Cassazione civile, Sezioni Unite,ord. 9 agosto 2018, n. 20682

In caso di riapertura del ruolo istruttorio per adempimenti aggiuntivi, il momento preclusivo alla proponibilità del regolamento preventivo di giurisdizione è individuato nell’ulteriore udienza di discussione fissata a seguito dell’esaurimento della nuova fase istruttoria.

In tema di concessioni di beni pubblici, sono soggette alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie che coinvolgono accertamenti e valutazioni circa il contenuto del rapporto concessorio e degli obblighi da esso nascenti.

La Suprema Corte a Sezioni Unite è chiamata in via preliminare a pronunciarsi sul regolamento preventivo di giurisdizione ai sensi dell’art. 41 c.p.c. e secondo i parametri del difetto di giurisdizione di cui all’art. 37 c.p.c.

A tal proposito, prima di poter procedere all’esame del merito, il giudice è chiamato a verificare l’ammissibilità del ricorso, in quanto presentato a seguito della rimessione alla fase istruttoria della causa già trattenuta in decisione.

Come noto il codice di procedura civile nel disciplinare il regolamento di giurisdizione ne dispone la proponibilità “finché la causa non sia decisa nel merito in primo grado […]” (art. 41 c.p.c.). Tuttavia, sia la dottrina che la giurisprudenza hanno provveduto nel tempo ad interpretare estensivamente la disposizione legislativa, ampliando le casistiche di ammissibilità del ricorso medesimo, come nel caso esaminato con la decisione in commento.

Infatti, la ratio posta alla base della preclusione è chiaramente quella di impedire una valutazione preventiva sulla giurisdizione da parte della Suprema Corte a Sezioni unite quando ormai la causa è rimessa ai poteri decisori del giudice e si apre una fase, preclusa all’intervento delle parti, che culmina con la pubblicazione della decisione. Tanto più che il regolamento preventivo non costituisce mezzo di impugnazione, ma autonomo procedimento che sopravvive all’eventuale estinzione del giudizio che l’ha originato (art. 310 c.p.c.) e la sua trattazione, a seguito della modifica all’art. 367 c.p.c., non comporta più la sospensione automatica del processo di merito. La sospensione, infatti, è riconosciuta solo se il giudice non ritenga l'istanza manifestamente inammissibile o infondata; si evita così un uso pretestuoso e dilatorio dello strumento cui in precedenza si era assistito.

Nel caso di specie, pacificamente riproponendo quanto già statuito in passato[1], la Suprema Corte esclude che il regolamento non sia ammissibile quando la causa, seppur precedentemente trattenuta in decisione, sia poi rimessa alla fase istruttoria per ulteriori adempimenti. Si perde, in tal caso, il collegamento immediato e diretto tra il trattenimento in decisione e la decisione stessa, frapponendo una nuova fase istruttoria che rimette in discussione lo stesso formarsi del libero convincimento del giudice, per l’aggiunta di eventuali nuovi elementi di prova nel giudizio.

Superata la questione preliminare proponibile anche nei giudizi pendenti dinanzi alla magistratura amministrativa in forza dell’art. 10 c.p.a., il giudice di legittimità passa all’esame del merito della decisione.

Si tratta, in fatto, di un contratto di concessione di alcuni locali ad uso libreria stipulato tra la Pubblica Amministrazione ed il privato, a conclusione di un’apposita gara ad evidenza pubblica, rimodulato ed integrato con due successive negoziazioni. In forza di tali modifiche si dispone che il concessionario possa avvalersi anche di soggetti terzi per l’esecuzione della concessione medesima e si stipula, pertanto, ulteriore contratto di locazione tra il concessionario ed altra società finalizzato allo svolgimento di attività di book cafè.

Durante la seconda fase istruttoria del giudizio di merito dinanzi al giudice amministrativo, la parte privata propone regolamento di giurisdizione, sostenendo la giurisdizione del giudice ordinario sulla base dell’assunto per cui vertendo in materia di adempimento di un contratto di concessione non vi sarebbe esercizio di alcun potere autoritativo della P.A.

La decisione, dunque, richiama l’approfondimento di due questioni: l’una relativa al riparto di giurisdizione in tema di concessione demaniale di beni e servizi ed alle modalità del suo utilizzo, l’altra più generale e ad essa collegata relativa al concetto stesso di potere pubblico.

