento delle linee guida di cui alla deliberazione n. 1008 dell’11 ottobre 2017, l’Anac ha rivisto la propria opinione, affermando che l’obbligo opera anche per le sanzioni non esecutive.

A ciò ha fatto seguito il d.l. n. 135/2018 che, rimodulando la norma, ha soppresso l’inciso «non contestata in giudizio, ovvero confermata all’esito di un giudizio».

Ora, la prima perplessità che il revirement suscita riguarda il fatto che esso è tacciabile di gold plating, nella misura in cui aggrava gli oneri stabiliti dall’art. 45, § 2, comma 1, lett. d), della direttiva n. 2004/18/CE, come individuati dalla CGUE, la quale ha dichiarato incompatibile l’art. 38 del vecchio codice dei contratti pubblici, interpretato nel senso di escludere dall’ambito di applicazione dell’errore grave le violazioni in materia di concorrenza, accertate e sanzionate dall’autorità nazionale garante della concorrenza, «con un provvedimento confermato da un organo giurisdizionale»[30].

Se, dunque, l’obiettivo della direttiva è quello di far dipendere l’errore grave espulsivo dall’esistenza di sanzioni antitrust confermate in sede giudiziaria, la facoltà per la stazione appaltante di procedere all’esclusione dalla gara anche per sanzioni sub judice – o addirittura l’obbligo di escludere, in caso di omessa dichiarazione di queste ultime –, stabilita dal nuovo codice, appare senza dubbio un aggravamento dei meccanismi partecipativi, a tutto discapito dell’operatore economico.

La vicenda descritta assume però un rilievo ben maggiore, in un’ottica di ricostruzione del valore giuridico delle linee guida.

Due recenti arresti giurisdizionali formatisi proprio sulla questione esaminata hanno sostanzialmente ritenuto che il principio cardine dell’inescusabilità dell’ignorantia legis trovi deroga, laddove il comportamento illegittimo del privato sia conforme a linee guida, trattandosi di autorevoli fonti interpretative/conoscitive dell’ordinamento.

Pertanto, in forza dell’affidamento generato dalle linee guida, sono state ritenute non sanzionabili talune condotte del concorrente, sebbene tenute in violazione della legge.

Nella prima decisione[31] si è argomentato, con un obiter dictum, che la regola di bando impeditiva dell’esclusione del concorrente per omessa dichiarazione di sanzioni non esecutive – fondata sulla primigenia versione delle linee guida n. 6/2016 – non è, di per sé, né irragionevole (perché conforme al generale principio di massima partecipazione), né nulla (come sarebbe stata, se avesse introdotto una fattispecie espulsiva, fuori dei casi tassativamente indicati dalla legge[32]).

Nella seconda[33], valorizzando l’affidamento riposto dal concorrente sul quadro normativo delineato nella formulazione della legge al tempo vigente, come chiarita dalle linee guida al tempo applicabili, si è negato che la dichiarazione di sanzioni non esecutive costituisse un obbligo all’epoca esigibile.

Ma non è tutto, perché, sempre in ragione del legittimo affidamento suscitato nel privato, la giurisprudenza ha ritenuto scusabile anche la condotta, contraria alla legge, tenuta dall’operatore nel periodo in cui non siano ancora state adottate linee guida obbligatorie.

Infatti, in due episodi litigiosi è stata considerata legittima la mancata esclusione del concorrente che, prima della pubblicazione delle linee guida Anac n. 6/2016, abbia omesso di dichiarare gravi illeciti professionali (nella fattispecie: la pregressa applicazione di penali contrattuali), quale condotta scusabile «alla luce delle condizioni di incompletezza del quadro regolatorio del tempo in cui la dichiarazione sostitutiva è stata resa»[34].

In conclusione, appare conseguenziale ritenere che – in un contesto in cui, a determinate condizioni, si riconosce efficacia esimente vuoi alle linee guida, vuoi alla loro mancanza –, per chi ricorra avverso il provvedimento amministrativo conforme a linee guida illegittime, a nulla vale la contestuale impugnazione di queste ultime come atto presupposto, in quanto il loro eventuale annullamento non sarebbe idoneo a far cadere anche l’incolpevole affidamento dell’avversario sulla legittimità del comportamento tenuto, che è uno stato soggettivo, rilevante persino nelle ipotesi di illiceità penale della condotta[35].

 

[1] CHITI, Il sistema delle fonti nella nuova disciplina dei contratti pubblici, in Giorn. dir. amm., 2016, 436.

[2] C. cost. n. 401/2007 e n. 345/2004: «la disciplina delle procedure di gara e in particolare la regolamentazione della qualificazione e selezione dei concorrenti, delle procedure di affidamento e dei criteri di aggiudicazione mirano a garantire che le medesime si svolgano nel rispetto delle regole concorrenziali e dei princìpi comunitari della libera circolazione delle merci, della libera prestazione dei servizi, della libertà di stabilimento, nonché dei princìpi costituzionali di trasparenza e parità di trattamento. Esse, in quanto volte a consentire la piena apertura del mercato nel settore degli appalti, sono dunque riconducibili all’àmbito della tutela della concorrenza ex art. 117, comma 2, lett. e), della Costituzione, di esclusiva competenza del legislatore statale».

