Consiglio di Stato, SEZ. V - ordinanza 30 settembre 2019, n.6551

La sopravvenuta sentenza della Corte di Giustizia, che abbia pronunciato sulla medesima questione interpretativa, consente al giudice nazionale di ritirare la domanda di pronuncia pregiudiziale senza che ciò determini la violazione delle norme del regolamento di procedura della Corte di Giustizia e la lesione delle proprie competenze, dacché rimane nella valutazione della Corte decidere se pronunciarsi o meno relativamente al ritiro della domanda di pronuncia pregiudiziale.

Corte di Giustizia – ritiro della domanda di pronuncia pregiudiziale – ammissibilità - art 100, co. 1, Reg. proc. C.d.G n.25 del 2012 – art. 267 T.F.U.E. – art. 19 T.U.E. - art. 111 Cost.

  1. Il rinvio pregiudiziale rivolto alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea. Il rinvio pregiudiziale, previsto dagli artt. 19, paragrafo 3, lettera b), del Trattato sull'Unione europea e 267 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, è la procedura che consente ad una giurisdizione nazionale di interrogare la Corte di Giustizia dell’Unione Europea sull'interpretazione o sulla validità del diritto europeo nell’ambito di un contenzioso in cui tale giurisdizione viene richiamata.

Esso rappresenta un rinvio da giudice a giudice, con il quale, invero, quello nazionale chiede alla Corte di Giustizia di formulare un parere sull’interpretazione del diritto europeo per poter applicare la norma correttamente oppure di verificare la validità di un atto di diritto europeo.

Il giudice nazionale è tenuto ad interpretare ed applicare la norma comunitaria, che è fonte del diritto. Tuttavia, laddove sorgano questioni di conflitto con una norma interna, egli è tenuto a non applicare quest’ultima a quel caso specifico e, se vi siano dubbi sull'interpretazione della norma comunitaria, può sollevare la questione pregiudiziale sull'interpretazione della stessa davanti alla Corte di Giustizia.

Il rinvio pregiudiziale diviene un obbligo, volto ad evitare un consolidamento nella giurisprudenza di un'interpretazione che, non passata al vaglio della Corte di Giustizia, sia erronea, nell’ipotesi in cui il giudice in questione sia un giudice di ultima istanza.

Tale obbligo sorge per l’esigenza di garantire la centralizzazione dell’interpretazione del diritto dell’Unione Europea, ovvero di garantire l’uniforme applicazione del diritto europeo.

Il rinvio pregiudiziale non va ravvisato, quindi, come un ricorso contro un atto, ma come lo strumento più idoneo a favorire la cooperazione tra la giurisdizione nazionale e quella sovranazionale. Può essere richiesto da una delle parti della controversia, ma spetta sempre al giudice nazionale decidere di adire o meno la Corte di Giustizia, ragion per cui le parti rappresentano un mero impulso.

La funzione della Corte, nell’ambito del procedimento pregiudiziale, non è quella di formulare pareri su questioni generali, bensì di contribuire all’effettiva amministrazione della giustizia negli Stati membri, per cui rimane competente della domanda di pronuncia pregiudiziale fino a quando quest’ultima non venga ritirata.

Che vada riconosciuto il potere, in capo al giudice nazionale, di ritirare la domanda di pronuncia pregiudiziale già rimessa alla Corte di Giustizia, è lo stesso art. 100 del Regolamento di procedura della Corte di Giustizia (Reg. int. 25 settembre 2012) a stabilirlo. Ampiamente esaminata dalla Ordinanza in oggetto, infatti, la predetta norma testualmente stabilisce che “la Corte resta investita della domanda di pronuncia pregiudiziale fintantoché il giudice che ha adito la Corte non abbia ritirato la sua domanda”.

Spetta, pertanto, al giudice del rinvio rendere noto alla Corte qualsiasi incidente processuale che possa influire sul procedimento pregiudiziale dinanzi ad essa pendente e, in particolare, qualsiasi rinuncia agli atti, composizione amichevole della controversia o altro che comporti l’estinzione del procedimento principale.

La Corte, cioè, deve essere edotta dell’eventuale adozione di una decisione resa nell’ambito di un ricorso proposto contro la decisione di rinvio e delle sue conseguenze sulla domanda di pronuncia pregiudiziale.

Dall’analisi, dunque, si evince che nel concetto di incidenti processuali può ragionevolmente ricondursi la sopravvenuta sentenza della Corte di Giustizia risolutiva della questione pregiudiziale innanzi ad essa rimessa, dacché la pronuncia della medesima rende superata la necessità di dirimere il dubbio interpretativo sollevato dal giudice del rinvio e comporta, dunque, l’estinzione del giudizio principale.

