Nota a margine di Consiglio di Stato, Sez. III, 26 gennaio 2017 n. 319.

Abstract

Nell’ipotesi in cui, conseguita l’aggiudicazione ovvero sottoscritto il contratto, l’operatore economico subisca una verifica negativa della “posizione antimafia” e proceda all’impugnativa degli esiti della stessa congiuntamente al provvedimento di autotutela amministrativa, si pongono alcune questioni di ordine processuale.

In passato, infatti, tale ipotesi ha animato il dibattito giurisprudenziale in ordine ad una questione sulla competenza territoriale, motivando l’intervento chiarificatore dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.

Attualmente, invece, il dibattito si concentra sulla questione relativa alla applicabilità o meno del c.d. “rito appalti”.

Nella specie, la pronuncia del Consiglio di Stato qui annotata, ha aderito alla tesi negativa, e pertanto ha escluso la ricorrenza delle condizioni per la dimidiazione dei termini di rito.

Al di là della condivisibilità o meno di tale conclusione, sono le alternative motivazioni, con le quali la Giurisprudenza ha sinora sostenuto l’una o l’altra delle possibili soluzioni, a motivare un tentativo di ricostruzione del cammino sinora compiuto.

Al fine di provare a recuperare, dalla trama dell’ordito giurisprudenziale, uno o più criteri utili nella selezione della disciplina processuale applicabile.

 

 

  1. Lo statuto della “posizione antimafia”.

In passato, la disciplina consentiva agli interpreti di distinguere tra:

1) informative ricognitive di cause di divieto di per sé interdittive, ai sensi dell' art. 4, comma 4, d. lgs. 8 agosto 1994 n. 490. Detta tipologia, nel sistema delineato dal d.P.R. 3 giugno 1998 n. 252 si identificava con "le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa", desunte dagli atti indicati nelle lett. a) e b) dell' art. 10, comma 7, d.P.R. n. 252 del 1998;

2) le informative, parimenti interdittive, riferite ad eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa, volte a condizionare le scelte delle società interessate, la cui efficacia discendeva non dal ricorrere di per sé di determinate cause di divieto, ma da una valutazione del Prefetto, desunta dagli accertamenti di cui alla lettera c) dell' art. 10, comma 7, d.P.R. n. 252/1998;

3) le informative supplementari o atipiche, fondate sull'accertamento di elementi che, pur denotando il pericolo di collegamenti tra l'impresa e la criminalità organizzata, non raggiungevano la soglia di gravità prevista dall'art. 4 d. lgs. n. 490/1994. In dette ipotesi, l'efficacia interdittiva non assumeva carattere automatico, bensì scaturiva da una valutazione autonoma e discrezionale dell'Amministrazione destinataria dell'informativa stessa ex art. 10, comma 9, d.P.R. n. 252/1998.

Dal punto di vista teleologico, la disciplina attualmente vigente, contenuta nel d. lgs. 6 settembre 2001 n. 159, cd. Codice dell’antimafia[1], con le modifiche successivamente occorse, si pone in linea di continuità con la previgente, entrambe tendendo ad assicurare la salvaguardia della libera concorrenza tra le imprese ed il buon andamento della pubblica amministrazione ed a consentire all’amministrazione di monitorare l’affidabilità e la moralità delle imprese per tutto il corso della procedura di aggiudicazione e dell’esecuzione del contratto affidato.

In particolare la giurisprudenza del Consiglio di Stato evidenzia la logica della suddetta normativa nell’anticipazione della: «soglia di difesa sociale ai fini di una tutela avanzata nel campo del contrasto della criminalità organizzata, in modo da prescindere dalle soglie di rilevanza probatorie tipiche del diritto penale, per cercare di cogliere l'affidabilità dell'impresa affidataria dei lavori, complessivamente intesa»[2].

L’ambito di applicazione dello strumento spazia quindi dall’obbligo - per il caso di superamento di determinate soglie contrattuali – alla facoltà dell’amministrazione, di documentarsi circa la prossimità dell’impresa a soggetti “in odore di mafia”. Con il conseguente obbligo per la stessa, in entrambe le situazioni considerate, di rispettarne le risultanze.

Di essa, uno degli aspetti più delicati, attiene all’efficacia temporale, tendenzialmente indeterminata nel tempo; salvo l’emergere di fatti nuovi di segno contrario.

L’art. 86, comma 2 del Codice, infatti, fissa un termine di 12 mesi che determina soltanto l’obbligo per le singole amministrazioni di richiedere nuovamente la documentazione antimafia, una volta trascorsi 12 mesi dalla precedente resa, al fine di verificare la permanenza dell’assenza del pericolo di infiltrazioni.

Sempre in punto di efficacia, l’informativa può comportare la restituzione delle erogazioni già percepite, salvo l’eccezionale discrezionalità prevista dall’art. 32, comma 10, d. l. 24 giugno 2014 n. 90, conv. con mod. dalla l. 11 agosto 2014 n. 114, che affida alla Prefettura l’autorizzazione al completamento dell’esecuzione del contratto e la continuità di funzioni e servizi indifferibili per la tutela di diritti fondamentali, o la salvaguardia dei livelli occupazionali o dell’integrità dei bilanci pubblici.

Dal lato soggettivo, la fonte di presidio affida alle Prefetture il ruolo di verificatore coadiuvato dalle sezioni territoriali della Direzione investigativa antimafia.

Mentre, dal lato passivo, il novero dei soggetti passibili di verifica della posizione antimafia, non conosce più alcuna limitazione.

Deve darsi conto, infatti, di un tendenziale superamento da parte della giurisprudenza, della rigida distinzione tra comunicazione ed informativa antimafia essendo stato recentemente affermato che: «nell’attuale sistema della documentazione antimafia la suddivisione tra l’ambito applicativo delle comunicazioni antimafia e delle informazioni antimafia, codificata dal d. lgs. n. 159/2011, mantiene la sua attualità – del resto ribadita nel codice stesso – se e nella misura in cui essa non si risolva nella impermeabilità dei dati posti a fondamento delle une con quelli posti a fondamento delle altre, soprattutto dopo l’istituzione, in attuazione dell’art. 2 della legge delega, della Banca dati nazionale unica, che consente di avere una cognizione ad ampio spettro e aggiornata della posizione antimafia di una impresa»[3].

La Giurisprudenza citata, infatti, parte dal presupposto che la l. 13 agosto 2010 n. 136, intitolata «Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia», aveva introdotto, nell’art. 2 che recava la specifica Delega al Governo per l’emanazione di nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, il comma 1, lett. c).

Tale fonte, nell’istituire la Banca dati nazionale unica della documentazione antimafia, ha di fatto stravolto la tradizionale bipartizione tra comunicazioni ed informative antimafia ponendo soprattutto riguardo al fatto che: «l’art. 2, comma 1, lett. c) – della l. n. 136/2010 – si riferisca a tutti i rapporti con la pubblica amministrazione, senza differenziare le autorizzazioni dalle concessioni e dai contratti, come fanno invece, ed espressamente, le lett. a) e b); dunque, la lettera c) si riferisce anche a quei rapporti … omissis … che, per quanto oggetto di mera autorizzazione, hanno un impatto fortissimo e potenzialmente devastante su beni e interessi pubblici».

Di fatti, a conferma dell’attualità di tale posizione ermeneutica,  soltanto qualche giorno prima della pubblicazione di questa pronuncia, il TAR Calabria aveva confermato l’assoggettabilità a verifica della posizione antimafia anche della persona fisica autorizzata al c.d. servizio pubblico da piazza (taxi)[4].

