Art. 83, comma 10, D.Lgs. 50/2016

il punto della situazione

La nozione di rating delle imprese è un concetto di grande interesse a motivo dei suoi risvolti economici e giuridici.

Sul piano del diritto amministrativo, da un punto di vista generale, il rating rappresenta uno strumento finalizzato ad avvicinare il sistema della contrattualistica pubblica ai meccanismi operanti nel mercato tra privati, un mezzo che indica la possibilità di misurazione della reputazione di un operatore economico aspirante aggiudicatario, tramite la valutazione delle pregresse attività. Esso, in particolare, attiene principalmente al perseguimento dell’efficienza anche nell’ambito del public procurement, considerando la reputazione non tanto in termini di affidabilità morale del soggetto offerente, quanto in termini squisitamente oggettivi e, dunque, in base a indici misurabili.[1]

Il nuovo Codice dei contratti pubblici ha, infatti, introdotto l’istituto proprio al fine di consentire una migliore qualificazione dei partecipanti e delle loro, rispettive, offerte.

Come è stato osservato, “a livello ordinamentale, il rating è strumento inteso ad assicurare che nel mercato regolato dei contratti pubblici operino solamente soggetti affidabili, in maniera tale da contribuire alla realizzazione dell’efficienza del mercato stesso”.[2]

Più nello specifico, l’istituzione di un simile sistema è stata prevista dall’art. 83, comma 10, D.Lgs. 50/2016 – così come modificato, in accoglimento della segnalazione dell’ANAC del 1° febbraio 2017, n. 2, dal correttivo adottato con D.Lgs. 19 aprile 2017, n. 56 - nel quale si stabilisce che la relativa disciplina di regolazione e gestione del sistema è demandata all’ANAC, chiamata a definire con apposite linee guida (ad oggi, non ancora definitivamente adottate) i requisiti su cui esso si basa, i criteri di valutazione e le modalità di rilascio della certificazione. Tuttavia, la grande novità introdotta dal Correttivo riguarda il “declassamento”, da obbligatorio e meramente facoltativo, dell’istituto in esame che, in tal modo, non può più essere considerato come condizione necessaria per la partecipazione.

A ciò si deve aggiungere, inoltre, l’eliminazione del riferimento presente nella disposizione originaria al diverso concetto di rating di legalità,[3] espunto in quanto afferente ai requisiti soggettivi dell’impresa - piuttosto che a quelli di natura oggettiva utili ai fini del rating di impresa - e, come tale, non adatto a rappresentare elemento costitutivo dell’istituto in commento.[4]

Inoltre, nella versione originaria della disposizione, era stabilito che il rating d’impresa si applicasse ai soli fini della qualificazione delle imprese, incidendo solamente sulla selezione degli offerenti. Il Correttivo, invece, modificando l’ambito di applicazione dell’istituto, ha espunto la suddetta limitazione e ne ha esteso, implicitamente, l’operatività anche alla fase dell’aggiudicazione, seppur la rubrica dell’articolo di riferimento faccia riferimento espresso ai soli criteri di selezione, opponendosi apparentemente a questa estensione (fermo, ad ogni modo, il fatto che “rubrica non facit legem”).

A conferma di ciò e dell’importanza accordata a entrambi i modelli di rating dall’ordinamento, occorre considerare che il riferimento ai due indicatori è presente nel testo dell’art. 95, comma 13, del Codice nell’ambito dell’offerta economicamente più vantaggiosa, individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo, ove è previsto che, “compatibilmente con il diritto dell’Unione europea e con i principi di parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, le amministrazioni aggiudicatrici indicano nel bando di gara, nell’avviso o nell’invito, i criteri premiali che intendono applicare alla valutazione dell’offerta in relazione al maggior rating di legalità e di impresa dell’offerente […]”.

Questa previsione conferma, sotto l’aspetto dell’ambito operativo dell’istituto, nato espressamente, come detto, per la qualificazione delle imprese e, dunque, per l’ammissione degli operatori economici, che il rating d’impresa abbia ora anche un carattere sostanziale, rilevando direttamente nella fase di valutazione delle offerte. Una riprova di ciò proviene, altresì, dall’art. 93, comma 7, così come modificato dal Correttivo, secondo cui nei contratti di servizi e forniture, l’importo della garanzia per la partecipazione alla procedura e del suo eventuale rinnovo è ridotto del 30% per gli operatori economici in possesso del rating d’impresa (e non più, solo, di quello di legalità).