La distinzione tra giurisdizione ordinaria e amministrativa nasce con l’attribuzione al Consiglio di Stato di specifiche funzioni giurisdizionali, a seguito dell’istituzione della Va sezione. Con il concordato giurisdizionale del 1929 tra Cassazione e Consiglio di Stato e con le decisioni dei due massimi plessi giudiziali degli anni trenta si supera la teoria della prospettazione fondata sulla consistenza formale della pretesa azionata nel giudizio così come delineata dal ricorrente in termini di annullamento (questione devoluta al G.A.) o di risarcimento (questione devoluta al G.O.), in favore della teoria della causa petendi, basata sull’analisi dell’effettiva consistenza sostanziale della posizione giuridica soggettiva dedotta in giudizio in termini di diritto soggettivo (giurisdizione del G.O.) o di interesse legittimo (giurisdizione del G.A.)[2].

Tanto più che l’art. 103 Cost. individua il giudice amministrativo come giudice naturale per la tutela degli interessi legittimi, disponendo un eventuale sindacato sui diritti soggettivi solo in via residuale.

Ben noti sono poi i dibattiti seguiti all’individuazione del corretto inquadramento dogmatico della nozione di causa petendi. All’iniziale distinzione tra attività di imperio ed attività di gestione, secondo la quale quando la P.A. agisce esercitando un potere pubblico la posizione soggettiva del privato collegata è quella di interesse legittimo radicando la giurisdizione del G.A., mentre qualora intervenga tramite attività gestionali proprie del soggetto privato è in gioco la tutela di un diritto soggettivo, come tale devoluta alla cognizione del G.O., si è sostituta quella tra norme di relazione e norme di azione.

In particolare, avendo come riferimento la norma violata, si è detto che la P.A. che contravvenga un precetto attributivo di potere o che ne disciplina l’esercizio radica una posizione di interesse legittimo del privato, mentre qualora la norma disattesa attenga ad un rapporto paritetico tra le controparti l’amministrazione si relaziona con un diritto soggettivo con relativa giurisdizione del G.O.

Anche in tal caso, tuttavia, la distinzione non è andata esente da critiche, posta la concreta difficoltà di individuare le due tipologie di norme, tanto più che non sempre è verificato a monte il rapporto biunivoco tra norme di relazione – diritto soggettivo e norma di azione – interesse legittimo.

Persino l’ulteriore classificazione dell’attività della P.A. in attività vincolata ed attività discrezionale ha prodotto contrapposte posizioni giurisprudenziali. L’assunto in base al quale quando la norma riserva all’amministrazione un margine di discrezionalità la corrispondente posizione giuridica del privato è sempre quella di interesse soggettivo, mentre in relazione ad una norma che disponga un’attività vincolata della P.A. vi sarebbe in ogni caso un diritto soggettivo contrapposto, non consente di distinguere tra attività amministrativa discrezionale ed attività tecnico-discrezionale, escludendo a priori la possibilità in cui ad un’attività vincolata si contrapponga una posizione di interesse legittimo[3].

L’insufficienza definitoria di una tale dicotomia si desume anche dall’art. 21 octies, comma 2 L. n. 241/1990 laddove prevede l’impossibilità di procedere all’annullamento dell’atto amministrativo, adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, emanato in conseguenza dell’esercizio di un’attività vincolata, al ricorrere di particolari condizioni, implicitamente riconoscendo la giurisdizione del giudice amministrativo sul punto.

La distinzione rileva semmai sul diverso piano del sindacato giudiziale e sui poteri, maggiori o minori, riconosciuti al giudice nel processo, anche nell’estrema conseguenza di un intervento sostitutivo dell’amministrazione.

Il parametro dominante nell’attuale giurisprudenza ai fini del riparto di giurisdizione tra G.O e G.A. resta tuttavia quello basato sulla contrapposizione tra carenza di potere e cattivo uso di potere. Si sostiene, infatti, che quando vi è l’attribuzione di un potere, seppur male esercitato, il giudice competente a conoscere della controversia è il G.A., mentre qualora difetti in radice il potere stesso la cognizione spetta al G.O. La Cassazione, poi, (facendo leva sulla teoria dell’affievolimento del diritto secondo cui l’atto amministrativo incide sull’iniziale posizione del privato, degradando il diritto soggettivo in interesse legittimo che si riespande con il venir meno dell’atto medesimo) ha come noto ulteriormente distinto all’interno della macrocategoria della carenza di potere quella in astratto e quella in concreto, disponendo che solo in relazione alla seconda vi sia un’ipotesi di violazione di uno dei presupposti ai quali la norma subordina l’esercizio del potere, con le ulteriori problematiche sorte in relazione alla corretta perimetrazione della locuzione “difetto assoluto di attribuzione” nell’atto amministrativo nullo ai sensi dell’art. 21 septies L. n. 241/1990.