Evidente, quindi, l’amplissima incidenza pratica della normativa, della quale l’art. 94 del Codice ne disegna la portata effettiva al punto che, il mero “pericolo di infiltrazione mafiosa”, è in grado di precludere ogni rapporto con l’amministrazione all’impresa destinataria; con la conseguente revoca dell’aggiudicazione o, se la stipula è già intervenuta, risoluzione del contratto.

Per l’emanazione dell’interdittiva continua infatti ad essere sufficiente anche il solo “tentativo di infiltrazione” avente lo scopo di condizionare le scelte dell’impresa. Anche se tale scopo non dovesse essersi realizzato in concreto.

Il Codice antimafia, dal punto di vista oggettivo individua solo alcuni indicatori rimettendo in massima parte alla “discrezionalità tecnica”[5] del Prefetto la doverosa contestualizzazione delle risultanze dell’istruttoria nell’interdittiva.

Sotto questo profilo, la normativa potrebbe apparire carente, dal punto di vista strutturale, di una definizione per elenco, più o meno tassativo, delle singole ipotesi di legge che consentano l’adozione di una informativa prefettizia. Ma, si sa bene, l’apparenza sa celare l’inganno.

Trascendendo dalla forma, infatti, questa era l’unica strada percorribile dal legislatore dal momento che, per utilizzare la stessa terminologia del Consiglio di Stato: «gli elementi di inquinamento mafioso, ben lungi dal costituire un numero chiuso, assumono forme e caratteristiche diverse secondo i tempi, i luoghi e le persone e sfuggono ad un preciso inquadramento, in ragione dell’insidiosa pervasività e mutevolezza, anzitutto sul piano sociale, del fenomeno mafioso”[6].

L’elasticità del dato normativo a monte, ovviamente, implica a valle rigore di metodo ed elevata cautela nella manipolazione esegetica da parte del soggetto competente alla verifica della “posizione antimafia”.

Questo in ragione dell’ambivalente portata assiologica dello strumento che coinvolge sì interessi pubblici, tipici dell’attività di procurement, ma che non discrimina, altresì, gli interessi degli operatori economici.

 

  1. Le questioni relative all’impugnazione “non autonoma” dell’informativa antimafia.

Le informative prefettizie antimafia sono dunque ricondotte dalla giurisprudenza al genere degli: «atti caratterizzati da una logica di tipo anticipatorio a difesa dell'ordine pubblico che vogliono impedire il rischio di infiltrazioni mafiose quando esso si presenta a livello di mero pericolo»[7].

L’ipotesi della loro impugnazione, congiuntamente all’atto applicativo di autotutela con il quale l’amministrazione ne trasferisca gli effetti sul piano contrattuale in senso ampio, ha già animato il dibattito giurisprudenziale in ordine all’individuazione del tribunale amministrativo territorialmente competente.

Intervenuta in sede di regolamento di competenza, l’Adunanza Plenaria[8] ha ricondotto a sistema la questione valorizzando apertamente il criterio della sede inerente gli effetti “diretti” dell’atto, nel caso in cui tali effetti si dovessero esplicare in un luogo compreso nella circoscrizione territoriale di Tribunale amministrativo regionale diverso da quello territorialmente competente in relazione all’autorità che ha emesso l’atto impugnato.

Nel dettaglio, nel gruppo più recente di ordinanze rese, l’Adunanza Plenaria ha affermato la competenza del TAR ove aveva sede la stazione appaltante, in considerazione del fatto che, nonostante l’informativa antimafia fosse stata emessa dalla Prefettura di altra regione, essa era destinata ad esplicare i propri effetti diretti con riferimento all’ambito territoriale regionale nel quale aveva sede la stazione appaltante.

Ai fini dell’analisi che si sta compiendo sulla dimidiazione dei termini di rito, il contributo esegetico offerto dall’Adunanza emerge dallo stare decisis del gruppo di ordinanze del 2014 rispetto ai precedenti del 2012 e del 2013, ed in particolare laddove si afferma che l’informativa inibisce: «all’amministrazione destinataria delle informazioni, la stipulazione, l’approvazione o l’autorizzazione del contratto al pari del rilascio di concessioni e dell’autorizzazione di erogazioni - ovvero ancora, innesca - il dispiegarsi, da parte del medesimo ente, del potere discrezionale di revoca o recesso rispetto ai rapporti già in essere».

Essa, dunque, costituisce l’impulso esterno all’avvio del procedimento di autotutela, ed i provvedimenti adottati dall’amministrazione aggiudicatrice, in conseguenza di una informativa antimafia, risultano quindi connotati da un distintivo e non eliminabile elemento di necessità.

 

  1. La sentenza del Consiglio di Stato 26 gennaio 2017 n. 319.

La pronuncia qui annotata, premette che: «il termine per impugnare l’informativa antimafia – istituto di portata generale, “trasversale”, che non interseca, cioè, solo la materia dei pubblici appalti – è quello ordinario di 60 giorni e non quello dimezzato di 30 giorni, previsto dall’art. 120, comma 5, c.p.a.» ed afferma che, nella specifica ipotesi del recesso conseguente all’informativa: «non vengono impugnati, unitamente all’informativa antimafia, atti inerenti alla procedura di gara, di cui all’art. art. 119, comma 1, lett. a), c.p.a., per i quali sussiste l’interesse pubblico specifico alla sollecita definizione delle relative controversie, sotteso alla disposizione che dimezza i termini processuali»[9].

Dal punto di vista sistematico, il sillogismo argomentativo con il quale è stata motivata l’esclusione della dimidiazione dei termini di rito, riporta in premessa maggiore la disciplina degli artt. 119 e 120 c.p.a.

Di tale disciplina, il Collegio, ne afferma l’applicabilità soltanto in relazione al caso in cui venga in rilievo, e sia impugnato: «un atto riconducibile all’esercizio (o al mancato) esercizio del potere di scelta, da parte dell’Amministrazione, in una procedura di gara».

Successivamente, il Collegio specifica che il potere di recedere dal contratto: «in seguito all’emissione dell’informativa, è l’espressione di una speciale potestà amministrativa che compete alla stazione appaltante ai sensi dell’art. 92, comma 4, del d. lgs. n. 159/2011, anche nella fase esecutiva del contratto».

Per tale via, quindi, passa ad escludere che il potere di autotutela conseguente ad informativa antimafia sia espressione del generale potere “selettivo” attribuitole dall’ordinamento per la scelta del miglior contraente.

Cosi, e conclusivamente, la pronuncia stabilisce che la risoluzione del rapporto: «non costituisce propriamente l’oggetto o l’effetto di uno degli «atti delle procedure di affidamento», ma è il contenuto di un atto vincolato della stazione appaltante, la conseguenza necessitata, a valle, di una valutazione compiuta dal Prefetto, a monte, in ordine ad un requisito fondamentale richiesto dall’ordinamento per la partecipazione alle gare o, per dirla nei termini della citata sentenza Cons. St. n. 3247/ 2016, di una «indispensabile capacità giuridica»: l’impermeabilità mafiosa delle imprese concorrenti».

La sentenza in commento sembrerebbe quindi esprimere adesione all’impostazione offerta dall’Adunanza Plenaria nel 2014, citata nel paragrafo che precede, quanto meno sotto il profilo della natura vincolata del procedimento di autotutela che consegua alla ricezione dell’informativa.

