Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, Sezione Prima di Catania, 21 luglio 2016, n.1948

1) Nell’ipotesi di aggiudicazione in via giudiziale di una gara di appalto, per quanto riguarda il risarcimento del danno afferente al mancato utile per quella parte dei lavori eseguiti dalla controinteressata durante la pendenza del giudizio, non sussiste la necessità di riscontrare l’elemento soggettivo, dovendosi verificare la sola sussistenza degli altri requisiti richiesti dall’ordinamento (e cioè la lesione della situazione soggettiva tutelata, l’esistenza di un danno patrimoniale e la sussistenza del nesso causale tra l’illecito ed il danno subito).

2) Nei giudizi risarcitori in tema di appalti sussiste la responsabilità oggettiva dell'Ente, che risponde del danno causato, risultando ininfluente la clausola di esonero da responsabilità, contenuta nel contratto stipulato dall’Amministrazione con l'impresa che esegue i lavori durante la pendenza del giudizio, per il caso di sentenza definitiva che dia torto a quest'ultima.

3) Anche dopo la specificazione per il processo amministrativo – con l’articolo 124 del decreto legislativo 104/2010, relativo alla “tutela in forma specifica e per equivalente” – della regola secondo la quale il danno per equivalente, per essere risarcibile, oltre che subìto deve essere anche “provato”, l'orientamento secondo il quale il margine di guadagno presunto nell'esecuzione di appalti di lavori pubblici va individuato in modo forfettario e automatico nel 10% non risulta incompatibile con l'orientamento che richiede al soggetto ricorrente la prova rigorosa dell'esistenza del danno, essendo a questo fine sufficiente l'esibizione in giudizio dell'offerta economica presentata al seggio di gara.

4) Nella determinazione del risarcimento del danno in materia di appalti, onde evitare manifeste aporie applicative, è da escludersi che il soggetto ricorrente debba provare l’assenza dell’aliunde perceptum, perché in via generale l’attore-danneggiato è tenuto a provare i fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio e la parte debitrice i fatti estintivi e modificativi del credito.

Guida alla lettura.

di Giovanni Mandolfo

La Prima Sezione del Tribunale Amministrativo di Catania, con la sentenza sopra richiamata, affronta il tema del risarcimento del danno per il mancato utile dell'impresa che, risultata aggiudicataria in via giudiziale, non ha potuto eseguire i lavori oggetto dell'appalto, essendo gli stessi stati eseguiti medio tempore dalla controinteressata.

La vicenda, in particolare, riguarda una società che, a seguito dell’annullamento dell'originaria aggiudicazione e di certezza dell'aggiudicazione in suo favore, non ha potuto soddisfare il proprio interesse al bene della vita, perché i lavori sono stati nel frattempo eseguiti dalla controinteressata, sicché ha proposto un ulteriore ricorso per il riconoscimento del proprio diritto al risarcimento del danno per il mancato utile afferente a quella parte di lavori che non ha potuto eseguire.

Le questioni di particolare interesse possono essere così sintetizzate:

1) Il Tribunale, in primo luogo, ha ritenuto non necessario dover riscontrare l’elemento soggettivo, solitamente richiesto per la configurabilità del danno risarcibile, escludendo che nell’ipotesi di annullamento dell’aggiudicazione sussista la necessità di dover riferire l'evento dannoso a dolo o colpa dell'Amministrazione.

A tale conclusione è giunto dopo aver passato in rassegna gli orientamenti giurisprudenziali che si sono succeduti negli anni, nonché sulla base della considerazione che i principi generali di diritto comunitario in materia di effettività della tutela vanno estesi a tutto il campo degli appalti pubblici, in cui tali principi hanno diretta rilevanza ed incidenza, anche in ragione del richiamo che ad essi viene fatto dall'articolo 2 del decreto legislativo 163/2006.

La soluzione prescelta - incidente peraltro anche sulla questione di cui si dirà al punto successivo - rappresenta una sintesi delle argomentazioni di diritto che in estrema sintesi si richiamano.

- In un primo tempo – come è noto - ai fini della risarcibilità del danno ingiusto in materia di appalti, si era ritenuto che l'accertata illegittimità dell'aggiudicazione fosse di per sé sufficiente a ravvisare la presenza dell’elemento soggettivo della colpa dell'Amministrazione.

- Successivamente, la giurisprudenza si è mostrata più restrittiva, richiedendo lo svolgimento di una indagine non limitata al solo accertamento dell’illegittimità dell’atto amministrativo in relazione alla normativa applicabile, bensì estesa anche alla valutazione della colpa della Pubblica Amministrazione intesa come apparato; sicché si è ritenuto di poter configurare la sussistenza della colpa, considerata in senso oggettivo, nel solo caso di accertamento della violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione (al contrario negandola in presenza di un errore scusabile, come nell'ipotesi di contrasti giurisprudenziali, incertezza del quadro normativo di riferimento o complessità della situazione di fatto).

- La Terza Sezione della Corte di Giustizia CE, con la pronuncia del 30 settembre 2010 (causa C-314/2009), avendo ritenuto che gli Stati membri non possono subordinare la concessione del risarcimento al riconoscimento del carattere colpevole della violazione della normativa sugli appalti pubblici, ha affermato che la direttiva del Consiglio 21 dicembre 1989, 89/665/CEE deve essere interpretata nel senso che osta ad una normativa nazionale, che subordini il diritto ad ottenere un risarcimento al carattere colpevole della violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte dell’Amministrazione aggiudicatrice.

