Cons. Stato, sez. III, 2 gennaio 2020, n. 2

I fatti sui quali si fonda l’interdittiva antimafia possono anche essere risalenti nel tempo nel caso in cui vadano a comporre un quadro indiziario complessivo, dal quale possa ritenersi attendibile l’esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata.

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 4299 del 2019, proposto dal Ministero dell’Interno e dalla Prefettura – Ufficio Territoriale del Governo di Crotone, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n. 12,

contro

la -OMISSIS-, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Giuseppe Pitaro, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia,

per la riforma

della sentenza del Tar Calabria, sede di Catanzaro, sez. I, -OMISSIS- del 20 marzo 2019, notificata in data 22 marzo 2019, con la quale è stato accolto il ricorso, proposto dall’odierna appellata, avverso l’interdittiva antimafia emessa a suo carico.

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Vista la memoria di costituzione in giudizio della -OMISSIS- del 17 giugno 2019;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 12 dicembre 2019 il Cons. Giulia Ferrari e uditi altresì i difensori presenti delle parti in causa, come da verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

1. In data 16 marzo 2018 è stata emessa, dalla Prefettura della Provincia di Crotone, un’interdittiva antimafia, prot. n. -OMISSIS-, a carico della -OMISSIS- (d’ora in poi, “-OMISSIS-”).

Tale provvedimento ha tratto fondamento dalle risultanze istruttorie riportate nell’ordinanza di applicazione di misura coercitiva ex art. 292 c.p.p., emessa in data 28 dicembre 2017 dal GIP del Tribunale ordinario di Catanzaro, nell’ambito del procedimento penale scaturito in esito all’operazione di Polizia giudiziaria denominata “-OMISSIS-”, che ha coinvolto una pluralità di indagati, tra cui anche la società -OMISSIS-.

Nello specifico è emersa, nell’ambito delle indagini al sindaco pro tempore di -OMISSIS- (KR) -OMISSIS-, accusato del reato di cui agli artt. 110 e 416-bis c.p., l’esistenza di ditte controllate e/o indicate dal clan -OMISSIS-, cui far appaltare i lavori, al fine di riuscire, attraverso atti amministrativi e contabili, quali fittizi mandati di pagamento, ad assegnare ai membri di detta famiglia somme di denaro destinate solo apparentemente alle ditte che svolgono servizi per l’-OMISSIS-. È, altresì, emerso, da alcune intercettazioni ambientali del 14 ottobre 2014, che tra tali ditte vi fosse anche la -OMISSIS- – la quale ha stipulato, in data 25 febbraio 2010, un contratto con il Comune di -OMISSIS-, concernente i servizi per la pulizia dei locali comunali – e che il sindaco avesse compulsato i competenti uffici al fine di provvedere ad un mandato di pagamento per l’importo di circa euro 3.000,00, utilizzando dunque la -OMISSIS- come tramite per far pervenire tale somma alla famiglia -OMISSIS-. È venuto, altresì, in rilievo che l’intestata società, il cui rappresentante legale è -OMISSIS- -OMISSIS-, sarebbe di fatto gestita dal -OMISSIS- -OMISSIS- -OMISSIS-, il quale è gravato di pregiudizi penali e, in data antecedente al 1998, quando era amministratore della società, sarebbe stato vittima di estorsione. Infine, è emerso che la -OMISSIS- ha assunto alle proprie dipendenze soggetti imparentati con membri della cosca -OMISSIS-, ossia -OMISSIS- e -OMISSIS-

2. Con ricorso proposto innanzi al Tar Calabria, sede di Catanzaro, la -OMISSIS- ha avversato tale provvedimento prefettizio, deducendo che non vi sarebbero elementi tali da ritenere sussistente un pericolo di ingerenza della criminalità organizzata nella vita della società. In particolare, non sarebbe vero che la -OMISSIS- avrebbe operato come tramite per far pervenire alla famiglia -OMISSIS- denaro pubblico, posto che non avrebbe mai ricevuto alcun pagamento da parte del Comune di -OMISSIS- di importo pari a euro 3.000,00; il tentativo di estorsione subito da -OMISSIS- -OMISSIS- sarebbe risalente nel tempo e, in ogni caso, fermamente respinto; -OMISSIS- -OMISSIS- sarebbe estraneo alla società -OMISSIS-, costituita nel 2008 dal -OMISSIS-; i dipendenti -OMISSIS- e -OMISSIS- svolgerebbero all’interno della ditta mansioni limitate.

3. La -OMISSIS- ha, in aggiunta, proposto istanza di sospensiva del provvedimento impugnato, accolta con ordinanza -OMISSIS- del 22 giugno 2018. Avverso tale ordinanza, l’amministrazione resistente ha proposto appello cautelare, il quale è stato accolto dalla sez. III del Consiglio di Stato con ordinanza -OMISSIS- del 13 settembre 2018.