Tuttavia, dei passi successivi compiuti nel percorso argomentativo della pronuncia, non può essere condivisa la censura in termini di errore dell’invocata dimidiazione dei termini di rito, motivata sul presupposto che l’informativa sarebbe: «un atto tipica espressione di una ampia discrezionalità nell’esercizio di tale funzione connessa alla tutela dell’ordine pubblico e alla prevenzione antimafia - nei confronti della quale sussisterebbe l’impossibilità di - ricondurla e relegarla alla sola materia delle procedure di gara, che del resto non ne esaurisce il ben più vasto raggio applicativo, e alla relativa disciplina processuale».

Il passo indicato, infatti, sembrerebbe palesare un insanabile contraddizione in termini con quanto affermato solo qualche riga prima.

Se dapprima è stato negato che il recesso conseguente ad informativa antimafia possa essere ricondotto alla categoria degli atti capaci di esprimere la potestas selettiva dell’amministrazione, come si potrebbe, successivamente, ammettere la capacita dell’informativa di incidere, negativamente, sul portfolio dei requisiti di partecipazione dell’operatore economico?

Inoltre, tale orientamento non può essere condiviso in quanto, nell’economia delle motivazioni, sembrerebbe offrire maggiore considerazione all’informativa antimafia considerata ex se, escludendone la forza di pilastro motivazionale del provvedimento di autotutela adottato dall’amministrazione aggiudicatrice, in conseguenza della stessa, ed anch’esso oggetto di impugnazione giudiziale.

 

  1. Le posizioni della giurisprudenza.

L’orientamento negativo enunciato dalla pronuncia in commento è contrapposto da quello secondo il quale, nell’ipotesi considerata, trovi applicazione proprio il rito speciale di cui agli artt. 119 e 120 c.p.a.[10]

I binari paralleli sui quali corrono tali opposti orientamenti possono essere agevolmente distinti attraverso:

A) il paragrafo 4.7 della sentenza qui annotata, laddove afferma testualmente che: «la soggezione alla disciplina degli artt. 119 e 120 c.p.a. in tanto si giustifica in quanto venga in rilievo, e sia impugnato, un atto riconducibile all’esercizio (o al mancato) esercizio del potere di scelta, da parte dell’Amministrazione, in una procedura di gara»;

B) la motivazione della sentenza del Consiglio di Stato n. 3247/2016, nella quale si sostiene invece che, se l’informativa antimafia interdittiva sopravvenga in corso di esecuzione di un contratto stipulato con la pubblica amministrazione, questa non costituirebbe: «una “sopravvenienza” impeditiva dell’ulteriore esecuzione del contratto stipulato, bensì l’accertamento dell’incapacità originaria del privato ad essere parte contrattuale della pubblica amministrazione – con la conseguente –  riconduzione del provvedimento così adottato agli atti che concernono l’affidamento dell’appalto (avvenuto in favore di un soggetto a ciò interdetto, e dunque in difetto dei presupposti necessari per essere destinatario dell’affidamento), con conseguente applicazione dell’art. 120 Cpa e dei termini dimidiati ivi previsti».

Da queste opposte posizioni, sembrerebbe quindi che il nodo gordiano sia stretto attorno al rapporto sostanziale, e non soltanto di ordine processuale, tra l’informativa e l’atto attraverso il quale l’amministrazione abbia comunicato all’operatore la revoca dell’aggiudicazione o il recesso del contratto in dipendenza della sopravvenuta perdita della capacità a partecipare alle procedure di procurement.

In giurisprudenza, infatti, si sono sinora avvicendati due differenti approcci alla questione.

Un primo orientamento, di ordine processuale, ha analizzato la questione sotto un profilo di connessione tra domande.

Tale approccio, che trova espressione in alcuni precedenti pronunciati anche nel previgente regime processuale, conduceva a sostenere che l'impugnativa di una informativa prefettizia, seppure qualificata espressamente come ricorso per motivi aggiunti nell'ambito di una controversia in materia di appalti, andava qualificata, sotto il profilo sistematico e processuale, come: «autonomo gravame avverso un atto di rilevanza pubblicistica per l'evidente ragione che la stessa viene adottata da un soggetto estraneo all'originario rapporto (l'Autorità prefettizia), cosicché l'attrazione nell'ambito del medesimo processo rinviene la sua giustificazione in evidenti ragioni di connessione oggettiva, nonché alla luce di palesi esigenze di concentrazione processuale (vedi Consiglio di Stato, VI, 17 luglio 2008, n. 3603) – con la conseguenza – che i termini per la impugnativa vanno calcolati sulla base della regola generale di cui all'art. 21 della l. TAR e quantificati in 60 giorni»[11].

Con il passaggio al codice del processo amministrativo tale impostazione progredisce al punto tale da sconfessare le proprie conclusioni iniziali.

Il principio contrario è infatti chiaramente enunciato nella sentenza n. 3999 del 4 luglio 2011 nella quale il Consiglio di Stato, pur distinguendo preliminarmente che: «il contenzioso relativo all’informativa prefettizia soggiace al rito ordinario[12]. Il contenzioso relativo alla indizione di nuova gara soggiace al rito abbreviato di cui all’art. 119 c.p.a.» dinanzi all’impugnazione congiunta dell’interdittiva e della revoca del decreto commissariale e la contestuale risoluzione del contratto di concessione, ha concluso per l’applicabilità della disciplina sancita nell’art. 32, co. 1, c.p.a.

La fonte appena citata, infatti, ammette il cumulo nello stesso giudizio di domande connesse con la precisazione che, se le azioni siano soggette a riti diversi, si applica il rito ordinario; fatto salvo quanto previsto dai Capi I e II del Titolo V del Libro IV.

Attraverso tale lineare argomentazione, quindi, quel precedente aveva offerto agli interpreti una interessante linea direttrice esegetica, di rigore ed ordine prettamente processuali, che dalla premessa distinzione dei riti applicabili per l’impugnazione dei singoli atti, autonomamente considerati, aveva ritenuto applicabile il rito “accellerato” di cui all’art. 119 c.p.a.[13].

Tale orientamento, tuttavia, non solo non ha maturato sufficiente adesione, ma non ha superato, nel confronto con il suo esatto opposto, la cedevolezza della relatività esegetica della vis actractiva.

Infatti, in una successiva analoga fattispecie, il TAR Calabria, Catanzaro, con la sentenza 21 agosto 2012, n. 863, ha ritenuto corretto accreditare l’esatto contrario, ed ovvero il determinarsi di una: «vis actractiva dell'intera vicenda nell'alveo della materia inerente la normativa antimafia – al punto tale da escluderne – la soggezione ai termini dimidiati previsti dall'allora vigente art. 23 bis della L. 6 dicembre 1971, n. 1034, oggi sostituito dall'art. 119 c.p.a.».

Dunque, per la soluzione della questione, non sembrerebbe percorribile una via di stretto rigore processuale; forse, anche in ragione del fatto che non è, da una ratio di ordine processuale o quanto meno esclusivamente tale, che possono estrapolarsi tutte le argomentazioni necessarie.

Il respiro della questione chiama infatti in causa argomenti e temi di più ampia portata, dal punto di vista sostanziale, che non possono essere estromessi dall’indagine.

Prova ne è il riferimento da parte del Consiglio di Stato nella sentenza n. 3247/2016, ad un quid pluris relativo all’efficacia attribuibile all’informativa prefettizia nel contesto della motivazione del provvedimento di autotutela adottato dall’amministrazione aggiudicatrice nel corso della procedura di aggiudicazione, e/o di esecuzione del contratto.