A monte del dibattito sorto tra G.O. e G.A. sulla giurisdizione, dunque, vi è in ogni caso la nozione di potere pubblico definita grazie ai ripetuti interventi del giudice costituzionale sul punto. Con tre sentenze capisaldi della materia, la Corte costituzionale interviene da un lato confermando che il riparto di giurisdizione deve essere fondato sul criterio del petitum sostanziale  e non piuttosto sul riparto operato dal legislatore per blocchi di materie che restano ipotesi residuali[4], dall’altro facendo rientrare nella nozione di pubblico potere anche quei comportamenti della P.A. che sono riconducibili, anche mediatamente, all’esercizio di tale potere[5] ed infine smentendo l’assunto per cui “dove c’è diritto non c’è potere” e riconoscendo che anche in presenza di un potere amministrativo possa sussistere un contrapposto diritto fondamentale da tutelare[6].

Anche se la questione comporterebbe ulteriori riflessioni non approfondibili in questa sede, è necessario precisare che la nozione di potere autoritativo ha posto problemi di coordinamento con la distinzione tra atti amministrativi di natura autoritativa e non autoritativa inserita dal comma 1 bis dell’art. 1 della L. n. 241/1990, così come introdotto dalla L. n. 15/2005.

In relazione al caso di specie, la Suprema Corte, in linea con le proprie precedenti decisioni, interviene nuovamente sulla materia del riparto di giurisdizione in tema di concessioni di beni e servizi pubblici. Riconfermando la giurisdizione del giudice amministrativo, non sostiene le tesi del ricorrente secondo cui dovrebbe invece riconoscersi la giurisdizione del giudice ordinario per mancanza di esercizio di potere autoritativo dell’amministrazione.

In particolare, osserva come l’art. 133, comma 1, lett. c) c.p.a. (già art. 5 L. n. 1034/1971) sulle controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni, laddove specifica che le azioni aventi oggetto “indennità, canoni ed altri corrispettivi […]” non rientrano nella giurisdizione esclusiva del G.A., non intende, a contrario, istituire un’autonoma ipotesi di giurisdizione esclusiva del G.O., bensì ribadire che in queste ipotesi potrà nuovamente applicarsi il criterio del petitum sostanziale.

Di talché saranno devolute alla giurisdizione del G.O. quelle controversie relative ad indennità, canoni ed altri corrispettivi del rapporto concessorio tra amministrazione e privato che abbiano mero contenuto patrimoniale, mentre resteranno nella giurisdizione amministrativa quelle controversie che coinvolgano l’esercizio di poteri discrezionali riguardanti la determinazione del canone, dell’indennità e degli altri corrispettivi, ovvero le remunerazioni collegate al contratto condizionate da atti autoritativi della P.A. concedente[7].

Analogamente, la Suprema Corte aveva riconosciuto, ad esempio, la giurisdizione del giudice amministrativo in tema di determinazione del canone di concessione di beni del demanio marittimo, in quanto sussiste un potere discrezionale dell’Amministrazione, derivante dalla previsione legislativa di un canone minimo che la P.A. può discrezionalmente aumentare considerando le caratteristiche oggettive, le capacità reddituali dei beni e le effettive utilizzazioni consentite[8].

D’altra parte già in precedenti decisioni era stata individuata la giurisdizione del G.A. sul tema in oggetto anche in assenza di impugnativa di un atto o provvedimento amministrativo, purché la controversia coinvolga il rapporto concessorio oggetto di giurisdizione esclusiva e, dunque, il contratto stesso nel suo aspetto genetico o funzionale[9].

Parimenti, quindi, saranno devolute al G.A. tutte quelle questioni concernenti il contenuto dell'atto e i relativi diritti e obblighi dell'amministrazione e del concessionario, nonché quelle riguardanti la durata del rapporto o la rinnovazione del medesimo. Il giudice ordinario, invece, potrà conoscere delle azioni tese al rilascio dei beni oggetto di concessione, purché non sia in contestazione l'esistenza del rapporto concessorio stesso[10].


[1]Cass. civ. [ord.], Sez. un., 11 aprile 2017, n. 9283 ;Id., 23 marzo 2015, n. 5747; Id., 1 dicembre 2009, n. 25256.

[2]Cons. Stato, Sez. VI, 11 luglio 2017, n. 3418; Cass. civ.,[ord.], Sez. un., 11 ottobre 2011, n. 20902; Cons. Stato, Sez. V, 24 giugno 2011, n. 3814.

[3]Cons. Stato, Ad. plen., 24 maggio 2007, n. 8.

[4]Corte cost., 6 luglio 2004, n. 204.

[5]Corte cost., 11 maggio 2006, n. 191.

[6]Corte cost., 27 aprile 2007, n. 140.

[7]Cass. civ., Sez. un., 12 ottobre 2011, n. 20939; Id., 31 marzo 2005, n. 6744.

[8]Cass. civ., Sez. un., 11 giugno 2001, n. 7861.

[9]Cass. civ., Sez. un., 26 giugno 2003, n. 10157.

[10]Cass. civ., Sez. un., 6 giugno 2002, n. 8227.