4. Con sentenza -OMISSIS- del 20 marzo 2019, il Tar Calabria ha accolto il ricorso, deducendo, in particolare, carenza di istruttoria. Nello specifico, il primo giudice ha rilevato che l’asserita gestione della società ricorrente da parte di -OMISSIS- -OMISSIS- sarebbe priva di qualunque supporto indiziario e la circostanza che tale soggetto sia stato vittima di estorsione nel 1998 sarebbe ininfluente, sia perché risalente nel tempo, sia perché non sarebbe chiaro se il -OMISSIS- abbia o meno respinto la richiesta. Quanto all’asserito pagamento della somma di euro 3.000,00, il Tar ha disposto una verificazione a cura della Guardia di Finanza, che non avrebbe confermato la presenza di un pagamento di tale importo in data prossima all’intercettazione del 14 ottobre 2014. I mandati di pagamento (nn. 86 e 87), di importo difforme da quello in considerazione, risultano pagati solo in data 16 febbraio 2015. Infine, il Tar ha rilevato che l’amministratore della -OMISSIS- non sarebbe indagato nel procedimento nell’ambito del quale è stata emessa la citata ordinanza cautelare e che la tesi sostenuta dalla ricorrente, sul profilo delle assunzioni di -OMISSIS- e -OMISSIS-, non sarebbe del tutto infondata, atteso che gli stessi risultavo impiegati, anteriormente all’assunzione presso la società ricorrente, dalle imprese che svolgevano presso il Comune di -OMISSIS- i servizi affidati poi alla -OMISSIS-.

5. La citata sentenza -OMISSIS- del 20 marzo 2019 è stata impugnata con appello notificato il 16 maggio 2019 e depositato il successivo 21 maggio.

In particolare, l’amministrazione appellante ha dedotto le seguenti censure:

a) il Tar avrebbe erroneamente dato prevalenza ad una mera attività di verificazione compiuta dalla Guardia di Finanza, rispetto alle lunghe ed accurate indagini del GIP del Tribunale di Catanzaro;

b) il primo giudice avrebbe errato nel ritenere assorbente la circostanza che il pagamento della somma di euro 3.000,00 non sarebbe poi stato effettivamente eseguito ove, per contro, avrebbe dovuto valorizzare il pactum sceleris prodromico al pagamento stesso;

c) il Tar avrebbe erroneamente valutato il ruolo rivestito dal sig. -OMISSIS- -OMISSIS-. La ditta, benché formalmente rappresentata da -OMISSIS- -OMISSIS- – a cui è stata ceduta in data -OMISSIS- 2008, quando ancora non era maggiorenne – di fatto continuerebbe ad essere gestista dal -OMISSIS-;

d) il giudice di prime cure avrebbe errato nel valutare il ruolo di -OMISSIS- e di -OMISSIS-, sul presupposto che gli stessi svolgessero nella ditta ruoli limitati. Al contrario, il ruolo marginale sarebbe solo apparente posto che, sempre più frequentemente, i condizionamenti malavitosi si tradurrebbero in sottili ed articolate forme di infiltrazione;

e) il Tar avrebbe errato nel giudicare i fatti posti a sostegno dell’interdittiva non attuali. Al contrario, ai fini della valutazione circa la legittimità di un provvedimento interdittivo, si dovrebbe tener contro anche dei fatti risalenti nel tempo.

6. Si è costituita in giudizio la -OMISSIS-, sostenendo l’infondatezza dell’appello.

7. Con ordinanza cautelare -OMISSIS- del 21 giugno 2019, è stata accolta l’istanza cautelare di sospensione della sentenza del Tra Catanzaro.

8. Alla pubblica udienza del 12 dicembre 2019, la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. Oggetto del gravame è l’interdittiva antimafia, emessa, in data 16 marzo 2018, dalla Prefettura della Provincia di Crotone a carico della -OMISSIS- (d’ora in poi, -OMISSIS-) a seguito delle risultanze istruttorie riportate nell’ordinanza di applicazione di misura coercitiva ex art. 292 c.p.p., emessa in data 28 dicembre 2017 dal Gip del Tribunale ordinario di Catanzaro, nell’ambito del procedimento penale scaturito in esito all’operazione di Polizia giudiziaria denominata “-OMISSIS-”, che ha coinvolto una pluralità di indagati, tra cui anche la società -OMISSIS-.