Tale problematica, e la sua specifica rilevanza dal punto di vista processuale, implicano  soffermarsi brevemente sulla portata semantica delle espressioni “provvedimenti concernenti le procedure di affidamento” e “atti delle procedure di affidamento” rispettivamente indicate rispettivamente negli artt. 119 e 120 c.p.a.

 

  1. L’ambito oggettivo di applicazione del “rito appalti” in relazione ai provvedimenti di autotutela.

In punto di ammissibilità, la giurisprudenza è stabile nel ritenere che: «in relazione alle procedure selettive per l'affidamento di lavori, servizi e forniture, l'amministrazione conserva il potere di annullare in autotutela il bando, le singole operazioni di gara e lo stesso provvedimento di aggiudicazione, ancorché definitivo, in presenza di gravi vizi dell'intera procedura»[14].

Inoltre, secondo tale orientamento, il potere di autotutela: «trova fondamento nei principi di legalità, imparzialità e buon andamento, ... in attuazione dei quali l'amministrazione deve adottare atti il più possibile rispondenti ai fini da conseguire, fermo l'obbligo nell'esercizio di tale delicato potere, anche in considerazione del legittimo affidamento eventualmente ingeneratosi nel privato, di rendere effettive le garanzie procedimentali, di fornire un'adeguata motivazione in ordine alle ragioni che giustificano la differente determinazione e di una ponderata valutazione degli interessi, pubblici e privati, in gioco»[15].

Passando agli aspetti processuali, non è certo questa la sede per un’approfondita disamina degli artt. 119 e 120 c.p.a., nei quali la dottrina ha intravisto un riassetto, con innovazioni: «della disciplina recata in precedenza dall’art. 23-bis, l. Tar e, dalle disposizioni che ad esso facevano rinvio»[16].

In particolare, quella stessa dottrina, valorizzando il profilo di discendenza genetica da esso, ed ancor prima dall’art.: «19, d.l. n. 67/1997 di cui a sua volta l’art. 23-bis citato era figlio»[17] ha evidenziato la condivisione del profilo teleologico in entrambe le versioni del rito appalti dal momento che: «sia nel rito 23-bis previgente che nell’attuale art. 119 c.p.a., quelle per cui è stato previsto il nuovo rito sono tutte materie connotate dall’urgenza a causa dei rilevanti interessi in gioco di carattere economico e politico»[18].

Ai fini dell’indagine che si sta compiendo, occorre quindi porre particolare attenzione al raggio di azione della disciplina processuale, al fine di verificare la comprensibilità, o meno, in esso delle possibili forme di manifestazione del potere di autotutela conseguenti ad una informativa prefettizia.

Per far ciò, possono ricorrere alcuni canoni ermeneutici profilati in sede di definizione del “perimetro normativo”[19] del rito accellerato da parte dell’Adunanza Plenaria nel 2016.

In particolare, in relazione all’art. 119 c.p.a., la dottrina aveva presto accreditato una interpretazione estensiva del dato letterale, al punto tale da ricomprendere: «tutti gli atti, anche privatistici, e comportamenti, nelle materie indicate, per i quali vi è giurisdizione del giudice amministrativo, sì da far coincidere ambito della giurisdizione (come delineata dall’art. 133 c.p.a.) e ambito del rito»[20].

L’Adunanza Plenaria, invece, soffermandosi sull’espressione “procedure di affidamento”, insita nell’art. 119, comma 1, lett. a), c.p.a., e partendo dalla natura eccezionale delle disposizioni esaminate, aveva posto in evidenza la: «attitudine delle norme oggetto di indagine a comprimere i diritti di difesa, riducendo i tempi per il loro valido esercizio – e, pertanto, aveva escluso - l’utilizzo di canoni interpretativi estensivi e analogici, ma anche teleologici – al fine di inibire il tentativo di una lettura della loro – portata precettiva come estesa ad ambiti non direttamente segnati dal significato letterale delle espressioni lessicali utilizzate, così come di ricavare, in esito a un’indagine che valorizzi la ratio della disposizione descrittiva, con valenza tassativa, delle controversie regolate dal rito speciale, effetti prescrittivi diversi da quelli direttamente riferibili al senso delle parole usate»[21].

Tuttavia, neppure l’Adunanza Plenaria, che dinanzi all’art. 119 c.p.a., aveva dichiarato: «non utilizzabile in via principale o esclusiva» il criterio ermeneutico finalistico, ha resistito alla tentazione di ricorrervi seppure a suffragio delle proprie conclusioni tratte in via di esegesi letterale, concludendo nel senso che la ratio del rito speciale in questione è: «agevolmente identificabile nell’esigenza della sollecita definizione dei giudizi aventi a oggetto provvedimenti amministrativi riferibili all’esercizio di funzioni pubbliche che implicano la cura di interessi generali particolarmente rilevanti (e che, come tali, non tollerano una prolungata situazione giudiziaria di incertezza)».

Passando invece all’esame dell’art. 120 c.p.a., la stessa dottrina aveva tempestivamente rilevato la: «validità di tutta la precedente elaborazione dottrinale e giurisprudenziale formatasi sull’art. 23-bis, lett. a), b) e c), l. Tar, perché nella sostanza la formulazione dell’art. 119 c. 1 e dell’art. 120, c. 1, c.p.a. vi corrispondono, salvo per quanto attiene alla circostanza che il rito dell’art. 23-bis, l. Tar, poteva applicarsi anche al contenzioso in fase di esecuzione dei contratti, se vi fosse la giurisdizione del g.a., mentre il rito dell’art. 119 non si può applicare a tale contenzioso»[22].

Sulla base di tali premesse occorre, quindi, verificare quale collocazione, in concreto, offra la giurisprudenza ai provvedimenti di autotutela adottati successivamente all’aggiudicazione del contratto, in ottemperanza di una informativa prefettizia antimafia ai fini della disciplina processuale applicabile.

In tale indagine, tuttavia, non è il discrimine, tra la fase di evidenza pubblica, diretta alla selezione del concorrente al quale aggiudicare il contratto e quella privatistica costituita dalla sottoscrizione del contratto aggiudicato, ad orientare l’interprete.

Infatti in relazione alle suddette “fasi”: «gli strumenti di autotutela pubblicistica, possono essere utilizzati anche dopo che il contratto sia stato stipulato»[23], dal momento che la ponderazione degli interessi in gioco, non pone limiti all’esercizio di tale potestas.

Con particolare riguardo alla specifica ipotesi dell’autotutela conseguente ad informativa prefettizia, tali assunti trovano pieno conforto nella giurisprudenza, in considerazione del fatto che: «tali mezzi di autotutela del contratto non hanno natura privatistica e negoziale, in quanto sono conseguenza diretta di un potere autoritativo di valutazione dei requisiti soggettivi del contraente – e – non trovano fondamento in inadempienze verificatesi nella fase di esecuzione del contratto, ma sono consequenziali all'informativa del Prefetto, sicché devono ritenersi espressione di un potere di valutazione di natura pubblicistica diretto a soddisfare l'esigenza di evitare la costituzione o il mantenimento di rapporti contrattuali con soggetti e imprese nei confronti dei quali emergono sospetti di collegamenti con la criminalità organizzata»[24].

Appare quindi evidente che, se i provvedimenti con i quali l’amministrazione aggiudicatrice eserciti i poteri di autotutela in presenza di una informativa prefettizia antimafia, possono essere così qualificati, la questione relativa alla applicabilità o meno del rito appalti non potrebbe essere risolta se non in senso affermativo.