Il Tribunale Amministrativo di Catania quindi, coerentemente con tale ultimo orientamento, ha sposato la tesi secondo cui l’accertamento della sussistenza della colpa, sebbene nel senso oggettivo sopra chiarito, è da ritenersi ormai privo di importanza, con ciò rendendo meno difficoltoso per il soggetto ricorrente raggiungere il soddisfacimento del proprio interesse al bene della vita.

2) Il Tribunale in secondo luogo – enunciando un ulteriore principio di interesse - ha ritenuto infondata l’eccezione processuale di difetto di legittimazione passiva, che l’Amministrazione ha formulato in ragione della clausola di esonero di responsabilità, contenuta nel contratto stipulato con la controinteressata esecutrice medio tempore dei lavori, per il caso di sentenza definitiva di merito che desse torto a quest’ultima.

Si legge nella decisione sopra richiamata, sulla base della già rilevata responsabilità oggettiva dell'Ente, che solo l’Amministrazione può essere chiamata a rispondere del danno causato, restando escluso che la controinteressata possa essere condannata a risarcire la ricorrente del mancato utile di impresa relativo alla quota di lavori da essa effettuata, potendo semmai l’invocata previsione contrattuale legittimare una azione di rivalsa.

3) La terza delle questioni affrontate dal Tribunale Amministrativo riguarda la necessità, ai fini risarcitori, di provare il danno per equivalente, posto che l’articolo 124 del decreto legislativo del 2 luglio 2010 n.104, relativo alla “tutela in forma specifica e per equivalente”, stabilisce la regola secondo la quale tale danno deve essere anche “provato”[1].

Il Collegio, una volta osservato che l’onere probatorio sulla esistenza ("an") del danno previsto dall’articolo 2697 c.c. risulta assolto avendo la ricorrente dimostrato che con la corretta applicazione delle regole di gara sarebbe risultata aggiudicataria, affronta il tema del pregiudizio risarcibile, condividendo quella giurisprudenza che giunge ad una sintesi dei due orientamenti formatisi sul punto.

Ed invero, dopo aver richiamato l’orientamento che applica analogicamente in materia di appalti di servizi e forniture il riferimento positivo contenuto nelle disposizioni di legge che quantificano nel 10% “dell’importo delle opere non eseguite” il margine di guadagno presunto nell’esecuzione di appalti di lavori pubblici da corrispondere all’appaltatore in caso di recesso facoltativo dell’Amministrazione[2], ha ritenuto di non poter prescindere dall’insegnamento giurisprudenziale secondo il quale, ai fini del risarcimento dei danni provocati dall’illegittimo esercizio del potere amministrativo, il soggetto che avanza la domanda deve fornire in modo rigoroso la prova dell'esistenza di tali danni, non potendo invocare il c.d. principio acquisitivo, poiché tale principio attiene allo svolgimento dell'istruttoria e non all'allegazione dei fatti[3].

Il Collegio, quindi, una volta affermato che la percentuale del 10% del prezzo a base d'asta non può essere oggetto di applicazione automatica e indifferenziata, ha ritenuto che va posto a carico del soggetto ricorrente l’onere della prova di tale percentuale, chiarendo tuttavia che essa può essere desunta dall'esibizione dell'offerta economica presentata al seggio di gara[4].

4) Il Tribunale infine, ha preso posizione anche in relazione al principio messo a punto dalla giurisprudenza per il quale, in caso di annullamento dell'aggiudicazione e di contestuale certezza dell'aggiudicazione in favore del soggetto ricorrente, il mancato utile spetta a quest’ultimo nella misura integrale solo ove lo stesso dimostri di non aver potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, tenuti a disposizione in vista dell'aggiudicazione[5].

Tale principio, osserva puntualmente il Collegio, oltre a porsi in contrasto con quello generale, secondo il quale l’attore-danneggiato deve provare i fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio mentre spetta alla parte debitrice dimostrare i fatti estintivi e modificativi del credito, rischierebbe di precludere il risarcimento del danno per mancato utile in ragione dell’impossibilità o eccessiva difficoltà di provare il fatto negativo consistente nel mancato beneficio dello aliunde perceptum; sicché, al fine di evitare “manifeste aporie applicative”, è giunto alla condivisibile conclusione che grava sull’Amministrazione che eccepisca lo "aliunde perceptum" l’onere della allegazione e della relativa prova; anche in tal caso, quindi, adottando una soluzione che risulta coerente con la tesi per la quale l’interesse legittimo è da intendersi quale interesse soggettivo sostanziale ad una determinata utilità della vita, connesso all’esercizio legittimo dell’azione amministrativa.

 

 

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia

sezione staccata di Catania (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1567 del 2003, proposto da: 
Moncada Costruzioni Srl, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Francesco Iacono e Angelo Cacciatore, con domicilio eletto presso Federico Aquilotti in Catania, via V. Giuffrida, 202; 

contro

Provincia Regionale di Catania, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall'avv. Alfio Maria Ferlito, con domicilio eletto presso il suo studio in Via Prefettura 14 Ct; 
Libero Consorzio Comunale; 

nei confronti di

Agotron, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall'avv. Salvatore Cittadino, con domicilio eletto presso il suo studio in Catania, via O.Scammacca,23/C; 

per l'annullamento

della nota n. 6182 del 24 febbraio 2002, con la quale il Dirigente dell’area appalti della Provincia Regionale di Catania ha ritenuto che non sia dovuto il risarcimento danni derivante dalla parziale esecuzione dei lavori di completamento del Centro Fieristico di viale Africa da parte del RTI Coop. Agotron;

della nota numero 04/070303 del 7 marzo 2003, con la quale l’Ingegnere capo coordinatore del servizio ha ritenuto infondata la richiesta di riconoscimento del diritto alla corresponsione del prezzo chiuso;

e per il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno per mancato utile per quella parte di lavori fatta eseguire al RTI Coop. Agotron, nonché del prezzo chiuso.