Tuttavia, a onor del vero, una simile disciplina sembrerebbe sollevare un problema di eccesso di delega, dunque di contrasto con l’art. 76 Cost., dal momento che il legislatore delegante ha espressamente previsto il rating d’impresa unicamente ai fini di qualificazione degli operatori. Inoltre, potrebbe porsi un problema di commistione tra elementi soggettivi ed elementi oggettivi, considerando i primi come inerenti esclusivamente alla selezione degli offerenti e i secondi alla distinta fase di valutazione delle offerte.

Secondo questo fondamentale principio (i.e. divieto di commistione) posto dalla giurisprudenza sovranazionale a partire dalla nota sentenza della Corte di Giustizia, 20 settembre 1988, C-31/87, “Beentjes” – e, in seguito, recepito anche dalla giurisprudenza nazionale -, occorrerebbe dunque tenere separati gli elementi che determinano l’ammissione da quelli che incidono sull’aggiudicazione, essendo la prima incentrata sui requisiti soggettivi, mentre la seconda su quelli oggettivi.

Tuttavia, occorre comunque tener presente che, grazie ad alcune pronunce del giudice amministrativo che hanno preferito leggere il divieto di commistione alla luce del principio di proporzionalità, in certe tipologie di appalti anche fattori quali la pregressa esperienza del soggetto economico possono contribuire alla valutazione della sua offerta. In sintesi, la previsione di un criterio soggettivo tra quelli di aggiudicazione non può essere esclusa a priori, prescindendo da qualsiasi apprezzamento concreto, ma deve dipendere dalla verifica “dell’eventuale correlazione tra l’elemento di valutazione contestato rispetto alla qualità dell’offerta, al fine di stabilire se vi sia diretta proporzionalità tra la grandezza del primo e la grandezza della seconda” (Cons. St., sez. V, 20 agosto 2013, n. 4191; conf., Cons. St., sez. V, 16 febbraio 2009, n. 837; Cons. St., sez. VI, 18 settembre 2009, n. 5626).

Tornando alla disciplina dell’istituto, il legislatore ha previsto in capo alle cc.dd. SOA (società organismi di attestazione) il dovere di attestazione del possesso di certificazione del rating d’impresa rilasciata dall’ANAC (cfr., art. 84, comma 4, lettera d, del Codice, secondo cui i soggetti esecutori a qualsiasi titolo di lavori pubblici di importo pari o superiore a 150.000 euro dimostrano il possesso dei requisiti di qualificazione mediante attestazione da parte delle SOA. Tale attestazione comprova, oltre all’assenza di motivi di esclusione, al possesso dei requisiti di capacità economica e finanziaria e tecniche e professionali, di certificazioni di sistemi di qualità, anche “il possesso di certificazione del rating di impresa, rilasciata dall’ANAC”).

Come si legge nello schema di linee guida adottato dall’Autorità di settore e sottoposto a consultazione, il punto riguarda il fatto che “l’attestazione SOA attesta i requisiti generali e speciali in un determinato istante, mentre il rating di impresa ha natura dinamica, destinato cioè a modificarsi ogni volta che vengono acquisite nuove informazioni sulla performance passata dell’impresa. Questa caratteristica, invero, è comune anche con altri requisiti, soprattutto generali, attestati dalle SOA. Per i requisiti di carattere generale, il codice dei contratti pubblici ha previsto l’obbligo delle stazioni appaltanti di verificarli di nuovo in fase di gara; analogamente dovrebbe prevedersi per il rating di impresa. In questo caso le SOA potrebbero attestare la richiesta del rating di impresa e la stazione appaltante, per le finalità di cui agli articoli 95, comma 13, e 93, comma 7, del codice dei contratti pubblici dovrebbe verificare sul sito di ANAC il valore del rating. Si tratta di una previsione che a ben vedere non appare apportare alcun valore aggiunto all’attestato di qualificazione”.[5]

In particolare, non è chiaro se le SOA debbano riportare il punteggio posseduto dall’impresa oppure certificare semplicemente il possesso del rating.

Come già anticipato, nella prima versione della disciplina, diversamente dal rating di legalità, il rating d’impresa era obbligatorio: di conseguenza, era inutile demandare alle SOA l’attestazione del possesso di una certificazione che l’ANAC avrebbe dovuto rilasciare a ciascun operatore, essendo invece preferibile un’interpretazione sistematica volta al riconoscimento, in capo alle stesse, della possibilità di attestazione del relativo punteggio. La modifica apportata dal Correttivo, avendo reso facoltativo l’istituto in esame, sembrerebbe tuttavia aver sposato la tesi secondo cui agli organismi di attestazione spetta soltanto il compito di attestare il possesso del rating.

Ciò detto, un altro problema potrebbe porsi sul piano della compatibilità fra ordinamento interno e sovranazionale: occorrerebbe, infatti, domandarsi se l’introduzione del rating d’impresa non contrasti con il principio di gold plating, ossia con il divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive europee, poiché il diritto europeo sembrerebbe non conoscere un simile meccanismo di qualificazione.