A sostegno di ciò, potrebbero propendere: dal punto di vista funzionale, la citata permanenza del potere di valutazione dei requisiti generali dell’operatore economico; dal punto di vista strutturale, la richiamata esigenza di una sollecita definizione del relativo giudizio, in considerazione della rilevanza degli interessi in gioco. Ma, come si vedrà a breve, l’attualità del dibattito giurisprudenziale in corso è segnalata da posizioni molto distanti tra loro e tutt’altro che allineate rispetto alla conclusione appena tratta.

 

  1. Gli orientamenti della giurisprudenza amministrativa.

La stessa pronuncia del Consiglio di Stato qui annotata, chiama in causa precedenti di altre Sezioni dai quali ha tratto argomenti pro e contra il proprio iter argomentativo.

Il primo di essi, conforme all’esclusione del termine “dimidiato”, è la citata sentenza n. 3754/2016.

In quella fattispecie era stata esclusa l’applicazione dell’art. 119 c.p.a. perché: «non vengono impugnati, unitamente all’informativa antimafia, atti inerenti alla procedura di gara (ex art. 119, comma 1, lett. a), per i quali sussiste l’interesse pubblico specifico alla sollecita definizione delle relative controversie, sotteso alla disposizione che dimezza i termini processuali. … omissis … Poiché gli atti impugnati - unitamente all’informativa - attengono alla fase esecutiva del rapporto, trovano applicazione le regole del rito ordinario»[25].

Con un unico argomento, di ordine prettamente morfologico, quella pronuncia aveva quindi escluso il dimezzamento dei termini.

Invece, nella seconda pronuncia, citata contra dalla sentenza in commento, il Consiglio di Stato si era espresso in senso diametralmente difforme, riaffermando il principio secondo il quale: «laddove l’informativa antimafia interdittiva sopravvenga in corso di esecuzione di un contratto stipulato con la pubblica amministrazione (e segnatamente, come nel caso di specie, di un contratto di appalto), ciò non costituisce una “sopravvenienza” impeditiva dell’ulteriore esecuzione del contratto stipulato, bensì l’accertamento dell’incapacità originaria del privato ad essere parte contrattuale della pubblica amministrazione»[26].

Inoltre, seguendo tale argomentazione il Collegio aveva dedotto per un verso, la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo (ex art. 133, co. 1, lett. e), n. 1 c.p.a.) in ordine ai provvedimenti con i quali l’amministrazione committente revoca il provvedimento di affidamento di un appalto ovvero recede unilateralmente dal contratto, per effetto di una sopravvenuta informativa antimafia interdittiva; per altro verso, la riconduzione del provvedimento così adottato agli atti che concernono l’affidamento dell’appalto (avvenuto in favore di un soggetto a ciò interdetto, e dunque in difetto dei presupposti necessari per essere destinatario dell’affidamento); con la conseguente applicazione dell’art. 120 c.p.a. e dei termini dimidiati ivi previsti.

Le pronunce indicate, pur nella loro diversità di approdi, condividono un interessante dato di ordine sostanziale di cui, nel regime processuale previgente, si può rinvenire una sommessa citazione nella sentenza del T.A.R. Lombardia, (Milano) del 28 maggio 2010 n. 1702.

In quella occasione, infatti, dinanzi all’impugnazione della revoca dell'autorizzazione al subappalto in favore della ricorrente per sospetto di contiguità con associazioni mafiose, emerso in seguito ad informativa prefettizia antimafia c.d. atipica, il T.A.R. dichiarò tardivo il ricorso depositato oltre il termine dimidiato, sostenendo che nella fattispecie era stato: «impugnato un atto inerente la procedura».

Avverso tale impostazione si pongono coloro i quali propendono per la non applicabilità del rito appalti, assumendo che la revoca, anche se conseguente ad una informativa prefettizia, sia comunque un provvedimento di secondo grado, adottato sulla base di diversi e sopravvenuti motivi di interesse pubblico.

Essa non costituirebbe dunque un atto della procedura di affidamento, o  comunque ad essa riferibile, ma l'atto finale di un nuovo procedimento avente efficacia ex nunc che comporterebbe la caducazione del provvedimento di primo grado.

Invece, secondo quella parte della giurisprudenza del Consiglio di Stato che non ha prestato adesione a quest’orientamento, l'assoggettamento della controversia alla dimidiazione dei termini, risulterebbe sempre giustificata sia sotto il profilo lessicale e sostanziale: «dal primo punto di vista, se il rito speciale riguarda gli "atti delle procedure di affidamento" di contratti pubblici, appare logico che nel suo ambito di applicazione venga ricompreso non solo il provvedimento che aggiudica un contratto pubblico, ma anche il "contrarius actus" che ne dispone la revoca o l'annullamento[27] - mentre - dal punto di vista sostanziale, deve essere rilevato che anche in caso di esercizio da parte dell'Amministrazione dell'autotutela o comunque del recesso precontrattuale, sussistono le stesse esigenze di celerità che sono sottese alle disposizioni che regolamentano, in modo peculiare rispetto agli altri processi, il rito sulle procedure di affidamento dei contratti pubblici al fine di una celere definizione delle relative controversie e di una sollecita definizione dei sottesi rapporti giuridici"»[28].

Con la conseguente valutazione di irrilevanza, ai fini dell'applicabilità del rito speciale, della: «natura di atto di secondo grado del provvedimento di revoca dell'aggiudicazione, in quanto detto provvedimento - sebbene sia adottato all'esito di un nuovo procedimento indotto da fattori sopravvenuti - si inserisce all'interno della procedura avviata dalla stazione appaltante per l'affidamento del servizio che culmina con l'aggiudicazione e la conseguente stipulazione del contratto di appalto, momento che delimita la fase pubblicistica di competenza del giudice amministrativo. La revoca, infatti, precede la stipulazione del contratto e dunque rientra nell'ambito degli "atti della procedura di affidamento" indetta dalla stazione appaltante per la selezione del contraente al quale assegnare il servizio, ricadendo nella previsione di cui all'art. 120 c. 5 c.p.a.»[29].

Accanto all’ipotesi dell’impugnativa del provvedimento di revoca dell’aggiudicazione, si pone quella relativa all’impugnazione della determinazione di risoluzione contrattuale conseguente ad una interdittiva.

È questo, ad esempio, il caso deciso dal TAR Campania, Napoli, con la sentenza 4 marzo 2016 n. 1179 nella quale, sulla premessa che l'impugnazione autonoma dell'interdittiva antimafia emessa dalla Prefettura soggiaccia al rito ordinario e sia sottratta alla dimidiazione dei termini processuali prevista dagli artt. 119 e 120 c.p.a., il Collegio ha affermato l’operatività del rito accellerato: «soltanto con riferimento agli atti inerenti alla procedura di gara di appalti pubblici - nella fattispecie esaurita con la stipulazione del contratto oggetto del contestato atto risolutivo - in corrispondenza dell'interesse pubblico alla sollecita definizione delle relative controversie».

Pertanto, secondo tale orientamento, a partire dalla sottoscrizione del contratto, neppure il criterio di inerenza dell’atto impugnato, pure enunciato dalla pronuncia, potrebbe concorrere a giustificare la dimidiazione dei termini di rito.

 

  1. La posizione della Corte di Cassazione.

In un tempo intermedio, rispetto agli orientamenti della giurisprudenza amministrativa sin qui evocati, anche le Sezione Unite della Corte di Cassazione, hanno avuto modo di esprimere il loro punto di vista sulla questione.