 

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Provincia Regionale di Catania e di Agotron;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Visti gli artt. 74 e 120, co. 10, cod. proc. amm.;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 7 luglio 2016 il dott. Dauno Trebastoni e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


 

FATTO

Il ricorso in esame consegue a una complessa vicenda contrattuale, legata all’impugnazione dei provvedimenti relativi all’affidamento dei lavori inerenti il Centro Fieristico “Le Ciminiere” di Catania, a seguito della quale, mentre in primo grado veniva confermata la legittimità di tali provvedimenti, il giudice d’appello dava infine ragione alla attuale ricorrente, la quale non poteva però più soddisfare il proprio interesse al bene della vita, perché i lavori erano stati nel frattempo eseguiti dalla attuale controinteressata.

La Moncada Costruzioni ha così ritualmente introdotto il presente giudizio, al fine di vedersi riconoscere il diritto al risarcimento del danno per mancato utile per quella parte di lavori fatta eseguire al RTI Coop. Agotron, nonché il diritto al c.d. prezzo chiuso.

Alla pubblica udienza del 07.07.2016 la causa è stata posta in decisione.

DIRITTO

Il ricorso è fondato in parte, nei termini di seguito precisati.

1) Va rigettata la richiesta di riconoscimento del c.d. prezzo chiuso, perché l’art. 44 della L.R. 29.04.85 n. 21 prevedeva, al comma 2, che non fosse “comunque consentito ricorrere al prezzo chiuso quando la durata del contratto pattuita sia inferiore o pari a ventiquattro mesi”.

Ma come risulta dal contratto di appalto de quo, in atti, la durata era prevista in 12 mesi.

2) Per quanto riguarda il risarcimento del danno, in giurisprudenza si specifica tradizionalmente che esso non è una conseguenza automatica dell’annullamento giurisdizionale dell’aggiudicazione, richiedendosi la positiva verifica di tutti i requisiti previsti, e cioè la lesione della situazione soggettiva tutelata, la colpa dell’Amministrazione, l’esistenza di un danno patrimoniale e la sussistenza di un nesso causale tra l’illecito ed il danno subito (cfr., ex multis, Cons. St., sez. V, 28 maggio 2004 n. 3465).

Vale a dire che in caso di domanda di risarcimento dei danni proposta nei confronti di una pubblica Amministrazione, al fine di stabilire se la fattispecie concreta integri una ipotesi di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., si è sempre affermato che il giudice deve procedere, in ordine successivo, a svolgere le seguenti indagini: a) accertare la sussistenza di un evento dannoso; b) stabilire se il danno accertato sia qualificabile come danno ingiusto, in relazione alla sua incidenza su un interesse rilevante per l’ordinamento, tale essendo l’interesse indifferentemente tutelato nelle forme del diritto soggettivo, dell’interesse legittimo e dell’interesse di altro tipo, pur se non immediato oggetto di tutela in quanto preso in considerazione dall’ordinamento a fini diversi da quelli risarcitori; c) accertare sotto il profilo causale, facendo applicazione dei noti criteri generali, se l’evento dannoso sia riferibile ad una condotta dell’Amministrazione; d) stabilire se l’evento dannoso sia riferibile a dolo o colpa dell’Amministrazione.

Per quanto riguarda l’elemento soggettivo, in particolare, in precedenza la giurisprudenza sosteneva che ai fini della risarcibilità del danno ingiusto causato dall’Amministrazione al privato – a seguito di un atto amministrativo dichiarato illegittimo – la presenza dell’elemento soggettivo della colpa, ai fini dell’imputabilità, fosse di per sè ravvisabile nell’accertata illegittimità del provvedimento (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. III, 9 giugno 1995 n. 6542); e anzi che il risarcimento del danno conseguente all’illegittimità dell’atto spettasse a prescindere dall’indagine sulla colpa dell’Amministrazione (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. un., 22 ottobre 1984 n. 5361).

La Cassazione Civile, con la sentenza delle Sezioni Unite n. 500 del 22 luglio 1999, ha modificato il precedente tradizionale orientamento, affermando che non è più invocabile il principio secondo il quale la colpa della struttura pubblica sarebbe in re ipsa nel caso di esecuzione volontaria di atto amministrativo illegittimo (cfr. anche Cass., sez. I civ., 22 febbraio 2008 n. 4539), poiché tale principio, enunciato dalla giurisprudenza con riferimento all’ipotesi di attività illecita, per lesione di un diritto soggettivo, secondo la tradizionale interpretazione dell'art. 2043 c.c., non è conciliabile con la lettura di tale disposizione svincolata dalla lesione di un diritto soggettivo; e l’imputazione non può quindi avvenire sulla base del mero dato obiettivo della illegittimità dell’azione amministrativa, ma il giudice deve svolgere una più penetrante indagine, non limitata al solo accertamento dell’illegittimità del provvedimento in relazione alla normativa ad esso applicabile, bensì estesa anche alla valutazione della colpa, non del funzionario agente (da riferire ai parametri della negligenza o imperizia), ma della P.A. intesa come apparato, che sarà configurabile nel caso in cui l’adozione e l’esecuzione dell’atto illegittimo (lesivo dell’interesse del danneggiato) sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l'esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi, e che il giudice può valutare, in quanto si pongono come limiti esterni alla discrezionalità.