Il Tar Catanzaro, dinanzi al quale la società aveva impugnato l’interdittiva, ha accolto il ricorso sul rilievo che dalle verifiche fatte svolgere alla Guardia di finanza non emerge il connotato di univocità agli elementi indiziari ricavati, in ordine alla soggezione all’ingerenza criminale, dai provvedimenti emessi in sede penale, con la conseguenza che, se è vero che il giudice amministrativo non può certo sostituire la propria valutazione a quelle operate, nell’ambito del procedimento penale, dall’Autorità giudiziaria competente, altrettanto vero è che il giudice amministrativo deve assicurare alla società ricorrente il diritto fondamentale alla difesa, e dunque non può omettere di considerare quei dati fattuali allegati dal soggetto colpito da informazione interdittiva per dimostrare l’insussistenza del condizionamento mafioso.

In altri termini il giudice di primo grado, richiamati correttamente i principi che sono alla base del sistema preventivo dell’interdittiva, ha concluso nel senso che alla luce degli esiti delle Guardia di finanza mancavano, nella specie, anche i meri indizi, questi sì necessari per far scattare la misura di prevenzione.

Il Collegio non condivide le conclusioni del primo giudice. Non ritiene infatti di poter escludere il tentativo di infiltrazione nella società appellata, che emerge dalle indagini del Gip del Tribunale ordinario di Catanzaro, nell’ambito del procedimento penale scaturito in esito all’operazione di Polizia giudiziaria denominata “-OMISSIS-” e riportate nell’ordinanza di applicazione di misura coercitiva ex art. 292 c.p.p., emessa in data 28 dicembre 2017. L’avversa conclusione del Tar poggia, infatti, sul diverso esito delle indagini che lo stesso aveva affidato alla Guardia di finanza, di durata e profondità necessariamente più limitata.

Dalle indagini penali è emerso, infatti, che la società appellata è tra quelle che hanno beneficiato dei favori del Sindaco del Comune di -OMISSIS- che, pur non essendo inserito stabilmente nella struttura organizzativa del sodalizio della ndragheta locale della famiglia -OMISSIS-, con la pressione o, comunque, l’approvazione delle cosche dominanti sul territorio, “poneva in essere tutta una serie di atti procedimentali al fine di far appaltare lavori a ditte controllate e/o indicate dalla stessa cosca e/o dai suoi fiancheggiatori e/o provvedendo, attraverso atti amministrativi e contabili, quali fittizi mandati di pagamento, ad assegnare a membri della famiglia … delle somme di denaro destinate apparentemente a ditte che svolgono servizi per l’Ente …”. Tra queste ditte, appunto, era compresa anche la società appellata, come risulta dalla lettura dell’ordinanza del Gip del Tribunale ordinario di Catanzaro del 28 dicembre 2017.

Aggiungasi che, come emerge dagli stessi atti di causa, il legale rappresentante della società appellata – alla quale sono stati affidati nel Comune gli appalti di pulizia dei locali comunali, di mensa scolastica ed il trasporto scolastico – è -OMISSIS- di soggetto nei cui confronti è stata svolta attività estorsiva alla quale, da quanto è dato leggere dall’ordinanza del Gip, avrebbe ceduto.

2. Tutti gli elementi fattuali sopra descritti sono sufficienti a supportare l’informativa impugnata dinanzi al Tar Catanzaro, alla luce dei consolidati principi che governano tale materia, ben conosciuti dal giudice di primo grado che, pur avendoli correttamente richiamati, non ne ha fatto corretto uso.

E’ noto, infatti che l’informazione antimafia implica una valutazione discrezionale da parte dell’autorità prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, capace di condizionare le scelte e gli indirizzi dell’impresa. Tale pericolo deve essere valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipica dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, e quindi fondato su prove, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere “più probabile che non”, appunto, il pericolo di infiltrazione mafiosa.

Ha aggiunto la Sezione (-OMISSIS- del 2019) che lo stesso legislatore – art. 84, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011 – ha riconosciuto quale elemento fondante l’informazione antimafia la sussistenza di “eventuali tentativi” di infiltrazione mafiosa “tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate”. Eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa e tendenza di questi ad influenzare la gestione dell’impresa sono nozioni che delineano una fattispecie di pericolo, propria del diritto della prevenzione, finalizzato, appunto, a prevenire un evento che, per la stessa scelta del legislatore, non necessariamente è attuale, o inveratosi, ma anche solo potenziale, purché desumibile da elementi non meramente immaginari o aleatori.

Ha ancora chiarito la Sezione (5 settembre 2019, -OMISSIS-) che la legge italiana, nell’ancorare l’emissione del provvedimento interdittivo antimafia all’esistenza di “tentativi” di infiltrazione mafiosa, ha fatto ricorso, inevitabilmente, ad una clausola generale, aperta, che, tuttavia, non costituisce una “norma in bianco” né una delega all’arbitrio dell’autorità amministrativa imprevedibile per il cittadino, e insindacabile per il giudice, anche quando il Prefetto non fondi la propria valutazione su elementi “tipizzati” (quelli dell'art. 84, comma 4, lett. a), b), c) ed f), d.lgs. n. 159 del 2011), ma su elementi riscontrati in concreto di volta in volta con gli accertamenti disposti, poiché il pericolo di infiltrazione mafiosa costituisce, sì, il fondamento, ma anche il limite del potere prefettizio e, quindi, demarca, per usare le parole della Corte europea, anche la portata della sua discrezionalità, da intendersi qui non nel senso, tradizionale e ampio, di ponderazione comparativa di un interesse pubblico primario rispetto ad altri interessi, ma in quello, più moderno e specifico, di equilibrato apprezzamento del rischio infiltrativo in chiave di prevenzione secondo corretti canoni di inferenza logica.