Con l’ordinanza 27 gennaio 2014 n. 1530, la deliberazione di un ente pubblico di recesso dal contratto di appalto, consequenziale all'informativa del Prefetto resa ai sensi dell’art. 10 del D.P.R. 3 giugno 1998 n. 252, è stata qualificata come: «espressione di un potere di valutazione di natura pubblicistica, diretto a soddisfare l'esigenza di evitare la costituzione o il mantenimento di rapporti contrattuali, fra i soggetti indicati nell'art. 1 del medesimo D.P.R. e le imprese, nei cui confronti emergano sospetti di legami con la criminalità organizzata … omissis … trattandosi di atto estraneo alla sfera del diritto privato, in quanto espressione di un potere autoritativo di valutazione dei requisiti soggettivi del contraente, il cui esercizio è consentito anche nella fase di esecuzione del contratto ai sensi dell'art. 11, comma 2 del cit. D.P.R.».

Quella pronuncia faceva seguito ad un altro precedente, ovvero la sentenza 29 agosto 2008, n. 21928, con la quale era stato ulteriormente precisato che l’esercizio di tale potere autoritativo: «è consentito anche nella fase di esecuzione del contratto dal d.P.R. n. 252/1998, art. 11, comma 2, e che attiene alla scelta del contraente stesso. Tale potere è estraneo alla sfera del diritto privato, a differenza del recesso previsto dalla L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 345, all. F, (in relazione al quale spetta al Giudice ordinario verificarne la sussistenza dei presupposti: Cass. n. 10160/2003)».

Anche nella terminologia della Cassazione, quindi, il recesso dell’amministrazione conseguente ad informativa prefettizia antimafia: «non trova fondamento in inadempienze verificatesi nella fase di esecuzione del contratto, ma è consequenziale all'informativa del Prefetto di Palermo ai sensi del d.P.R. n. 252 del 1998, art. 10 –  e risulta essere – espressione di un potere di valutazione di natura pubblicistica diretto a soddisfare l'esigenza di evitare la costituzione o il mantenimento di rapporti contrattuali fra i soggetti indicati nel cit. D.P.R. art. 1, e imprese nei cui confronti emergono sospetti di collegamenti con la criminalità organizzata»[30].

Sembrerebbe, quindi, che la posizione della Cassazione sia aderente a quella espressa dal Consiglio di Stato nella considerazione dell’efficacia preventiva dell’informativa prefettizia antimafia tale da incidere negativamente sulla idoneità (rectius capacità) dell’operatore economico a continuare ad essere, oltre ché a diventare in futuro, controparte negoziale dell’amministrazione aggiudicatrice.

Efficacia alla quale, sul piano del rapporto, come aveva incisivamente rilevato la dottrina dinanzi al previgente microsistema delle fonti in materia di antimafia e di informative prefettizie, corrispondeva la facoltà dell’amministrazione di avviare la risoluzione anticipata del vincolo in ragione del: «venir meno di un requisito genetico condizionante in origine la possibilità di stipulazione - a causa dell’idoneità dell’interdittiva a determinare una - incapacità relativa a contrarre»[31]; sebbene anche ad accertamento postumo[32].

 

  1. L’efficacia “caducante” dell’informativa sul portfolio dei requisiti generali.

Per l’interprete onerato della selezione del rito applicabile, la stratificazione degli orientamenti giurisprudenziali non soddisfa certamente l’attesa di rassicuranti indicazioni esegetiche.

Tra tutti gli elementi estrapolati nel corso dell’indagine, occorre conclusivamente dedicare attenzione specifica al punto di contatto più evidente tra gli opposti orientamenti considerati.

Il riferimento è diretto alla dichiarata efficacia “caducante” dell’informativa prefettizia sul portfolio dei requisiti di ordine generale dell’operatore economico.

Entrambi gli orientamenti, infatti, condividono la ravvisata idoneità dell’informativa prefettizia di assicurare all’amministrazione aggiudicatrice certezza nell’osservanza del principio di continuità nel possesso dei requisiti di ordine generale da parte degli operatori economici partecipanti ad una procedura di affidamento, con particolare riguardo alla “indispensabile capacità giuridica” meglio denominata come “impermeabilità mafiosa.

Tuttavia, l’orientamento che nega l’applicabilità dei termini dimidiati, ritiene che il conseguente potere di autotutela esercitato dall’amministrazione, non sia espressione del potere selettivo; ma piuttosto, atto vincolato dal risultato informativo relativo alla “posizione antimafia” dell’operatore.

Occorre quindi verificare come la giurisprudenza abbia qualificato le attività successive alla presa d’atto del venir meno dei requisiti di ordine generale e speciale dell’operatore, diversi dalla impermeabilità mafiosa.

Ad esempio, con riguardo ai requisiti di ordine speciale, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha affermato il principio secondo cui: «le qualificazioni richieste dal bando debbono essere possedute dai concorrenti non solo al momento della scadenza del termine per la presentazione delle offerte, ma anche in ogni successiva fase del procedimento di evidenza pubblica e per tutta la durata dell'appalto, senza soluzione di continuità»[33].

In una successiva pronuncia, la medesima Autorità ha confermato la portata applicativa generale di tale principio, affermando che: «nelle gare di appalto per l’aggiudicazione di contratti pubblici, i requisiti generali e speciali devono essere posseduti dai candidati non solo alla data di scadenza del termine per la presentazione della richiesta di partecipazione alla procedura di affidamento, ma anche per tutta la durata della procedura stessa fino all’aggiudicazione definitiva ed alla stipula del contratto, nonché per tutto il periodo dell’esecuzione dello stesso, senza soluzione di continuità»[34].

In quella sede, in particolare, l’occasione per riaffermare l’operatività del suddetto principio era costituita dall’avvio di una procedura di interpello ai sensi dell’art. 140 d. lgs. 12 aprile 2006, n. 163, in seguito all’assoggettamento dell’originaria aggiudicataria alla procedura di liquidazione coatta amministrativa.

Il Collegio, richiamato il principio affermato dall’Adunanza Plenaria n. 8 del 2015, aveva quindi colto l’occasione per affermare che: «la fase procedimentale disciplinata dall’art. 140 d. lgs. cit. si configura come un segmento di un’unica procedura di affidamento, avviata con la pubblicazione del bando, con la conseguenza, per quanto qui rileva, che i requisiti di partecipazione, attesa l’unicità e l’inscindibilità del procedimento selettivo, devono essere ininterrottamente posseduti dal suo avvio (e, cioè, dalla pubblicazione dell’avviso pubblico) fino alla sua conclusione (e, cioè, alla data dell’affidamento dell’appalto in esito all’interpello)»[35].

Operando dichiaratamente un processo di valorizzazione della portata precettiva dei vincoli normativi soggettivi ed oggettivi relativi al procedimento di interpello, il Consiglio di Stato ha quindi catalogato la fase in questione, dal punto di vista dogmatico, come un segmento procedimentale dell’unica ed inscindibile procedura avviata dalla stazione appaltante per mezzo della pubblicazione iniziale del bando di gara.

Per tale via, il Collegio è giunto ad affermare che: «l’affidamento disposto in esito all’esercizio della facoltà di cui all’art. 140 d. lgs. cit. va configurato come una nuova e formale aggiudicazione – con la precisazione che la stessa – resta condizionata al rispetto dei risultati della procedura concorsuale già svolta con un vincolo di intensità tale da renderla riferibile ad essa come una sua fase, sì eventuale, ma, quando esistente, certamente non autonoma e, anzi, funzionalmente in essa integrata»[36].