Una nozione oggettiva, cioè, che tenga conto dei vizi che inficiano il provvedimento, nonchè, in linea con le indicazioni della giurisprudenza comunitaria, della gravità della violazione commessa dall’Amministrazione, anche alla luce dell’ampiezza delle valutazioni discrezionali ad essa rimesse, dei precedenti giurisprudenziali, delle condizioni concrete e dell’apporto dato dai privati nel procedimento.

Pertanto, si è precisato che la responsabilità vada affermata quando la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimenti normativi e giuridici tale da palesare la negligenza e l’imperizia dell’organo nell’assunzione del provvedimento viziato, e che viceversa vada negata quando l’indagine conduca al riconoscimento di un errore scusabile, per la sussistenza di contrasti giurisprudenziali, per l’incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto (cfr., ex multis, Cons. St., sez. V, 13 aprile 2010 n. 2029).

Tale nozione della colpa di tipo oggettivo, del resto, derivava dal recepimento di analogo orientamento della giurisprudenza comunitaria, secondo cui gli Stati membri sono responsabili per i danni derivati ai singoli a causa di violazioni del diritto comunitario, tale principio trova applicazione anche nel caso in cui la violazione sia riferibile al legislatore nazionale, e il risarcimento dei danni per la violazione di diritti riconosciuti ai singoli dalla normativa comunitaria non può essere subordinato a comportamenti dolosi o colposi dell’organo statale, essendo sufficiente che l’inadempimento sia grave e manifesto e in connessione diretta con i danni derivati (cfr., ex multis, Corte giustizia CE, 5 marzo 1996 n. 46).

In altri termini, secondo il diritto comunitario perché sussista responsabilità extracontrattuale dello Stato è necessario che sia stata compiuta una violazione grave e manifesta del diritto comunitario, e una violazione va considerata tale anche quando lo Stato membro interessato (e, se del caso, l’ente pubblico substatale) dispone di un margine di discrezionalità considerevolmente ridotto, se non addirittura inesistente, nel porre in essere l’atto all’origine del danno. L’esistenza e l’ampiezza di questo margine di discrezionalità devono essere determinate con riferimento esclusivo al diritto comunitario, e per stabilire se la violazione di esso sia qualificabile come grave e manifesta, il giudice nazionale deve tener conto di tutti gli elementi che la caratterizzano, tra cui figurano il carattere intenzionale o involontario della violazione e del conseguente danno, la scusabilità o inescusabilità di un eventuale errore di diritto, il fatto che i comportamenti di un’istituzione comunitaria abbiano concorso all’adozione o al mantenimento in vigore del provvedimento contrario al diritto comunitario (cfr. Corte giustizia CE, 4 luglio 2000 n. 424).

Tali criteri sono stati in tutti questi anni utilizzati sia nella materia degli appalti, nell’ambito della quale vengono più facilmente in rilievo disposizioni comunitarie da applicare che riconoscono diritti ai singoli, e sia in qualsiasi altra materia in cui fosse da accertare la responsabilità di una pubblica Amministrazione a fini risarcitori.

Nella materia degli appalti, tale orientamento ha visto modificare i suoi principi cardine ad opera della pronuncia della Corte Giustizia CE, sez. III, 30 settembre 2010 (causa C-314/2009), a seguito della quale il profilo dell’accertamento della sussistenza della colpa, sebbene nel senso oggettivo sopra chiarito, è destinato a perdere ogni importanza, essendosi affermato che “la direttiva del Consiglio 21 dicembre 1989, 89/665/CEE, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale, la quale subordini il diritto ad ottenere un risarcimento, a motivo di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte di un’Amministrazione aggiudicatrice, al carattere colpevole di tale violazione, anche nel caso in cui l’applicazione della normativa in questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo all’Amministrazione suddetta, nonchè sull’impossibilità per quest’ultima di far valere la mancanza di proprie capacità individuali e, dunque, un difetto di imputabilità soggettiva della violazione lamentata”.

In sostanza, la Corte ha ritenuto che gli Stati membri non possono subordinare la concessione di un risarcimento al riconoscimento del carattere colpevole della violazione della normativa sugli appalti pubblici commessa dall’amministrazione aggiudicatrice.

In primo luogo la Corte, dopo aver premesso che la direttiva 89/665 impone agli Stati membri di adottare le misure necessarie per garantire l’esistenza di procedure di ricorso efficaci e, in particolare, quanto più rapide possibile contro le decisioni delle amministrazioni aggiudicatrici che abbiano «violato» il diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici o le norme nazionali di trasposizione di quest’ultimo, e che per quanto riguarda, in particolare, il mezzo di ricorso inteso ad ottenere il risarcimento dei danni, la direttiva 89/665 stabilisce che gli Stati membri fanno sì che i provvedimenti presi ai fini dei ricorsi prevedano i poteri che permettano di accordare tale risarcimento ai soggetti lesi da una violazione, ha chiarito che, tuttavia, la direttiva 89/665 stabilisce solamente i requisiti minimi che le procedure di ricorso istituite negli ordinamenti giuridici nazionali devono rispettare al fine di garantire l’osservanza delle prescrizioni del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici, e che, in mancanza di una disposizione specifica in merito, spetta all’ordinamento giuridico interno di ogni Stato membro determinare le misure necessarie per garantire che le procedure di ricorso consentano effettivamente di accordare un risarcimento ai soggetti lesi da una violazione della normativa sugli appalti pubblici.