L’annullamento di qualsivoglia discrezionalità nel senso appena precisato in questa materia, che postula la tesi in parola (sostenuta, invero, da autorevoli studiosi del diritto penale e amministrativo), prova troppo, del resto, perché l’ancoraggio dell’informazione antimafia a soli elementi tipici, prefigurati dal legislatore, ne farebbe un provvedimento vincolato, fondato, sul versante opposto, su inammissibili automatismi o presunzioni ex lege e, come tale, non solo inadeguato rispetto alla specificità della singola vicenda, proprio in una materia dove massima deve essere l’efficacia adeguatrice di una norma elastica al caso concreto, ma deresponsabilizzante per la stessa autorità amministrativa.

Quest’ultima invece, anzitutto in ossequio dei principî di imparzialità e buon andamento contemplati dall’art. 97 Cost. e nel nome di un principio di legalità sostanziale declinato in senso forte, è chiamata, esternando compiutamente le ragioni della propria valutazione nel provvedimento amministrativo, a verificare che gli elementi fattuali, anche quando “tipizzati” dal legislatore, non vengano assunti acriticamente a sostegno del provvedimento interdittivo, ma siano dotati di individualità, concretezza ed attualità, per fondare secondo un corretto canone di inferenza logica la prognosi di permeabilità mafiosa, in base ad una struttura bifasica (diagnosi dei fatti rilevanti e prognosi di permeabilità criminale) non dissimile, in fondo, da quella che il giudice penale compie per valutare gli elementi posti a fondamento delle misure di sicurezza personali, lungi da qualsiasi inammissibile automatismo presuntivo, come la Suprema Corte di recente ha chiarito (v., sul punto, Cass., Sez. Un., 4 gennaio 2018, n. 111).

Il giudice amministrativo è, a sua volta, chiamato a valutare la gravità del quadro indiziario, posto a base della valutazione prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, e il suo sindacato sull’esercizio del potere prefettizio, con un pieno accesso ai fatti rivelatori del pericolo, consente non solo di sindacare l’esistenza o meno di questi fatti, che devono essere gravi, precisi e concordanti, ma di apprezzare la ragionevolezza e la proporzionalità della prognosi inferenziale che l’autorità amministrativa trae da quei fatti secondo un criterio che, necessariamente, è probabilistico per la natura preventiva, e non sanzionatoria, della misura in esame.

Il sindacato per eccesso di potere sui vizi della motivazione del provvedimento amministrativo, anche quando questo rimandi per relationem agli atti istruttori, scongiura il rischio che la valutazione del Prefetto divenga, appunto, una “pena del sospetto” e che la portata della discrezionalità amministrativa in questa materia, necessaria per ponderare l’esistenza del pericolo infiltrativo in concreto, sconfini nel puro arbitrio.

La funzione di “frontiera avanzata” dell’informazione antimafia nel continuo confronto tra Stato e anti-Stato impone, a servizio delle Prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini. E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, deve arrestarsi (Cons. St., sez. III, 30 gennaio 2019, -OMISSIS-).

E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, deve arrestarsi.

Negare però in radice che il Prefetto possa valutare elementi “atipici”, dai quali trarre il pericolo di infiltrazione mafiosa, vuol dire annullare qualsivoglia efficacia alla legislazione antimafia e neutralizzare, in nome di una astratta e aprioristica concezione di legalità formale, proprio la sua decisiva finalità preventiva di contrasto alla mafia, finalità che, per usare ancora le parole della Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza De Tommaso c. Italia, consiste anzitutto nel «tenere il passo con il mutare delle circostanze» secondo una nozione di legittimità sostanziale.

Ma, come è stato recentemente osservato anche dalla giurisprudenza penale, il sistema delle misure di prevenzione è stato ritenuto dalla stessa Corte europea in generale compatibile con la normativa convenzionale poiché «il presupposto per l’applicazione di una misura di prevenzione è una “condizione” personale di pericolosità, la quale è desumibile da più fatti, anche non costituenti illecito, quali le frequentazioni, le abitudini di vita, i rapporti, mentre il presupposto tipico per l’applicazione di una sanzione penale è un fatto-reato accertato secondo le regole tipiche del processo penale» (Cass. pen., sez. II, 9 luglio 2018, n. 30974).