In forza del principio di separazione delle competenze previsto dall’art. 267 T.F.U.E., infatti, l’avvio del dialogo tra il giudice nazionale e il giudice europeo attraverso il rinvio pregiudiziale spetta unicamente al giudice nazionale, nell’ipotesi in cui ritenga la questione interpretativa necessaria per emanare la sua decisione. Pertanto, non è irragionevole ritenere che egli stesso può porre fine a tale dialogo, laddove ritenga superato il dubbio interpretativo posto con la domanda pregiudiziale per ragioni sopravvenute e, dunque, non più necessaria la pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione europea ai fini della decisione.

 

  1. Il valore di precedente delle sentenze della Corte di giustizia.

La pronuncia della Corte di Giustizia si definisce pregiudiziale sia perché precede la sentenza del giudice nazionale sia perché è funzionale rispetto all’emanazione di quest’ultima.

L’efficacia delle pronunce pregiudiziali va esaminata sia in relazione al medesimo giudizio nel quale la questione è stata sollevata ed ai suoi eventuali gradi successivi sia rispetto tutti gli altri processi nazionali in cui trovi applicazione la normativa dell’Unione esaminata dalla Corte.

E’ pacifico come, all’interno del giudizio in cui è stata sollevata la questione, l’efficacia della decisione della Corte è vincolante, in maniera assoluta, per il giudice a quo ed in via mediata anche per le parti.

Ciò significa che il giudice del rinvio non può discostarsi dalla pronuncia della Corte di Giustizia né può contestare la validità della sentenza, ma può nuovamente adire la Corte per chiedere ulteriori chiarimenti, per sottoporle una nuova questione di diritto o nuovi elementi di valutazione capaci di indurla a risolvere diversamente una questione già sollevata.

Qualora la Corte ritenesse di dover risolvere ulteriori questioni rispetto a quelle prospettate dal giudice nazionale, l’efficacia vincolante non si estenderebbe necessariamente a tali ulteriori statuizioni, dal momento che le stesse potrebbero apparire al giudice interno non pertinenti per la soluzione della controversia concreta.

E’ fatta salda, infatti, l’esclusiva competenza di quest’ultimo a verificare, secondo il proprio apprezzamento, la rilevanza della questione per la soluzione della controversia di cui è adito. L’efficacia vincolante della decisione della Corte è assoluta nel suo dispositivo; lo stesso vale per la motivazione, mentre i cosiddetti obiter dicta assumono essenzialmente una rilevanza extraprocessuale.

Ciò sta a significare che, anche a livello extraprocessuale, vale a dire nei confronti di tutti gli altri processi in cui trovi applicazione la normativa dell’Unione esaminata dalla Corte, l’efficacia è vincolante. Gli altri giudici hanno l’obbligo di adeguarsi alla sentenza.

E’ riconosciuta, invero, una efficacia erga omnes delle sentenze pregiudiziali, che prevalgono sul diritto nazionale incompatibile; del resto, pronunciandosi le stesse su questioni di diritto, non può non riconoscersi la portata vincolante delle disposizioni così come interpretate dalla Corte e, di conseguenza, il fatto che tali sentenze e ordinanze producano effetti nei confronti di tutti.

Tale assunto, come detto, vale sia per il dispositivo sia per i cosiddetti obiter dicta, enunciati incidentalmente in una sentenza e prodromici alla risoluzione di eventuali questioni successive.

Circa le pronunce in tema di validità, l’interpretazione di un atto dell’Unione effettuata dalla Corte assume anch’essa la stessa efficacia vincolante della decisione finale, proprio perché a questa inscindibilmente correlata.

Tuttavia, nell’ipotesi di una declaratoria d’invalidità resa dalla Corte sulla base di una precisa interpretazione dell’atto, è da escludere che il giudice del rinvio possa applicare quell’atto sulla base di un’interpretazione differente da quella suggerita dalla Corte: diversamente, la decisione della stessa risulterebbe vanificata, lasciando spazi a possibili abusi.

Ne deriva, dunque, che una decisione di validità suffragata da una argomentazione interpretativa vincolerà il giudice del rinvio alla medesima interpretazione fornita dalla Corte. Qualora, poi, sempre in tema di validità, la pronuncia della Corte sia stata emessa con riferimento ad uno specifico parametro normativo, non deve escludersi per il giudice nazionale l’opportunità di sollevare in un secondo momento la questione in relazione ad un’altra norma non considerata precedentemente.