Ora, per la Corte “il tenore letterale degli artt. 1, n. 1, e 2, nn. 1, 5 e 6, nonché del sesto ‘considerando’ della direttiva 89/665 non indica in alcun modo che la violazione delle norme sugli appalti pubblici atta a far sorgere un diritto al risarcimento a favore del soggetto leso debba presentare caratteristiche particolari, quale quella di essere connessa ad una colpa, comprovata o presunta, dell’amministrazione aggiudicatrice, oppure quella di non ricadere sotto alcuna causa di esonero di responsabilità”. E tale conclusione sarebbe suffragata, da un lato, dal fatto che gli Stati membri possono prevedere per questo tipo di ricorsi termini ragionevoli da osservarsi a pena di decadenza, e ciò per evitare che i candidati e gli offerenti possano in qualsiasi momento allegare violazioni della normativa suddetta, e dall’altro dalla circostanza che gli stessi hanno la facoltà di prevedere che, dopo la conclusione del contratto successiva all’aggiudicazione dell’ appalto, i poteri dell’organo responsabile delle procedure di ricorso siano limitati alla concessione di un risarcimento.

In tale contesto, ha precisato la Corte, “il rimedio risarcitorio può costituire un’alternativa procedurale compatibile con il principio di effettività, sotteso all’obiettivo di efficacia dei ricorsi perseguito dalla citata direttiva […], soltanto a condizione che la possibilità di riconoscere un risarcimento in caso di violazione delle norme sugli appalti pubblici non sia subordinata – così come non lo sono gli altri mezzi di ricorso… – alla constatazione dell’esistenza di un comportamento colpevole tenuto dall’amministrazione aggiudicatrice”.

Da questo punto di vista, la Corte ha rimarcato che, come rilevato dalla Commissione europea, poco importa al riguardo che la disciplina di riferimento “non faccia gravare sul soggetto leso l’onere della prova dell’esistenza di una colpa dell’amministrazione aggiudicatrice, bensì imponga a quest’ultima di vincere la presunzione di colpevolezza su di essa gravante, limitando i motivi invocabili a tal fine”, perché “quest’ultima normativa genera anch’essa il rischio che l’offerente pregiudicato da una decisione illegittima di un’amministrazione aggiudicatrice venga comunque privato del diritto di ottenere un risarcimento per il danno causato da tale decisione, nel caso in cui l’amministrazione suddetta riesca a vincere la presunzione di colpevolezza su di essa gravante”.

In definitiva, secondo la Corte di Giustizia l’accertamento, a fini risarcitori, della responsabilità di una pubblica Amministrazione per violazione del diritto comunitario deve prescindere da qualsiasi forma di colpevolezza.

Da tutto quanto premesso consegue che non essendoci la necessità di riscontrare nella fattispecie in esame l’elemento soggettivo, solitamente richiesto per la configurabilità di un danno risarcibile, deve essere verificata (solo) la sussistenza degli altri requisiti richiesti per il risarcimento del danno, e cioè la lesione della situazione soggettiva tutelata, l’esistenza di un danno patrimoniale e la sussistenza di un nesso causale tra l’illecito ed il danno subito (in applicazione della citata pronuncia della Corte di Giustizia vedi TAR Catania, sez. IV, 07.12.2010 n. 4624; TAR Lombardia – Brescia, sez. II 04.11.2010 n. 4552; vedi anche, ex multis, Cons. St., sez. V, 08/11/2012 n. 5686, per la precisazione che la regola comunitaria ormai vigente in materia di risarcimento del danno per illegittimità accertate in materia di appalti pubblici, per avere assunto provvedimenti illegittimi lesivi di interessi legittimi, configura una responsabilità non avente natura né contrattuale né extracontrattuale, ma oggettiva, sottratta ad ogni possibile esimente, poiché derivante dal principio generale funzionale a garantire la piena ed effettiva tutela degli interessi delle imprese, a protezione della concorrenza, nel settore degli appalti pubblici. Con la conseguenza che, intesa in questo senso, è dunque evidente che tale regola non può essere circoscritta ai soli appalti comunitari ma deve estendersi, in quanto principio generale di diritto comunitario in materia di effettività della tutela, a tutto il campo degli appalti pubblici, nei quali i principi di diritto comunitario hanno diretta rilevanza ed incidenza, non fosse altro che per il richiamo che ad essi viene fatto dal nostro legislatore nel Codice appalti (art. 2, d.lg. n. 163/2006)).

Va ritenuta infondata l’eccezione, formulata dalla Provincia Regionale, di difetto di legittimazione passiva, basata sulla circostanza che il contratto stipulato con la ditta Agotron a seguito delle ordinanze giurisdizionali aveva previsto una clausola di esonero della propria responsabilità in caso di sentenza definitiva di merito che desse torto a tale impresa. Per cui la Provincia sostiene che qualora si dovesse ritenere che la Agotron non aveva titolo ad effettuare i lavori, deve essere quest’ultima a risarcire eventualmente la ricorrente del mancato utile di impresa relativo alla quota di lavori da essa effettuata, e non certo l’Ente, cui nessuna responsabilità può essere imputata in ordine alla consegna dei lavori in esecuzione di ordinanze giurisdizionali.