Al delicato bilanciamento raggiunto dall’interpretazione di questo Consiglio di Stato non osta nemmeno, come sostiene l’appellante, l’orientamento assunto dalla Corte costituzionale nelle recenti sentenze n. 24 del 27 febbraio 2019 e n. 195 del 24 luglio 2019, orientamento di cui, per la sua importanza sistematica anche nella materia della documentazione antimafia, occorre dare qui conto.

Come ha ben posto in rilievo la Corte costituzionale nella sentenza n. 24 del 2019, infatti, allorché si versi al di fuori della materia penale, non può del tutto escludersi che l’esigenza di predeterminazione delle condizioni in presenza delle quali può legittimamente limitarsi un diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto possa essere soddisfatta anche sulla base «dell’interpretazione, fornita da una giurisprudenza costante e uniforme, di disposizioni legislative pure caratterizzate dall’uso di clausole generali, o comunque da formule connotate in origine da un certo grado di imprecisione».

Essenziale – nell’ottica costituzionale così come in quella convenzionale (v., ex multis, Corte europea dei diritti dell’uomo, sezione quinta, sentenza 26 novembre 2011, Gochev c. Bulgaria; Corte europea dei diritti dell’uomo, sezione prima, sentenza 4 giugno 2002, Olivieiria c. Paesi Bassi; Corte europea dei diritti dell’uomo, sezione prima, sentenza 20 maggio 2010, Lelas c. Croazia) – è, infatti, che tale interpretazione giurisprudenziale sia in grado di porre la persona potenzialmente destinataria delle misure limitative del diritto in condizioni di poter ragionevolmente prevedere l’applicazione della misura stessa.

In tale direzione la verifica della legittimità dell’informativa deve essere effettuata sulla base di una valutazione unitaria degli elementi e dei fatti che, visti nel loro complesso, possono costituire un’ipotesi ragionevole e probabile di permeabilità della singola impresa ad ingerenze della criminalità organizzata di stampo mafioso sulla base della regola causale del “più probabile che non”, integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali (qual è quello mafioso), e che risente della estraneità al sistema delle informazioni antimafia di qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343).

Ai fini della sua adozione, da un lato, occorre non già provare l'intervenuta infiltrazione mafiosa, bensì soltanto la sussistenza di elementi sintomatico-presuntivi dai quali – secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale – sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata; d’altro lato, detti elementi vanno considerati in modo unitario, e non atomistico, cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343).

Ciò che connota la regola probatoria del “più probabile che non” non è un diverso procedimento logico, va del resto qui ricordato, ma la (minore) forza dimostrativa dell’inferenza logica, sicché, in definitiva, l’interprete è sempre vincolato a sviluppare un’argomentazione rigorosa sul piano metodologico, «ancorché sia sufficiente accertare che l’ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più appropriata, la c.d. probabilità cruciale» (Cons. St., sez. III, 26 settembre 2017, n. 4483).

3. Ciò chiarito, con riferimento alla pregressa presenza, all’interno della società appellata, del signor -OMISSIS- -OMISSIS-, -OMISSIS- del legale rappresentante -OMISSIS- -OMISSIS-, è sufficiente ricordare che proprio in relazione ai rapporti di parentela tra titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e familiari che siano soggetti affiliati, organici, contigui alle associazioni mafiose la Sezione (7 febbraio 2018, n. 820) ha affermato che l’Amministrazione può dare loro rilievo laddove tale rapporto, per la sua natura, intensità o per altre caratteristiche concrete, lasci ritenere, per la logica del “più probabile che non”, che l’impresa abbia una conduzione collettiva e una regìa familiare (di diritto o di fatto, alla quale non risultino estranei detti soggetti) ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia mediante il contatto con il proprio congiunto. Nei contesti sociali, in cui attecchisce il fenomeno mafioso, all’interno della famiglia si può verificare una “influenza reciproca” di comportamenti e possono sorgere legami di cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza; una tale influenza può essere desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi costituzionali) che il parente di un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso, che la complessa organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della ‘famiglia’, sicché in una ‘famiglia’ mafiosa anche il soggetto, che non sia attinto da pregiudizio mafioso, può subire, nolente, l’influenza del ‘capofamiglia’ e dell’associazione. Hanno dunque rilevanza circostanze obiettive (a titolo meramente esemplificativo, ad es., la convivenza, la cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento nei medesimi fatti, che pur non abbiano dato luogo a condanne in sede penale) e peculiari realtà locali, ben potendo l’Amministrazione evidenziare come sia stata accertata l’esistenza – su un’area più o meno estesa – del controllo di una ‘famiglia’ e del sostanziale coinvolgimento dei suoi componenti.