Il diritto dell’Unione, infatti, prevede esclusivamente, all’art. 58, comma 4, Direttiva 2014/24/UE sui criteri di selezione, la possibilità che le amministrazioni aggiudicatrici possano imporre requisiti per garantire che gli operatori economici possiedano l’esperienza necessaria per eseguire il contratto oggetto di gara e, sul piano dei criteri di aggiudicazione, che sia possibile considerare una certa rilevanza dell’esperienza del personale incaricato di eseguire l’appalto, ma solamente qualora la stessa possa avere un’influenza significativa sul livello dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 67, comma 2, della medesima Direttiva.

Inoltre, sul punto rileva altresì quanto previsto dal Considerando 101 della Direttiva, ove è specificato che “le amministrazioni aggiudicatrici dovrebbero continuare ad avere la possibilità di escludere operatori economici che si sono dimostrati inaffidabili, per esempio a causa di violazioni di obblighi ambientali o sociali […] o di altre forme di grave violazione dei doveri professionali, come le violazioni di norme in materia di concorrenza o di diritti di proprietà intellettuale. È op­portuno chiarire che una grave violazione dei doveri professionali può mettere in discussione l’integrità di un operatore economico e dunque rendere quest’ultimo ini­doneo ad ottenere l’aggiudicazione di un appalto pub­blico indipendentemente dal fatto che abbia per il resto la capacità tecnica ed economica per l’esecuzione dell’ap­palto”. In aggiunta, è chiarito che le suddette amministrazioni “dovrebbero anche poter escludere candidati o offerenti che in occasione dell’esecuzione di precedenti ap­palti pubblici hanno messo in evidenza notevoli mancanze per quanto riguarda obblighi sostanziali, per esempio mancata fornitura o esecuzione, carenze significative del prodotto o servizio fornito che lo rendono inutiliz­zabile per lo scopo previsto o comportamenti scorretti che danno adito a seri dubbi sull’affidabilità dell’operatore economico.

Da ciò risulta chiaramente che la reputazione degli operatori, sul piano del diritto sovranazionale, riguarda soprattutto la valutazione delle performance negative, essendo contemplata per la sola ipotesi di esclusione dell’impresa che abbia tenuto comportamenti scorretti, senza invece alcuna previsione sulla possibilità di recare vantaggio al soggetto che abbia svolto in modo efficace ed efficiente la sua precedente prestazione.

È per tale ragione che il diritto dell’Unione mira alla considerazione della reputazione (“negativa”) solo in vista della selezione ovvero qualificazione dell’impresa concorrente, potendo incidere solamente sulla fase di ammissione e non anche su quella sostanziale di valutazione delle offerte (a eccezione dell’inciso previsto dal già citato art. 67, comma 2, della Direttiva).

Per simili ragioni, dunque, appare quantomeno dubbio il rispetto della normativa interna – soprattutto così come modificata dal Correttivo - del suddetto divieto di gold plating.[6]

 


[1] Cfr., F. De Santis, Il c.d. rating di impresa, in Il Codice dei contratti pubblici dopo il Correttivo, F. Caringella, M. Protto (a cura di), Dike, 2017, p. 416.

[2] L. Galli, M. Ramajoli, Il ruolo della reputazione nel mercato dei contratti pubblici: il rating d’impresa, in Rivista della Regolazione dei mercati, 2017, Fasc. 1, p. 65.

[3] Da un punto di vista generale, è certo che il rating di legalità, introdotto art. 5-ter, D.L. n. 1/2012 e la cui attribuzione alle imprese, previa loro istanza, è affidata all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, presenti più un carattere etico che prestazionale (sul punto, cfr. Delibera AGCM, 14 novembre 2012, n. 24075, recante “Regolamento attuativo in materia di rating di legalità”).

[4] Resta, in realtà, un problema di coordinamento – dovuto, semplicemente, a un probabile refuso - fra quanto riferito e l’articolo 213, comma 7, del Codice, laddove si afferma che «il rating di legalità concorre anche alla determinazione del rating di impresa di cui all’articolo 83, comma 10». Tuttavia, in applicazione del criterio cronologico di risoluzione delle antinomie, quest’ultima norma deve ritenersi tacitamente abrogata perché contrastante con una norma successiva.

 

[5] Sul punto, cfr. S. Luce, I requisiti degli operatori economici, in I contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, Ambito oggettivo e soggettivo. Procedure di affidamento, R. De Nictolis (a cura di), Milano, 2007, pp. 465 e ss. 

[6] Sulla nozione di gold plating, cfr. C. Contessa, D. Crocco, Il nuovo codice degli appalti commentato, Roma, 2016.