Ma per quanto finora detto, quella dell’Ente in materia è una responsabilità oggettiva, per cui in questa sede non può che essere l’Amministrazione a rispondere del danno causato, ininfluente risultando il tipo di previsione contrattuale da essa invocata, utile, tutt’al più, a legittimare una rivalsa nei confronti della Agotron.

3) Per quanto riguarda la situazione soggettiva, l’operato dell’Amministrazione ha violato l’interesse legittimo della ricorrente ad un corretto svolgimento della gara, al quale era sotteso l’interesse pretensivo al c.d. “bene della vita”, rappresentato, in questo caso, dall’aggiudicazione della gara stessa.

E tale violazione ha poi determinato un sicuro danno patrimoniale alla ricorrente, perché nella corretta applicazione delle disposizioni regolatrici della procedura, la ricorrente si sarebbe vista aggiudicare la gara (circostanza questa pacifica), ed avrebbe quindi lucrato il c.d utile d’impresa.

Tale circostanza consente al Collegio di ritenere che la ricorrente ha assolto l’onere probatorio previsto dall’art. 2697 c.c., secondo cui chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda, poiché l’esistenza ("an") del danno è stata provata in modo univoco – dato che con la corretta applicazione delle regole di gara la ricorrente sarebbe stata l’aggiudicataria – e gli elementi prodotti in giudizio sono quindi sufficienti ad emettere una pronuncia che statuisca sul "quantum" spettante a titolo di riparazione pecuniaria.

Appare utile rammentare che, in generale, il pregiudizio risarcibile si compone, secondo la definizione dell’art. 1223 cod. civ., del danno emergente e del lucro cessante, e cioè della diminuzione reale del patrimonio del privato, per effetto di esborsi connessi alla (inutile) partecipazione al procedimento, e della perdita di un’occasione di guadagno o, comunque, di un’utilità economica connessa all’adozione o all’esecuzione del provvedimento illegittimo.

Se per la prima voce di danno non si pongono particolari problemi nell’assolvimento dell'onere della prova (perchè è sufficiente documentare le spese sostenute, che in questo caso il Collegio non ritiene risarcibili, trattandosi di spese che l’impresa avrebbe dovuto comunque affrontare), per la seconda si configurano, viceversa, rilevanti difficoltà.

Per avere accesso al risarcimento, infatti, il privato deve dimostrare non solo che la sua sfera giuridica ha subito una diminuzione per effetto dell’atto illegittimo, ma che non si è accresciuta nella misura che avrebbe raggiunto se il provvedimento viziato non fosse stato adottato o eseguito.

Ora, la descritta circostanza che la ricorrente avrebbe dovuto essere l’aggiudicataria dell’appalto consente di dare per accertata l’esistenza del danno consistente nel mancato guadagno inevitabilmente derivante dalla mancata esecuzione dei lavori.

Per tale tipologia di danno (l’unica chiesta dalla ricorrente), il Collegio ritiene sufficiente precisare che esso è legato al semplice esercizio dell’attività di impresa, finalizzato all’ottenimento di un utile, non essendo pensabile che tale attività sia esercitata in perdita. Tanto è vero che, anche in materia fiscale, quando un soggetto economico dichiara a fini fiscali minori ricavi delle spese sostenute, l’Amministrazione finanziaria è ritenuta legittimata ad effettuare accertamento del tipo analitico-induttivo, che è sempre legittimo quando l'esposizione dei ricavi sia talmente ridotta rispetto ai costi da indurre a ritenere antieconomica la gestione, e quindi a far presumere che il soggetto abbia incamerato ricavi non dichiarati (cfr., ex multis, Cass. Civ., sez. trib., 21/10/2005 n. 20422).

E infatti, come è noto, in materia di illeciti civili in generale la prova del danno può essere articolata con ogni mezzo, ivi comprese le allegazioni e le presunzioni semplici (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. III, 13 giugno 2008 n. 15986, con la precisazione che la relativa dimostrazione deve comunque risultare idonea a consentire al giudice, in applicazione della regula iuris di cui all'art. 116 c.p.c., una valutazione in concreto – e cioè caso per caso, anche a prescindere da mere regole statistiche – dell’assunto attoreo, rappresentato in termini consequenziali di verificazione dell’evento di danno/conseguenza ingiustamente dannosa, secondo la regola di inferenza probatoria del «più probabile che non»).

Si tratta allora di liquidare concretamente il danno, cioè determinare la misura dell’obbligazione pecuniaria dovuta in sostituzione del bene della vita perduto.

In precedenza, sia il legislatore che la giurisprudenza hanno sentito l’esigenza di ricorrere a criteri presuntivi ed astratti di determinazione del danno.

Il primo ha individuato un preciso canone per la determinazione del pregiudizio connesso alla perdita di un’occasione di successo in una procedura concorsuale, definendo, con l’art. 35 del D.Lgs. n. 80/98 (ora abrogato dal n. 20 del comma 1 dell’art. 4 dell’allegato 4 al D.Lgs. 2 luglio 2010 n. 104), un peculiare metodo di liquidazione del danno fondato proprio sulla definizione giudiziale di parametri valutativi indeterminati.