Nel caso all’esame del Collegio il -OMISSIS- del legale rappresentante della società appellata - già titolare della stessa, ceduta al -OMISSIS- (il -OMISSIS- 2008) quando questi non aveva ancora raggiunto la maggiore età, ma ancora gestore di fatto - in data antecedente al 1998, quando era amministratore della società, sarebbe stato vittima di un’estorsione alla quale, da quanto emerge dall’ordinanza del Gip di Catanzaro, avrebbe ceduto, essendosi recato presso la filiale della -OMISSIS- dopo aver parlato con -OMISSIS-, condannata a 15 anni e 4 mesi nell’ambito dell’operazione di polizia -OMISSIS-. Giova a tale proposito ricordare che alcune operazioni societarie possono disvelare un’attitudine elusiva della normativa antimafia ove risultino in concreto inidonee a creare una netta cesura con la pregressa gestione subendone, anche inconsapevolmente, i tentativi di ingerenza (Cons. St., sez. III, 27 novembre 2018, n. 6707; 7 marzo 2013, n. 1386).

Ancora priva di giuridico peso la circostanza che il fatto estorsivo che ha colpito il -OMISSIS- del legale rappresentante della società appellata risale al 1998.

E’, infatti, sufficiente sul punto richiamare il principio secondo cui i fatti sui quali si fonda tale misura di prevenzione possono anche essere risalenti nel tempo nel caso in cui vadano a comporre un quadro indiziario complessivo, dal quale possa ritenersi attendibile l'esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata. Come chiarito dalla Sezione (21 gennaio 2019, n. 515), il mero decorso del tempo, di per sé solo, non implica, cioè, la perdita del requisito dell’attualità del tentativo di infiltrazione mafiosa e la conseguente decadenza delle vicende descritte in un atto interdittivo, né l’inutilizzabilità di queste ultime quale materiale istruttorio per un nuovo provvedimento, donde l’irrilevanza della ‘risalenza’ dei dati considerati ai fini della rimozione della disposta misura ostativa, occorrendo, piuttosto, che vi siano tanto fatti nuovi positivi quanto il loro consolidamento, così da far virare in modo irreversibile l'impresa dalla situazione negativa alla fuoriuscita definitiva dal cono d'ombra della mafiosità.

Diversamente da quanto assume il giudice di primo grado, non può sottacersi il fatto che due dipendenti della società appellata siano legati da vincoli parentali a componenti alla cosca. Ove pure gli stessi fossero stati assunti con la cd. clausola sociale, non è offerto neanche un principio di prova del tentativo di non addivenire a tali assunzioni né rileva il fatto che gli stessi occupassero bassi profili, essendo uno autista e l’altro addetto alle pulizie. Indipendentemente, infatti, dalle mansioni ricoperte, un dipendente di società legato alla malavita può costituire un ponte tra questa e la società per la quale lavora.

Rileva ancora il Collegio che non assume portata determinante la circostanza, non chiarita nella sua materialità, se vi sia stato o meno l’effettivo pagamento, da parte del Comune di -OMISSIS-, di un importo pari a € 3.000,00, risultando comunque dalle intercettazioni che la stessa società compulsava i competenti uffici comunali per provvedere al relativo mandato di pagamento.

4. In conclusione, correttamente il coacervo di elementi è stato ritenuto dal Prefetto di Crotone sufficiente ad evidenziare il pericolo di contiguità con la mafia, con un giudizio peraltro connotato da ampia discrezionalità di apprezzamento, con conseguente sindacabilità in sede giurisdizionale delle conclusioni alle quali l’autorità perviene solo in caso di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti, mentre al sindacato del giudice amministrativo sulla legittimità dell'informativa antimafia rimane estraneo l'accertamento dei fatti, anche di rilievo penale, posti a base del provvedimento (Cons. St. n. 4724 del 2001). Tale valutazione costituisce espressione di ampia discrezionalità che, per giurisprudenza costante, può essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati (Cons. St. n. 7260 del 2010).

4. Le questioni vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c.. Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati, infatti, dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e, comunque, inidonei a supportare una conclusione di segno diverso.

5. In conclusione, per i suesposti motivi, l’appello deve essere accolto e va, dunque, riformata la sentenza del Tar Calabria, sede di Catanzaro, sez. I, -OMISSIS- del 20 marzo 2019, che ha accolto il ricorso di primo grado.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza),

definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza del Tar Calabria, sede di Catanzaro, sez. I, -OMISSIS- del 20 marzo 2019, respinge il ricorso di primo grado

Condanna l'appellato al pagamento, in favore della parte appellante, delle spese del presente grado di giudizio, che si liquidano in € 10.000,00 (euro diecimila/00).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità dell’appellata e di tutti i dati che ad essa riconducono.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 dicembre 2019.