La digressione appena svolta sull’aggiudicazione conseguente ad interpello, ha consentito di mettere a fuoco due ulteriori elementi utili all’indagine che si sta compiendo: da un lato, in funzione del principio di permanenza dei requisiti di partecipazione, la dichiarata unicità ed inscindibilità del procedimento selettivo; dall’altro, la qualificazione dell’affidamento disposto in esito all’interpello, in termini di segmento procedimentale, ancorché eventuale, ma pur sempre non autonomo dalla procedura di affidamento originaria ed anzi in essa funzionalmente integrato.

Unitamente agli altri sin qui recuperati, occorre quindi provare a condensare tali elementi nelle brevi conclusioni che seguono in ordine alla selezione delle disciplina processuale .

 

  1. Conclusioni.

L’esame della giurisprudenza sin qui rassegnata consente conclusivamente di premettere che:

  1. l’amministrazione aggiudicatrice ha l’obbligo di verificare la permanenza dei requisiti di partecipazione;

  2. attesa l’unicità e l’inscindibilità del procedimento selettivo, tali requisiti devono essere ininterrottamente posseduti dai concorrenti, senza soluzione di continuità, dall’avvio della procedura di aggiudicazione sino alla soddisfazione integrale dell’interesse pubblico sotteso alla stessa;

  3. sul piano dei requisiti generali, l’informativa prefettizia antimafia è idonea a determinare un accertamento, anche postumo della perdita della capacità dell’operatore economico di contrattare con l’amministrazione a causa del ravvisato pericolo di “permeabilità mafiosa”;

  4. l’efficacia caducante della suddetta informativa, sul portfolio dei requisiti, non conosce eccezioni di sorta, operando con pari grado di efficacia sia nella fase di evidenza pubblica, sia nella successiva fase contrattuale;

  5. il sopraggiungere di una informativa prefettizia antimafia nel corso della procedura di aggiudicazione o nel corso dell’esecuzione del contratto non è altro se non l’impulso all’avvio (non facoltativo) di un procedimento che, seppur conduca alla revoca dell’aggiudicazione o alla risoluzione anticipata del contratto, è in realtà diretto a contestare al destinatario dell’informativa la sopravvenuta perdita del requisito generale, sotto un profilo di continuità temporale.

Tali elementi consentono quindi di affermare che, la risoluzione del vincolo contrattuale se già instaurato, oppure l’arresto della procedura, se ancora in corso, non sono altro che le uniche conseguenze  dell’esito negativo della verifica dei requisiti generali dell’operatore economico.

Pertanto, se si assume che, in funzione del principio di permanenza dei requisiti di partecipazione, il provvedimento di autotutela, adottato in conseguenza della informativa prefettizia, concerna la procedura di affidamento originaria sotto il profilo della verifica del rispetto del citato principio, la dimidiazione dei termini di rito appare l’unica conseguenza ipotizzabile.

Questo perché, come attestato anche dalla citata Adunanza plenaria del 2014, l’avvio del procedimento diretto alla verifica della permanenza dei requisiti da parte di tutti i concorrenti non è facoltativo ed inoltre, come visto in precedenza, il principio di permanenza dei requisiti non conosce soluzione di continuità, neppure nel corso dell’esecuzione del contratto.

Sicché, la pronuncia in commento, pur affermando la natura vincolata del procedimento di autotutela e quindi del conseguente atto adottato, avrebbe errato nel sostenere che il suddetto potere di autotutela non sia espressione del generale potere selettivo; slegandolo di fatto dalla procedura di affidamento svolta al fine di escludere la dimidiazione dei termini di rito.

L’impugnazione del provvedimento di autotutela, “concerne” infatti la stessa procedura di affidamento sotto il profilo della verifica dei requisiti di ordine generale, con la necessaria applicazione dei termini di rito previsti dall’art. 119 comma 1 lett. a).

Questa, ad ogni modo, non è l’unica via, attraverso la quale l’interprete potrebbe giungere alla suggerita soluzione della dimidiazione dei termini.

Si è visto, infatti, come l’aggiudicazione che consegua ad una procedura di interpello costituisca un segmento dell’unica ed inscindibile procedura di aggiudicazione, in funzione dell’unicità ed inscindibilità del procedimento di selezione.

In questa sede, il cauto ricorso all’analogia, potrebbe incoraggiare a ritenere che, dinanzi alla perdita dei requisiti di partecipazione, anche i procedimenti di autotutela, volti all’adozione di provvedimenti di segno contrario all’aggiudicazione oppure al recesso dal contratto sottoscritto, possano essere suscettibili della medesima considerazione.

Sicché, sotto il crisma dell’effettività del richiamato principio di permanenza dei requisiti di partecipazione, anche i conseguenti provvedimenti di autotutela adottati dall’amministrazione aggiudicatrice, che recepiscono l’avvertito pericolo di permeabilità mafiosa, potrebbero essere ritenuti segmenti non autonomi ed, anzi funzionalmente integrati, nella originaria procedura di aggiudicazione.

Con la medesima, conseguente, applicazione anche per tale via della disciplina di cui al “rito appalti” in ragione della dipendenza e integrazione funzionale del procedimento di autotutela nella procedura di affidamento originaria.

Senza, peraltro, omettere come la soluzione proposta appaia infine la più idonea, anche dal solo punto di vista dell’efficienza ed efficacia del sistema di tutela giurisdizionale sui contratti pubblici, a rendere la risposta di giustizia attesa da tutti i soggetti coinvolti nella procedura di affidamento in considerazione della speditezza che connota il suddetto rito.

 

 

[1] Nel prosieguo del paragrafo per brevità richiamati anche solo come Codice.

[2] TAR Campania, Salerno, Sez. I, 13 maggio 2008, n. 1511.

[3] Cons. St., Sez. III, 9 febbraio 2017 n. 565, la quale ribalta la formalistica interpretazione offerta in primo grado sostenendo che non: « giova replicare, come fa il primo giudice, che l’espressione «rapporti» si riferisca solo ai contratti e alle concessioni, ma non alle autorizzazioni, che secondo una classica concezione degli atti autorizzatori non costituirebbero un “rapporto” con l’Amministrazione. Tale conclusione non solo è smentita dal tenore letterale dell’art. 2, comma 1, lett. c), che non differenzia le une dalle altre come fanno, invece, la lett. a) e la lett. b) (che richiama la lett. a), ma anche a livello sistematico contrasta con una visione moderna, dinamica e non formalistica del diritto amministrativo, quale effettivamente vive e si svolge nel tessuto economico e nell’evoluzione dell’ordinamento, che individua un rapporto tra amministrato e amministrazione in ogni ipotesi in cui l’attività economica sia sottoposta ad attività provvedimentale, che essa sia di tipo concessorio o autorizzatorio o, addirittura soggetta a s.c.i.a., come questo Consiglio, in sede consultiva, ha chiarito nei numerosi pareri emessi in ordine all’attuazione del d. lgs. n. 124 del 1015 (v., in particolare e tra gli altri, il parere n. 839 del 30 marzo 2016 sulla riforma della disciplina della s.c.i.a.)».

[4] TAR Calabria, sez. staccata Reggio Calabria, 24 marzo 2017 n. 217; contra sulla medesima quaestio T.A.R. Calabria, sez. staccata Reggio Calabria, 28 ottobre 2016 n. 1065.

[5] Tale questione, tutt’altro che definita in giurisprudenza, esula dal campo della presente indagine.

[6] Ex plurimis, Cons. St., sez. III, 8 marzo 2017 n. 1109 che rinvia in motivazione a Cons. St., 3 maggio 2016 n. 1743.  citata anche da TAR Calabria, sez. staccata Reggio Calabria, 24 marzo 2017 n. 241.