La giurisprudenza amministrativa ha invece individuato in via equitativa, ex art. 1226 c.c., un riferimento positivo, applicato analogicamente in materia di appalti sia di servizi che di forniture, prima nell’art. 345 della L. 20 marzo 1865 n. 2248, allegato F, e poi nell’art. 122 del D.P.R. 21 dicembre 1999 n. 554, nonchè nell’art. 37 septies, comma 1, lett. c, della l. 11 febbraio 1994 n. 109; tutte disposizioni che quantificano nel 10% “dell’importo delle opere non eseguite” l’importo da corrispondere all’appaltatore in caso di recesso facoltativo dell’Amministrazione, nella determinazione forfettaria ed automatica del margine di guadagno presunto nell’esecuzione di appalti di lavori pubblici (cfr., ex multis, Cons. St., sez. IV, 6 luglio 2004 n. 5012; Id., sez. V, 30 luglio 2008 n. 3806).

Tale orientamento, peraltro molto diffuso, non era però seguito in maniera unanime, sostenendosi anche che ai fini del risarcimento dei danni provocati da illegittimo esercizio del potere amministrativo il soggetto che avanza la domanda di risarcimento deve fornire in modo rigoroso la prova dell'esistenza del danno, non potendosi invocare il c.d. principio acquisitivo, perché tale principio attiene allo svolgimento dell'istruttoria e non all'allegazione dei fatti. Inoltre, nel processo amministrativo non sarebbero ammissibili domande di condanna generica ex art. 278 c.p.c., e il ricorso alla c.d. "sentenza sui criteri" – ex art. 35, comma 2, d.lgs. n. 80/1998 – di liquidazione del danno postula che sia stata accertata l’esistenza del danno stesso e che il giudice sia in grado di individuare i criteri generali che saranno di guida per la formulazione dell'offerta da parte della P.A. (cfr. Cons. St., sez. V, 13 giugno 2008 n. 2967).

Il Collegio ritiene che i due orientamenti non siano incompatibili, anche dopo la specificazione per il processo amministrativo – con l’art. 124 del D.Lgs. 104/2010, relativo alla “tutela in forma specifica e per equivalente” – della regola secondo la quale il danno per equivalente, per essere risarcibile, oltre che subìto deve essere anche “provato”.

Tanto è vero che anche dopo l’entrata in vigore di tale disposizione, la giurisprudenza, che questo Collegio condivide, ha precisato, con specifico riferimento ad essa, da una parte che il criterio del 10% del prezzo a base d'asta – che pure è in grado di fondare una presunzione su quello che normalmente è l'utile che un'impresa trae dall'esecuzione di un appalto – non può essere oggetto di applicazione automatica e indifferenziata, e, dall’altra, che la prova, a carico dell'impresa, della percentuale di utile effettivo che avrebbe conseguito se fosse risultata aggiudicataria dell'appalto, può comunque essere desunta dall'esibizione dell'offerta economica presentata al seggio di gara (cfr., ex multis, Cons. St., sez. VI, 09/12/2010 n. 8646).

Nel caso in esame, dal verbale di gara in atti risulta che la media delle offerte ammesse era stata calcolata in L. 0,7786638%, per cui la gara era stata aggiudicata alla ricorrente, la cui offerta, “formulata in L. 0,77%”, era la “più vicina per difetto”.

Pertanto, per quanto riguarda il mancato utile d’impresa, il Collegio ritiene di dover riconoscere, ai sensi del citato art. 1226 c.c., un risarcimento del danno nella misura del 10% dell’importo delle opere, come determinato a seguito del ribasso offerto dalla ricorrente.

4) Spesso la giurisprudenza afferma che in caso di annullamento dell’aggiudicazione, e di certezza dell’aggiudicazione in favore del ricorrente, il mancato utile spetta nella misura integrale solo se il ricorrente dimostri di non aver potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, tenuti a disposizione in vista dell’aggiudicazione; e in difetto di tale dimostrazione, ritiene che l’impresa possa aver ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori o servizi, e di qui la decurtazione del risarcimento (cfr., ex multis, Cons. St., sez. VI, 21 settembre 2010 n. 7004).

Si tratta di un’applicazione del principio dell’aliunde perceptum, in base al quale, onde evitare che a seguito del risarcimento il danneggiato possa trovarsi in una situazione addirittura migliore rispetto a quella in cui si sarebbe trovato in assenza dell’illecito, dall’importo dovuto a titolo risarcitorio va detratto quanto da lui percepito grazie allo svolgimento di diverse attività lucrative, nel periodo in cui avrebbe dovuto eseguire l’appalto in contestazione.

In sostanza, l’onere di provare l’assenza dell’aliunde perceptum viene fatto gravare non sull’Amministrazione, ma sull’impresa, e tale ripartizione muove dalla presunzione, a sua volta fondata sull’id quod plerumque accidit, secondo cui l’imprenditore (specie se in forma societaria), in quanto soggetto che esercita professionalmente una attività economica organizzata finalizzata alla produzione di utili, normalmente non rimane inerte in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, ma si procura prestazioni contrattuali alternative, dalla cui esecuzione trae utili (cfr. Cons. St., sez. VI, 9 giugno 2008 n. 2751).

Il Collegio osserva però che, in base all’art. 2697 c.c., “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”, e “chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda”.