 

 

 

Guida alla lettura

Con la pronuncia in commento la III Sezione del Consiglio di Stato ha statuito che i fatti sui quali si fonda l’interdittiva antimafia possono anche essere risalenti nel tempo nel caso in cui vadano a comporre un quadro indiziario complessivo, dal quale possa ritenersi attendibile l’esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata”.

Posto nei siffatti termini il principio di diritto emesso dalla citata recente decisione del Supremo Consesso amministrativo, doveroso appare un piccolo passo indietro, al fine di analizzare, sia pure brevemente, ubi constitam e presupposti applicativi del provvedimento interdittivo oggetto di attenzione da parte dei Giudici.

Secondo quanto previsto dagli artt. 91 e ss. del Codice Antimafia (D.lgs. n. 159/2011), i presupposti per il rilascio del provvedimento interdittivo da parte dell’autorità prefettizia territorialmente competente, sono individuati nei casi di decadenza, sospensione o divieto come effetto delle misure di prevenzione, ex art. 67 del medesimo Codice, nonché nei tentativi di infiltrazione mafiosa, desumibili a norma dell’art. 84, comma 4 D.lgs. n. 159 cit.

Orbene, l’autorità prefettizia, mediante l’informativa antimafia, esprime in via preventiva un motivato giudizio concernente il possibile pericolo di infiltrazione mafiosa all’interno dell’impresa e permette di interdire qualsivoglia rapporto con la P.A. o l’ottenimento di qualsiasi sussidio, beneficio economico o sovvenzione.

In particolare, il citato comma 4 dell’art. 84 stabilisce le fattispecie relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa che danno luogo all’adozione della suddetta misura ossia: a) presenza di provvedimenti che dispongono una misura cautelare o il giudizio ovvero che recano una condanna anche non definitiva per taluni dei delitti di cui agli artt. 353, 353-bis, 629, 640-bis, 644, 648-bis, 648-ter, del codice penale, dei delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale e di cui all’art. 12 quinquies del decreto legge 8 giugno 1992, n. 306 convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356; b) proposta o provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione; c) salvo che ricorra l’esimente di cui all’articolo 4 della legge 24 novembre 1981 n. 689, caso di omessa denuncia all’autorità giudiziaria dei reati di cui agli articoli 317 e 629 del codice penale, aggravati ai sensi dell’art. 7 del decreto legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, da parte dei soggetti indicati nella lettera b) dell’articolo 38 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, anche in assenza nei loro confronti di un procedimento per l’applicazione di una misura di prevenzione o di una causa ostativa ivi previste; d) accertamenti disposti dal prefetto anche avvalendosi dei poteri di accesso e di accertamento delegati dal Ministro dell’interno ai sensi del decreto legge 6 settembre 1982, n. 629, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 ottobre 1982 n. 726, ovvero di quelli di cui all’art. 93 del presente decreto; e) accertamenti da effettuarsi in altra provincia a cura dei prefetti competenti su richiesta del prefetto procedente ai sensi della lettera d); f) sostituzioni negli organi sociali, nella rappresentanza legale della società nonché nella titolarità delle imprese individuali ovvero delle quote societarie, effettuate da chiunque conviva stabilmente con i soggetti destinatari dei provvedimenti di cui alle lettere a) e b), con modalità che, per i tempi in cui vengono realizzati, il valore economico delle transazioni, il reddito dei soggetti coinvolti nonché le qualità professionali dei subentranti, denotino l’intento di eludere la normativa sulla documentazione antimafia.

Alla luce di quanto sopra esposto, l’interdittiva antimafia ha lo scopo di anticipare il momento in cui la P.A. può intervenire in sede di autotutela amministrativa, al fine di evitare le eventuali ingerenze della criminalità organizzata nell’attività d’impresa.

Quanto detto risulta evidente anche dal disposto normativo del comma 3 dell’art. 84 del decreto legislativo n. 159/2011 in base al quale, le informative prefettizie hanno ad oggetto la verifica dell’esistenza di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa, tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate, da cui si evince che è sufficiente anche la mera eventualità che l’impresa possa, anche in via indiretta, favorire la criminalità.

In ambito giurisprudenziale, poi, il Consiglio di Stato ha individuato i principi ai quali si devono attenere le prefetture in sede di emanazione delle informative antimafia, in specie individuando gli elementi oggettivi rilevanti in materia ed evidenziando i criteri per la motivazione di tali misure. Nel dettaglio, si è affermato che “la motivazione del provvedimento prefettizio deve indicare gli elementi di fatto posti alla base di tale valutazione, desunti da provvedimenti giudiziari, atti di indagine, accertamenti svolti dalle Forze di Polizia in sede istruttoria ed esplicitare le ragioni in base alle quali, secondo la logica del <<più probabile che non>>, sia ragionevole dedurre da uno o più di tali elementi indiziari, gravi, precisi e, se plurimi, anche concordanti il rischio di infiltrazione mafiosa nell’impresa anche solo eventualmente, per relationem, con richiamo ai provvedimenti giudiziari o agli atti delle stesse Forze di Polizia, laddove già contengano con chiarezza il percorso logico di siffatta valutazione” (cfr. Cons. Stato, sez. III, 3 maggio 2016 n. 17343).