Per ciò che attiene agli effetti extraprocessuali, invece, è principio ormai consolidato che la sussistenza di un precedente della Corte fa cessare l’obbligo del rinvio in capo al giudice di ultima istanza, anche se è pacifico che egli conserva la facoltà di rimettere la questione al vaglio della Corte al fine di provocare il cosiddetto overruling di un precedente rispetto al quale nutra dei dubbi.

A tal proposito, è d’uopo avere presente che una efficacia erga omnes delle sentenze pregiudiziali, che prevalgono sul diritto nazionale incompatibile, è stata riconosciuta sia dalla Corte Costituzionale sia dalla Corte di Cassazione; del resto non può non riconoscersi l’efficacia vincolante delle disposizioni così come interpretate dalla Corte e, di conseguenza, il fatto che tali sentenze e ordinanze producano effetti erga omnes, stante la natura stessa delle predette rese in via pregiudiziale e la loro pronuncia su punti di diritto.

Gli aspetti vincolanti della pronuncia riguardano, come già ampiamente detto, non solo il dispositivo ma anche gli obiter dicta, che hanno la funzione di rendere manifesta l’efficacia extraprocessuale e di risolvere eventuali questioni in futuri giudizi nazionali. Tutto ciò vale sia per le questioni interpretative che di validità.

Le pronunce pregiudiziali hanno efficacia retroattiva, ex tunc, cioè chiariscono la portata e il significato della norma europea così come sarebbe dovuto essere sin dalla sua entrata in vigore.

Dunque, le stesse vanno applicate anche ai rapporti giuridici precedenti alla sentenza, ma va tuttavia precisato che, se lo ritiene opportuno per ragioni di tutela della certezza del diritto e dell’affidamento del giudice nazionale, la Corte ha il potere di limitare nel tempo gli effetti della pronuncia pregiudiziale. Tale limitazione deve essere indicata nella sentenza con la quale la Corte fornisce l’interpretazione richiesta o dichiara invalido l’atto contestato.

L’analisi sul valore di precedente delle sentenze della Corte di Giustizia comporta necessariamente un rimando – e al contempo un chiarimento - al concetto di legislazione giurisprudenziale dell’Unione Europea che negli anni si è sviluppato e radicato.

Va detto, invero, che le sentenze della Corte di Giustizia, almeno sulla base delle disposizioni dei Trattati, non costituiscono una fonte primaria né derivata di diritto nell’ordinamento europeo, ma l’attività giurisprudenziale della Corte, in materia di individuazione di principi divenuti principi generali dell’ordinamento europeo, rappresenta tuttavia una sorta di fonte di diritto o, per l’appunto, una legislazione giurisprudenziale, dacché con la medesima attività si è contribuito ad uniformare gli ordinamenti dei paesi membri in relazione al diritto sovranazionale.

Tra le fonti di diritto primario vanno considerati i Trattati, le Convenzioni, gli Accordi e gli Atti; tra quelle di natura subordinata o di diritto derivato si comprendono i Regolamenti, le Direttive e le Decisioni (atti vincolati), i Pareri e le Raccomandazioni (atti non vincolati).

Vi sono, poi, le cosiddette fonti complementari del diritto europeo nelle quali si riconducono la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea, il diritto internazionale da cui attinge la Corte di Giustizia nell’elaborare la sua giurisprudenza e i Principi generali del diritto, fonti non scritte frutto della giurisprudenza della Corte di Giustizia.

Di tali principi non v’è traccia nei Trattati e sono principi capaci di dare omogeneità ed unità al sistema, perché attraverso gli stessi la Corte di Giustizia è riuscita a colmare le lacune dell’ordinamento europeo.

Essi sono stati prevalentemente emessi, ai sensi dell’art. 267 TFUE, con sentenze pronunziate in sede di rinvio pregiudiziale, che rappresentano il maggior numero di provvedimenti della Corte di Giustizia.

Dunque, è evidente come i principi generali del diritto individuati dalla Corte, soprattutto nelle fattispecie formulate per sopperire alla carenze normative e, quindi, assicurare completezza all’ordinamento europeo, rappresentano uno strumento di particolare rilevanza giuridica per la capacità di penetrare negli ordinamenti nazionali come diritto complementare europeo derivante da una fonte non scritta, direttamente applicabile con effetti erga omnes in forza della portata vincolante delle stesse disposizioni interpretate, avendo una natura dichiarativa. Ma anche per la ragione che uno degli obiettivi fondamentali del rinvio pregiudiziale è quello di assicurare l’uniforme applicazione del diritto dell’Unione europea.