Quindi, è da escludere che l’impresa debba fornire tale dimostrazione, perché in generale l’attore-danneggiato deve provare i fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio, ma non anche dimostrare che non ricorrono, nel caso, fatti impeditivi, modificativi o estintivi (cfr. Cass. civ., sez. III, 25 settembre 1998 n. 9588); e questo sia perché l’onere di provare i fatti estintivi e modificativi del credito spetta alla parte debitrice, cioè nella fattispecie all’Università, nei cui confronti è stata indirizzata la domanda di risarcimento, sia perché la regola di giudizio seguita di solito dalla giurisprudenza conduce a manifeste aporie applicative.

Infatti, il principio messo a punto dalla giurisprudenza, qualora portato alle estreme conseguenze logiche, finirebbe per precludere in ogni caso il risarcimento del danno per mancato utile, e ciò perché, anche nell’ipotesi in cui l’impresa non avesse percepito alcunché per attività lucrative diverse da quelle derivanti dall’esecuzione del contratto non aggiudicato, la stessa non potrebbe mai sperare nell’attribuzione giurisdizionale di un qualunque ristoro in ragione dell’impossibilità, o quanto meno della eccessiva difficoltà, di provare un fatto negativo (consistente, per l’appunto, nel non aver beneficiato di alcun aliunde perceptum).

Inoltre, si perverrebbe al riconoscimento di una legittimazione sostanziale al risarcimento soltanto in capo a quelle imprese le quali, durante l’intero svolgimento della vicenda procedimentale e del processo, siano rimaste del tutto inattive, o, peggio, siano fallite, perchè soltanto in questo caso sarebbe, forse, dimostrabile il mancato guadagno (cfr., in termini, Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., sez giurisd., 21 settembre 2010 n. 1226).

E d’altra parte, anche in materia di determinazione dei danni conseguenti a licenziamento illegittimo, in cui frequentemente viene in rilievo il problema di eventuale guadagno aliunde perceptum, si afferma che è il datore di lavoro, che eccepisca l’"aliunde perceptum" in relazione a redditi del lavoratore maturati dopo la proposizione della domanda, ad avere l’onere della allegazione e della relativa prova (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. lav., 1 settembre 2000 n. 11487; Id., sez. lav., 19 gennaio 2006 n. 945).

In conclusione, il ricorso va accolto, con l’affermazione del diritto della ricorrente al risarcimento dei danni, nei termini sopra indicati.

Sull’importo, come sopra quantificato, l’Amministrazione dovrà poi computare la rivalutazione monetaria maturata, secondo gli indici ISTAT, a decorrere dalla notifica del ricorso introduttivo fino alla data di deposito della presente decisione, giacché con la pubblicazione si verifica la trasformazione del debito di valore in debito di valuta.

Saranno altresì corrisposti gli interessi legali sulle somme sopra indicate, a decorrere dalla data di pubblicazione sopra indicata fino all’effettivo soddisfo.

In considerazione del parziale rigetto del ricorso in relazione al prezzo chiuso, le spese vengono compensate solo in parte, e seguono la soccombenza per il resto, e liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia – Sezione staccata di Catania – Sezione I, definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, lo accoglie in parte, nei termini di cui in motivazione, e per l’effetto accerta il diritto della ricorrente al risarcimento del danno legato alla mancata esecuzione dei lavori.

Condanna l’Amministrazione intimata al pagamento di parte delle spese di giudizio, liquidate in € 4.000,00, oltre accessori, e al rimborso del contributo unificato.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Catania nella camera di consiglio del giorno 7 luglio 2016 con l'intervento dei magistrati:

Antonio Vinciguerra, Presidente

Dauno Trebastoni, Consigliere, Estensore

Agnese Anna Barone, Consigliere


[1] L’articolo 124 del decreto legislativo del 2 luglio 2010 n.104 “Tutela in forma specifica e per equivalente”, al primo comma, così dispone “l’accoglimento della domanda di conseguire l’aggiudicazione e il contratto è comunque condizionato alla dichiarazione di inefficacia del contratto ai sensi degli articoli 121, comma 1, e 122. Se il giudice non dichiara l’inefficacia del contratto dispone il risarcimento del danno per equivalente, subito e provato”.

[2] Le disposizioni di legge, che quantificano nel 10% dell’importo delle opere non eseguite il margine di guadagno presunto nell’esecuzione di appalti di lavori pubblici da corrispondere all’appaltatore in caso di recesso facoltativo dell’Amministrazione, sono le seguenti: articolo 345 della legge 20 marzo 1865 n.2248, allegato F; articolo 122 del D.P.R. del 21 dicembre 1999 n.554 e articolo 37 septies, comma 1, lett. c, della legge dell’11 febbraio 1994 n.109.

[3] Cfr. Consiglio di Giustizia Amministrativa, 28.01.2015 n.73.

[4] Conformi, ex multis, Consiglio di Stato, Sezione VI, 10.12.2015, n. 5611 e 09.12.2010 n. 8646; Sezione III, 25.06.2013, n.3437.

[5] Il Consiglio di Stato, Sezione VI, con la sentenza del 21.09.2010 n. 7004 ha ritenuto che in difetto di tale dimostrazione, è da ritenere che l'impresa possa aver ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori o servizi; sicché ha ritenuto ragionevole la detrazione dal risarcimento del mancato utile, nella misura del 50%, sia dell'aliunde perceptum sia dell'aliunde percipiendum con l'originaria diligenza.