[3] C. cost. n. 431/2007.

[4] C. cost. n. 160/2009.

[5] CINTIOLI, Il sindacato del giudice amministrativo sulle linee guida di Anac, in Dir. Proc. Amm., 2017, 381; DE NICTOLIS, Il codice dei contratti pubblici, la semplificazione che verrà, in www.giustizia-amministrativa.it; DEODATO, Le linee guida dell’Anac: una nuova fonte del diritto?, in www.giustizia-amministrativa.it; MORBIDELLI, Linee guida dell’Anac: comandi o consigli?, in Dir. amm., 2016, 273.

[6] SERGES, Crisi della rappresentanza parlamentare e moltiplicazione delle fonti, in Osservatorio sulle fonti, 2017.

[7] CdS n. 855/2016 e n. 1273/2016 (pareri).

[8] A partire dalla raccomandazione della Commissione europea SEC/2004/0918, sul recepimento delle direttive che incidono sul mercato interno, che, al § 6, esorta gli Stati membri a non aggiungere, negli atti nazionali di recepimento, condizioni e prescrizioni supplementari a quelle necessarie, quando tali condizioni e prescrizioni siano atte ad ostacolare il raggiungimento degli obiettivi perseguiti dalla direttiva.

[9] MANTINI, La semplificazione nei nuovi appalti pubblici, tra divieto di gold plating e copy out, in cameraamministrativaromana.it.

[10] Tar Liguria n. 928/2018.

[11] Tar Lazio n. 8386/2019.

[12] CdS n. 3908/2019.

[13] Tar Lazio n. 11173/2017.

[14] Tar Sardegna n. 928/2018.

[15] Tar Lazio n. 8678/2019.

[16] CORRADINO-MALINCONICO, I contratti pubblici (op. coll.), Assago (Wolters Kluwer), 2017, 37.

[17] MANTINI, op. cit.

[18] CGUE, 26 settembre 2019, in c. 63/18, Vitali.

[19] Tar Liguria n. 886/2018 (ord.).

[20] Il V considerando affranca dall’evidenza pubblica gli appalti affidati in house, al ricorrere di tre condizioni: a) che l’amministrazione aggiudicatrice eserciti sull’affidatario un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi; b) che l’affidatario effettui più dell’80% delle sue attività nello svolgimento di compiti affidatigli dall’amministrazione aggiudicatrice o da altre persone giuridiche da questa controllate; c) che non vi sia alcuna partecipazione diretta di capitali privati nell’affidatario, ad eccezione di forme di partecipazione non comportanti controllo o potere di veto, prescritte dalla legislazione nazionale in conformità dei trattati e comunque tali da non esercitare un’influenza determinante sull’ente partecipato.

[21] A partire da CGUE 9 marzo 1978, in c. 106/77, Simmenthal.

[22] CGUE 27 febbraio 2003, in c. 327/00, Santex, sull’obbligo di disapplicazione, da parte del giudice nazionale, della norma del processo amministrativo che commina la decadenza del ricorso, proposto fuori termine, avverso un bando di gara.

[23] CdS n. 138/2019 (ord.), n. 293/2019 (ord.) e n. 296/2019 (ord.).

[24] Si tenga conto che l’art. 267, § 3, del TFUE impone ai giudici nazionali di ultima istanza (e non, quindi, a quelli di primo grado) di rivolgersi alla CGUE, qualora dinanzi a loro venga sollevata una questione pregiudiziale di validità o di interpretazione.

[25] CdS n. 855/2016 e n. 1767/2016 (pareri).

[26] TAR Salerno n. 110/2018.

[27] CdS n. 6026/2018 e n. 7270/2019.

[28] NERI, Note minime sulla disapplicazione delle linee guida Anac da parte del giudice amministrativo e sulla rilevanza penale della loro violazione, in Osservatorioappalti.unitnit.

[29] Si riporta il testo della disposizione per tempo vigente: «Le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d’appalto un operatore economico in una delle seguenti situazioni, anche riferita a un suo subappaltatore nei casi di cui all’art. 105, comma 6, qualora: … la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l’operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità. Tra questi rientrano: le significative carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio, ovvero confermata all’esito di un giudizio, ovvero hanno dato luogo ad una condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni; il tentativo di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate ai fini di proprio vantaggio; il fornire, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione ovvero l’omettere le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione».

[30] CGUE 4 giugno 2019, in c. 425/18, C.N.S.

[31] CdS n. 2917/2019.

[32] CdS, A.P., n. 9/2014.

[33] CdS n. 6096/2019.

[34] C.G.A. n. 575/2017 e n. 49/2019.

[35] C. cost. n. 364/1988, sull’ignoranza inevitabile come errore scusabile nel diritto penale.