La decisione pregiudiziale ha portata vincolante per il giudice del rinvio e vincola anche le giurisdizioni di grado superiore chiamate a pronunciarsi sulla medesima causa.

Le Sentenze rese in ipotesi di rinvio pregiudiziale, invero, sono efficaci anche al di fuori del giudizio per il quale è stato richiesto l’intervento della Corte di Giustizia, perché interpretano il diritto dell’Unione sia per la finalità del rinvio pregiudiziale di cui si è detto sia per garantire l’uniforme applicazione del diritto dell’Unione Europea e tale garanzia può essere assicurata da una interpretazione della norma con effetti erga omnes.

Ecco perché, dunque, le Sentenze della Corte di Giustizia, al pari del diritto europeo, originario e derivato, trovano immediata applicazione negli ordinamenti degli Stati membri.

Del resto, non potrebbe essere diversamente dal momento che lo stesso Statuto della Corte di Giustizia europea, all’art. 23, riconosce agli Stati la possibilità di presentare le proprie osservazioni nelle cause pregiudiziali proprio per gli effetti che produrrà la sentenza una volta emessa.

I principi generali sono quindi fonti di diritto non scritto, norme che si impongono all’ordinamento con l’efficacia di precetti dell’ordinamento sovranazionale e che sono capaci di integrare le lacune normative e uniformare la legislazione degli Stati membri.

Nella moltitudine di principi elaborati dalla Corte, con una chiara matrice costituzionale propria degli stati membri, si distingue il principio della certezza del diritto, che in ambito europeo è stato interpretato relativamente alla trasparenza amministrativa e quindi alla chiarezza della normativa comunitaria, termini ragionevoli in sede giudiziaria ed amministrativa per l’emanazione di provvedimenti e, soprattutto, quale corollario dei principi del legittimo affidamento, della non retroattività delle norme penali, degli atti amministrativi  e normativi, della tutela dei diritti quesiti.

Ancora, tra gli altri fondamentali principi generali dell’ordinamento europeo di creazione giurisprudenziale, vi è il principio di legalità, che rappresenta uno dei cardini sul quale poggia l’intero sistema sanzionatorio in materia penale, mentre in ambito processuale e procedimentale, giudiziario, amministrativo e tributario, vi sono il  diritto al contraddittorio ed il diritto alla difesa, il diritto per la parte processuale di non testimoniare contro se stessa, il diritto alla riservatezza e la tutela del segreto professionale, il diritto ad un equo processo.

 

  1. Il giusto processo art. 111 Cost. La ratio del riconoscimento del potere, in capo al giudice del rinvio, di ritirare la domanda pregiudiziale per sopravvenuta sentenza della Corte di Giustizia, trova conforto nel principio di rango costituzionale del giusto processo.  

L'articolo 111 della Carta fondamentale, nella sua nuova formulazione, sancisce che giusto è il processo regolato dalla legge e che si svolge, entro un arco temporale ragionevole, nel contraddittorio tra le parti in condizioni di parità e davanti a un giudice terzo e imparziale.

Con l’espressione giusto processo, dunque, ci si riferisce all’insieme dei principi processuali che vengono affermati dalla nostra Costituzione.

Se da un lato è vero che il principio in esame è disciplinato propriamente dall’art. 111 della nostra Carta fondamentale, così come modificato dalla legge costituzionale nel 1999, dall’altro va rilevato che tale principio era già in precedenza parzialmente previsto dall’art. 24, in forza del quale ciascuno può agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi in qualsiasi stato e grado del procedimento.

L’art. 111 sottolinea l’importanza che assume nel contesto processuale il principio del contraddittorio, cioè la necessità che le parti, tra le quali è sorta la controversia, e che chiedono al giudice la risoluzione della medesima, possano interloquire fra di loro e con il giudice, prima che lo stesso emetta la sua decisione.

La norma in esame afferma con chiarezza l’importanza della terzietà e della imparzialità del giudice, cioè dell’esigenza che l’organo chiamato a decidere debba essere estraneo rispetto alle parti e soprattutto non avere interessi nella causa che è chiamato a risolvere.

Aggiunge ancora l’art. 111 la necessità della cosiddetta ragionevole durata del processo, che deve cioè essere limitata nel tempo.

In relazione a questa affermazione, val la pena sottolineare l’importanza dell’aggettivo ragionevole: l’esigenza che il legislatore costituzionale pone è quella di assicurare all’attività processuale una durata che sia compatibile con il rispetto delle altre garanzie costituzionali. Ed in questo senso va inteso il riferimento alla sua ragionevolezza.