Ultimo elemento di rilevo appare l’individuazione della ratio dell’istituto, individuata dal Supremo Consesso di Giustizia Amministrativa il quale afferma che “nella salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della pubblica Amministrazione: l’interdittiva antimafia comporta che il Prefetto escluda che un imprenditore – pur dotato di adeguati mezzi economici e di una adeguata organizzazione – meriti la fiducia delle Istituzioni (vale a dire che risulti «affidabile») e possa essere titolare di rapporti contrattuali con le pubbliche Amministrazioni o degli altri titoli abilitativi, individuati dalla legge” (Cons. Stato, Sez. III, 16 giugno 2016 n. 2683).

Così, sia pure brevemente, ricostruita la normativa in tema di informativa antimafia, appare opportuno precisare come in sede di emanazione dell’informativa antimafia l’equilibrata ponderazione dei contrapposti valori costituzionali in gioco, la libertà di impresa, da un lato, e la tutela dei fondamentali beni che presidiano il principio di legalità sostanziale, secondo la logica della prevenzione, richiedono alla Prefettura un’attenta valutazione dei diversi elementi, che devono offrire un quadro chiaro, completo e convincente del pericolo di infiltrazione mafiosae a sua volta impongono al giudice amministrativo, nel sindacato sulla motivazione, un altrettanto approfondito esame di tali elementi, singolarmente e nella loro intima connessione, per assicurare una tutela giurisdizionale piena ed effettiva contro ogni eventuale eccesso di potere da parte del Prefetto nell’esercizio di tale ampio, ma non indeterminato, potere discrezionale.

Venendo, ora, ad approfondire l’analisi dell’aspetto temporale, oggetto della decisione in commento, si ricorda che con precedente pronuncia della medesima Sezione (Cons. Stato, sez. III, 21 gennaio 2019, n. 515) il Supremo Consesso amministrativo ha affermato che il mero decorso del tempo, di per sé solo, non implica la perdita del requisito dell’attualità del tentativo di infiltrazione mafiosa e la conseguente decadenza delle vicende descritte in un atto interdittivo, né l’inutilizzabilità di queste ultime quale materiale istruttorio per un nuovo provvedimento, donde l’irrilevanza della risalenza dei dati considerati ai fini della rimozione della disposta misura ostativa, occorrendo, piuttosto, che vi siano tanto fatti nuovi positivi quanto il loro consolidamento, così da far virare in modo irreversibile l’impresa dalla situazione negativa alla fuoriuscita definitiva dal cono d’ombra della mafiosità.

Principio in toto ribadito dai Giudici con la sentenza in esame.

Da ultimo, la III sezione ha posto la sua attenzione su un ulteriore profilo, relativo alla presenza, all’interno della società, di soggetti vicini agli ambienti della mala. Al riguardo è stato ritenuto sufficiente ricordare che proprio in relazione ai rapporti di parentela tra titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e familiari che siano soggetti affiliati, organici, contigui alle associazioni mafiose la Sezione con pronuncia del 7 febbraio 2018, n. 820 ha affermato che l’Amministrazione può dare loro rilievo laddove tale rapporto, per la sua natura, intensità o per altre caratteristiche concrete, lasci ritenere, per la logica del “più probabile che non”, che l’impresa abbia una conduzione collettiva e una regìa familiare (di diritto o di fatto, alla quale non risultino estranei detti soggetti) ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia mediante il contatto con il proprio congiunto. Nei contesti sociali, in cui attecchisce il fenomeno mafioso, all’interno della famiglia si può verificare una “influenza reciproca” di comportamenti e possono sorgere legami di cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza; una tale influenza può essere desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi costituzionali) che il parente di un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso, che la complessa organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della ‘famiglia’, sicché in una ‘famiglia’ mafiosa anche il soggetto, che non sia attinto da pregiudizio mafioso, può subire, nolente, l’influenza del ‘capofamiglia’ e dell’associazione. Hanno dunque rilevanza circostanze obiettive (a titolo meramente esemplificativo, ad es., la convivenza, la cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento nei medesimi fatti, che pur non abbiano dato luogo a condanne in sede penale) e peculiari realtà locali, ben potendo l’Amministrazione evidenziare come sia stata accertata l’esistenza – su un’area più o meno estesa – del controllo di una ‘famiglia’ e del sostanziale coinvolgimento dei suoi componenti.