[7] TAR Emilia-Romagna, Bologna, 12 dicembre 2016 n. 1027.

[8] Cons. St., Ad. Plen. ord. 31 luglio 2014 nn. 17 - 26; Cons. St., Ad. Plen. ord. 4 febbraio 2013 n.3; Cons. St., Ad. Plen. ord. 24 settembre 2012 n. 33.

[9] La pronuncia costituisce l’arresto più attuale dell’orientamento giurisprudenziale al quale, con le sfumature del merito della fattispecie decisa, appartengono, ex multis: TAR Emilia-Romagna, Parma, Sez. I, 26 ottobre 2016 n. 312; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. I, 4 marzo 2016 n. 1179; T.A.R. Sicilia, Palermo, Sez. I, 14 febbraio 2014 n. 452 la quale pur dichiarandone la irricevibilità, ha considerato il termine ordinario e non quello dimezzato; T.A.R. Calabria, Catanzaro, Sez. I, 3 ottobre 2012, n. 975; T.A.R. Calabria, Catanzaro, Sez. I, 21 agosto 2012, n. 863; T.A.R. Sicilia Palermo, Sez. I, 15 febbraio 2010, n. 1866.

[10] Così ex multis: Cons. St., Sez. IV, 20 luglio 2016 n. 3247; Cons. St., Sez. III, 20 aprile 2016 n. 1565 (conferma TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 15 luglio 2015 n. 1237; TAR Lazio, Roma, Sez. III-ter, 15 ottobre 2015 n. 11692; Cons. St., Sez. IV, 21 aprile 2010 n. 2257; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. I, 21 dicembre 2011, n. 6008; Cons. St., Sez. V, 28 marzo 2008, n. 1310.

[11] T.A.R. Sicilia, Palermo, Sez. I, 15 febbraio 2010, n. 1866.

[12] In tal senso: Cons. St., Sez. III, 22 gennaio 2014, n. 289; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 25 agosto 2012, n. 874; Cons. Giust. Amm. Sic. 5 gennaio 2011 n. 9.

[13] Dichiarando in quel caso scusabile il relativo errore commesso dal ricorrente, trattandosi di ricorso instaurato nelle more dell’entrata in vigore della novella sul Codice del processo amministrativo, innovativa rispetto al previgente art. 23-bis l. Tar che prevedeva invece un termine lungo di 120 giorni dalla pubblicazione della sentenza.

[14] TAR Lazio, Roma, 30 luglio 2015, n. 10486; TAR Lazio, Roma, 15 aprile 2014, n. 4065.

[15]  Ex multis,  Cons. St., Sez. V, 7 settembre 2011 n. 5032.

[16] R. De Nictolis (a cura di), Codice del processo amministrativo commentato , Milano, 2012, p. 1894.

[17] Ivi, p. 1896.

[18] Ivi, p. 1897, la quale rinvia a G. Tanzarella, Commento all’art. 23-bis, c. 1., legge Trib. amm. reg., in Aa. Vv., La Giustizia Amministrativa, Milano, 2000, 94, che osserva che le materie si connotano per la presenza di questioni la cui soluzione è di interesse superindividuale.

[19] Cons. St., Ad. Plen. 27 luglio 2016 n. 22.

[20] R. De Nictolis (a cura di), Codice cit., p. 1905, la quale rinvia a M. Lipari, I riti abbreviati: l’ambito della disciplina e il concreto funzionamento del giudizio accellerato, in Aa. Vv. (a cura di F. Caringella e M. Protto), Il nuovo processo amministrativo dopo due anni di giurisprudenza, Milano, 2002, 804.  

[21] Ne consegue, ad avviso della Plenaria, che in relazione alla citata fonte: «l’operazione ermeneutica dev’essere condotta alla stregua del (solo) criterio letterale» dal momento che: «l’espressione “procedure di affidamento”, usata dall’art. 119, comma 1, lett. a), c.p.a., ha ricevuto una definizione puntuale all’art. 3, comma 36, del d. lgs. n.163 del 2006 (ma, poi, ripetuta, con le medesime parole, dall’art. 3, lett. rrr, nel d. lgs. n. 50 del 2016) nei termini che seguono: “Le «procedure di affidamento» e l'«affidamento» comprendono sia l'affidamento di lavori, servizi, o forniture, o incarichi di progettazione, mediante appalto, sia l'affidamento di lavori o servizi mediante concessione, sia l'affidamento di concorsi di progettazione e di concorsi di idee.” – Pertanto –  deve presumersi che il legislatore abbia inteso usare quel concetto con lo stesso significato già chiarito dall’ordinamento».

[22] R. De Nictolis, op. cit., p. 1910 la quale precisa che: «resta che la formulazione dell’art. 119 c. 1 e l’art. 120, c. 1, hanno una formulazione parzialmente differente laddove il primo si riferisce ai “provvedimenti” ed il secondo agli “atti” ma anche in tal caso si deve ritenere che i due termini siano equivalenti riferendosi sempre ad atti aventi rilevanza esterna e portata immediatamente ed autonomamente lesiva».

[23] Ivi, p. 2145, la quale precisa che: «in tal caso il ritiro del provvedimento amministrativo incide sul rapporto». V. Cass., Sez. Un. 1 marzo 2006 n. 4508; Cass., Sez. Un. 21 giugno 2005 n. 13296; Cass., Sez. Un. 12 marzo 2004 n. 5179.

[24] TAR Calabria, Sez. staccata Reggio Calabria, 24 febbraio 2016 n. 220.

[25] Anche tale pronuncia, a sua volta, cita a supporto delle proprie argomentazioni un ulteriore precedente di altra Sezione, n. 3999 del 4 luglio 2011, oggetto di separato approfondimento nel prosieguo perché affronta il delicato tema del rito applicabile nell’ipotesi di connessione di domande.

[26] Cons. St., sez. IV, n. 3247/2016.

[27] Citando a supporto Cons. St., Sez. VI, 14 gennaio 2002 n. 149.

[28] Cons. St., Sez. III, 20 aprile 2016, n. 1565, Cons. St., Sez. V, 15 luglio 2014 n. 3710.

[29] Così, Cons. St., Sez. III, n. 1565/2016.

[30] TAR Calabria, Sez. staccata Reggio Calabria 1 febbraio 2011 n. 77; TAR Sicilia, Catania, Sez. IV, 24 giugno 2010 n. 2519; TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, 15 febbraio 2010 n. 1866; TAR Abruzzo, Pescara, 8 febbraio 2010 n. 98; Cass., Sez. Un. 28 novembre 2008 n. 28345; Cons. St., Sez. VI, 17 luglio 2008 n. 360.

[31] F. Caringella, Legislazione antimafia e appalti pubblici, Urb. e App., 1997, 4, p. 16, relazione riveduta, tratta dal Convegno sulle “Misure di prevenzione patrimoniali” organizzato dall’Associazione Studi Giuridici “Lodovico Mortara”, Bari, 16 febbraio 1997

[32] Così, TAR Campania, Napoli, 24 giugno 1999, n. 1789.

[33] Cons. St., Ad. Plen., 7 aprile 2011, n. 4 sottolinea nostra.

[34] Cons. St., Ad. Plen., 20 luglio 2015 n. 8, sottolinea nostra.

[35]  Cons. Stato, Sez. III, 13 gennaio 2016 n. 76.

[36]  Cons. St., Sez. III, n. 76/2016, sottolinea nostra.